Esistevano soltanto tre persone importanti nel mondo di Vernon: la Tata, Dio e il signor Green. V’erano, naturalmente, le cameriere. Winnie, quella attuale, e prima di lei Jane e Annie e Sarah e Gladys. Vernon riusciva a ricordare soltanto queste, ma ve n’erano state molte di più. Le cameriere addette alla stanza dei bambini non rimanevano mai a lungo perché non riuscivano ad andare d’accordo con la bambinaia. E non contavano quasi nulla nel mondo di Vernon.
Esisteva anche una sorta di duplice divinità denominata mammina-paparino; veniva menzionata da Vernon nelle sue preghiere e inoltre era collegata allo scendere al pianterreno per il dessert. Trattavasi di personaggi vaghi, piuttosto belli e meravigliosi – specie mammina –, ma anch’essi non facevano parte del mondo reale, del mondo di Vernon.
Le cose che facevano parte del mondo di Vernon erano davvero molto reali. La moquette al piano della camera dei bambini, per esempio. Era a strisce verdi e bianche, alquanto ruvida per le ginocchia nude, e in un angolo vi si trovava un buco che Vernon soleva allargare di nascosto facendovi scorrere le dita in tondo in tondo. V’erano le pareti della camera dei bambini, con i giaggioli color malva intrecciati insieme all’infinito dal basso in alto, formando un disegno che a volte sembrava essere una fila di rombi e a volte, se lo guardavi abbastanza a lungo, una fila di croci. Questo sembrava a Vernon molto interessante e alquanto magico.
Contro una delle pareti si trovava un cavallo a dondolo, ma Vernon lo cavalcava di rado. V’erano una locomotiva di vimini e alcuni autocarri anch’essi di vimini con i quali giocava moltissimo. V’era una bassa credenza piena di giocattoli più o meno rotti. Su una mensola si trovavano le cose più divertenti, quelle con le quali si giocava nelle giornate di pioggia o quando la bambinaia era insolitamente di buon umore. La scatola dei colori figurava tra gli oggetti sulla mensola, insieme ai pennelli di vero pelo di cammello e a una pila di giornalini illustrati da ritagliare. In effetti, tutte le cose che, secondo la bambinaia, erano “quei pasticci che non sopporto di vedermi intorno”. In altre parole le cose migliori.
E, al centro di quel realistico universo che era la camera dei bambini, dominando ogni cosa, campeggiava la bambinaia stessa. Il Personaggio n° 1 della Trinità di Vernon. Molto grande e grossa, molto inamidata e frusciante. Onnisciente e onnipotente. Non riuscivi mai a prevalere sulla bambinaia. Lei la sapeva più lunga di tutti i bimbetti, e lo diceva spesso. Aveva trascorso tutta la sua esistenza badando ai bambini (e, tra parentesi, anche alle bambine, ma queste ultime non interessavano a Vernon), e tutti, dal primo all’ultimo, erano cresciuti in modo da farle onore, anche se, a volte, la cosa non sembrava probabile. V’era un qualcosa che incuteva timore nella bambinaia, ma che, al contempo, riusciva a essere infinitamente consolante. Lei sapeva rispondere a ogni interrogativo. Ad esempio, quando Vernon prospettò l’enigma dei rombi e delle croci sulla carta da parati.
«Ah, be’!» fece la bambinaia. «Vi sono due modi di vedere ogni cosa. Devi averlo sentito dire.»
E siccome Vernon le aveva sentito dire press’a poco la stessa cosa a Winnie, un giorno si ritenne soddisfatto. Quell’altra volta, la bambinaia aveva soggiunto che ogni domanda presentava sempre due aspetti e, da quel momento in poi, Vernon si era sempre raffigurato una domanda come qualcosa di simile alla lettera A con croci che si arrampicavano su per un suo lato e rombi che scendevano lungo quello opposto.
Dopo la bambinaia veniva Dio. Dio era sempre molto reale per Vernon, soprattutto perché figurava in misura così massiccia nella conversazione della bambinaia. La bambinaia sapeva quasi tutto quello che tu facevi, ma Dio sapeva tutto, e Dio era, se possibile, più meticoloso della bambinaia. Dio era invisibile e questo, pensava sempre Vernon, gli assicurava un vantaggio alquanto sleale su di te, perché lui poteva vederti. A volte, quando Vernon si trovava a letto, la notte, l’idea che Dio lo stesse guardando attraverso le tenebre soleva fargli correre un brivido lungo la spina dorsale.
Ma, complessivamente, Dio era un essere intangibile in confronto alla bambinaia. Potevi dimenticarti di lui quasi sempre. Fino a quando, cioè, la bambinaia non lo tirava deliberatamente in ballo nella conversazione.
Una volta Vernon tentò la ribellione.
«Senti, Tata, lo sai che cosa farò quando sarò morto?»
La bambinaia, che stava lavorando a maglia una calza, disse: «Uno, due, tre, quattro, ecco, ho lasciato cadere un punto. No, padroncino Vernon, non lo so di sicuro».
«Andrò in paradiso. Sì, andrò in paradiso. E mi avvicinerò subito a Dio. Andrò a mettermi proprio di fronte a lui, e gli dirò: “Sei un uomo orribile, e io ti odio!”.»
Silenzio. Era fatta. Lo aveva detto. Un’audacia incredibile, senza precedenti! Che cosa sarebbe accaduto? Quale castigo spaventoso, terrestre o celeste, sarebbe calato su di lui? Aspettò, trattenendo il respiro.
La bambinaia era riuscita a riprendere la maglia. Sbirciò Vernon al di sopra degli occhiali. Era serena... imperturbabile.
«È improbabile» osservò «che l’Onnipotente badi a quello che pensa un bimbetto cattivo. Winnie, dammi quelle forbici, per piacere.»
Vernon batté in ritirata mortificato. Niente da fare. Non si poteva avere la meglio con la bambinaia. Avrebbe dovuto saperlo.
E poi c’era il signor Green. Il signor Green era come Dio, in quanto non potevi vederlo, ma per Vernon rappresentava qualcosa di molto reale. Vernon sapeva esattamente, ad esempio, qual era l’aspetto del signor Green: statura media, corporatura robusta, una lieve somiglianza con il droghiere del villaggio che cantava – incerto baritono – nel coro, gote di un bel rosso vivido e favoriti. Aveva gli occhi azzurri, di un azzurro molto luminoso. La gran cosa del signor Green consisteva nel fatto che giocava, che gli piaceva giocare. Qualsiasi gioco potesse venire in mente a Vernon, si trattava proprio del gioco che al signor Green piaceva fare. Ma v’erano anche altri punti a suo favore. Egli aveva, ad esempio, cento figli. Più altri tre. I cento, nell’immaginazione di Vernon, rimanevano tutti uniti, una turba gioiosa che correva lungo i viali fra i tassi, dietro a Vernon e al signor Green. Ma gli altri tre erano diversi. Si chiamavano con i tre più bei nomi che Vernon conoscesse, Barboncino, Scoiattolo e Albero.
Vernon era forse un bimbetto solitario, ma non se ne accorgeva mai. Perché, vedete, aveva il signor Green e Barboncino e Scoiattolo e Albero con cui giocare.
Per molto tempo, Vernon non seppe con certezza dove si trovasse la casa del signor Green. Poi gli accadde di pensare, del tutto all’improvviso, che il signor Green dovesse certo abitare nella foresta. La foresta aveva sempre affascinato Vernon. Un lato del parco confinava con essa. V’era un alto steccato verde e Vernon soleva strisciare lungo lo steccato sperando in uno spiraglio che gli consentisse di vedere dall’altro lato. Si continuava a udire bisbigli e sospiri e fruscii, come se gli alberi si stessero parlando a vicenda. A metà strada v’era una porta, ma, ahimè, rimaneva sempre chiusa a chiave, per cui Vernon non riusciva mai a vedere come fosse realmente la foresta.
La bambinaia, naturalmente, non lo conduceva mai là. Era come tutte le bambinaie e preferiva una passeggiata piacevole e tranquilla lungo la strada, senza sporcarsi le scarpe con tutte quelle brutte foglie umide. Così, a Vernon non veniva mai consentito di andare nella foresta; e questo faceva sì che pensasse a essa come non mai. Un giorno o l’altro vi sarebbe andato a prendere il tè dal signor Green. Barboncino, Scoiattolo e Albero avrebbero dovuto mettersi un vestito nuovo per l’occasione.
La camera dei bambini stancò Vernon. Era troppo piccola. Lui sapeva ormai tutto quello che v’era da sapere di essa. Il giardino era diverso; si trattava di un giardino davvero entusiasmante. Vi si trovavano tanti di quei posticini diversi. I lunghi vialetti tra le siepi di tasso potate, con gli uccelli ornamentali, la vasca con i grossi pesci rossi, il frutteto cintato da un muro, il tratto abbandonato, con i fiori di mandorlo in primavera, e il boschetto di betulle argentee sotto le quali crescevano le campanule; ma, più bello d’ogni altro, il tratto recintato, dove si trovavano le rovine dell’antica abbazia. Quello era il posto in cui a Vernon sarebbe piaciuto sfrenarsi, arrampicarsi ed esplorare. Ma non vi riusciva mai. Nel resto del giardino faceva quasi tutto quello che gli piaceva. Winnie veniva sempre mandata con lui, ma siccome, in seguito a coincidenze davvero strane, sembravano imbattersi sistematicamente nell’aiutogiardiniere, Vernon poteva dedicarsi ai suoi giochi senza essere ostacolato da un’eccessiva sorveglianza da parte di lei.
A poco a poco, il mondo di Vernon si ampliò. La stella doppia, mammina-papi, si separò, tramutandosi in due singole persone. Papi rimase nebuloso, mentre mammina divenne un vero e proprio personaggio. Lei veniva spesso a fargli visitine nella camera dei bambini “per giocare con il mio tesoruccio”. Vernon sopportava quelle visite con gravità e cortesia, sebbene di solito lo costringessero a rinunciare al gioco al quale si stava dedicando e a gradirne un altro che, a parer suo, non era altrettanto divertente. A volte accompagnavano la mamma signore venute a trovarla, e allora lei stringeva a sé forte forte Vernon (cosa che lui non poteva soffrire) ed esclamava:
«È talmente meraviglioso essere mamma! Non sono mai riuscita ad abituarmici. Avere un tesoruccio di bambino tutto mio!»
Molto rosso in viso, Vernon si districava da quell’abbraccio. Perché lui non era affatto un bambino. Aveva tre anni, ormai.
Un giorno, mentre si guardava intorno nella stanza, subito dopo una scenetta come quella descritta sopra, scorse suo padre che, in piedi accanto alla porta, lo osservava con occhi sardonici. I loro sguardi si incrociarono. Una sorta di messaggio parve passare tra l’uno e l’altro... comprensione... una sensazione di affinità di carattere.
Le amiche di sua madre stavano conversando.
«È un vero peccato, Myra, che non somigli a te. I tuoi capelli sarebbero stati meravigliosi su un bambino.»
Ma Vernon venne pervaso da un’improvvisa sensazione d’orgoglio. Somigliava a suo padre.
Vernon ricordava sempre il giorno in cui era venuta a pranzo la signora americana. Tanto per cominciare, a causa delle spi...