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La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata
- 126 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
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La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata
Informazioni su questo libro
Un paese arido e spopolato, bagnato da un mare crudele che lo ricopre di "pattume", improvvisamente pervaso da un insopprimibile odore di rose. Il cadavere di un annegato, dalle dimensioni sovrumane e dalla bellezza travolgente, che, approdato sulla spiaggia di un minuscolo villaggio caraibico, ne sconvolge per un attimo la lenta vita.
Le straordinarie creazioni di Babilano, ciarlatano e inventore, indovino e taumaturgo, mago e artista. Queste, con altre, le fantastiche immagini ispiratrici dei sette racconti-fiaba che testimoniano la stagione più consapevole e felice di Márquez.
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Informazioni
Print ISBN
9788804543220eBook ISBN
9788852023590La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata
(1972)
Eréndira stava facendo il bagno alla nonna quando si alzò il vento della sua disgrazia. L’enorme villa di malta lunare, sperduta nella solitudine del deserto, tremò fin dalle fondamenta al primo assalto. Ma Eréndira e la nonna erano abituate ai rischi di quella natura sfrenata, e notarono appena la forza del vento nel bagno decorato con serie di pavoni e mosaici puerili da terme romane.
La nonna, grande e nuda, sembrava una bella balena bianca nella vasca di marmo. La nipote aveva appena compiuto quattordici anni, ed era languida e di ossa tenere, e troppo mite per la sua età. Con una parsimonia che aveva in sé una sorta di rigore sacro, faceva abluzioni alla nonna usando un’acqua in cui aveva bollito piante depurative e foglie odorose, che restavano attaccate alla schiena abbondante, ai capelli metallici e sciolti, alla spalla potente tatuata senza pietà come quella beffarda dei marinai.
«Stanotte ho sognato che stavo aspettando una lettera» disse la nonna.
Eréndira, che non parlava se non per motivi ineluttabili, domandò:
«Che giorno era nel sogno?»
«Giovedì.»
«Allora era una lettera con brutte notizie,» disse Eréndira «ma non arriverà mai.»
Quando ebbe finito di farle il bagno, portò la nonna nella sua camera. Era così grassa che poteva camminare soltanto appoggiandosi alla spalla della nipote, o con un bastone che sembrava da vescovo, ma anche quando faceva le cose più faticose si notava in lei l’autorità di una passata grandezza. Nell’alcova, arredata con gusto eccessivo e un po’ demenziale come tutta la casa, Eréndira ebbe bisogno di altre due ore per far bella la nonna. Le districò i capelli uno per uno, glieli profumò e glieli pettinò, le mise un vestito a fiori equatoriali, le incipriò la faccia con il talco, le coprì di belletto le guance, le dipinse le labbra con il rossetto, le palpebre con il muschio e le unghie con uno smalto madreperlato, e quando fu tutta agghindata come una bambola più grande di una donna vera la portò in un giardino artificiale dai fiori soffocanti come quelli del vestito, la fece sedere su una poltrona che aveva l’ampiezza e la nobiltà di un trono e la lasciò ad ascoltare i dischi fugaci del grammofono a tromba.
Mentre la nonna navigava nelle paludi del passato, Eréndira si occupò di spazzare la casa, che era buia ed eterogenea, con mobili frenetici e statue di cesari inventati, e lampadari a gocce e angeli di alabastro, e un pianoforte dorato e numerosi orologi dalle forme e misure imprevedibili. Nel cortile c’era una cisterna dove si immagazzinava per anni l’acqua portata a dorso di indio da sorgenti remote, e legato a un anello della cisterna c’era uno struzzo rachitico, l’unico pennuto che fosse stato capace di resistere ai tormenti di quel clima malvagio. La casa era lontana da tutto, nel cuore del deserto, accanto a un mucchio di baracche con strade torride e miserabili, dove i becchi si suicidavano dalla disperazione quando soffiava vento di disgrazia.
Quel rifugio incomprensibile era stato costruito dal marito della nonna, un leggendario contrabbandiere di nome Amadís, da cui lei aveva avuto un figlio che di nuovo si chiamava Amadís ed era il padre di Eréndira. Nessuno conosceva le origini né i motivi della famiglia. La versione più diffusa nella lingua degli indios era che Amadís padre aveva salvato la sua bella moglie da un postribolo delle Antille, dove aveva ucciso un uomo a coltellate, e l’aveva portata a vivere per sempre nell’impunità del deserto. Quando gli Amadís erano morti, uno di febbri malinconiche, l’altro crivellato in una lite fra rivali, la donna aveva seppellito i cadaveri nel cortile, aveva mandato via le quattordici serve scalze, e aveva continuato a nutrire i suoi sogni di grandezza nella penombra di quella casa furtiva grazie al sacrificio della nipote bastarda, allevata da lei fin dalla nascita.
Solo per dare la corda agli orologi e regolarli Eréndira aveva bisogno di sei ore. Il giorno in cui ebbe inizio la sua disgrazia non dovette occuparsene, perché gli orologi avevano corda fino alla mattina dopo, ma in cambio dovette fare il bagno e vestire di tutto punto la nonna, lavare i pavimenti, preparare il pranzo e pulire la cristalleria. Verso le undici, quando cambiò l’acqua nel secchio allo struzzo e innaffiò le erbacce desertiche sulle tombe contigue degli Amadís, dovette opporsi alla furia del vento ormai insopportabile, ma non colse il funesto presagio che quello era il vento della sua disgrazia. A mezzogiorno stava lucidando le ultime coppe di champagne, quando sentì un odore di brodo fresco, e fu un vero miracolo se per correre in cucina non lasciò al suo passaggio un disastro di vetri veneziani.
Fece appena in tempo a togliere dal fuoco la pentola che iniziava a traboccare sul fornello. Poi mise su un intingolo già preparato, e approfittò dell’occasione per sedersi a riposare su una panca della cucina. Chiuse gli occhi, li riaprì senza la minima espressione di stanchezza, e iniziò a versare la minestra nella zuppiera. Lavorava nel sonno.
La nonna si era seduta da sola all’estremità di una tavola da banchetti con candelabri d’argento e coperti per dodici persone. Suonò la campanella e quasi istantaneamente comparve Eréndira con la zuppiera fumante. Nel momento in cui le serviva la minestra, la nonna notò i suoi modi da sonnambula e le passò la mano davanti agli occhi come pulisse un vetro invisibile. La bambina non vide la mano. La nonna seguì Eréndira con lo sguardo, e quando le voltò le spalle per tornare in cucina le gridò:
«Eréndira.»
Svegliata di colpo, la bambina lasciò cadere la zuppiera sul tappeto.
«Non è niente, figliola» le disse la nonna con una certa tenerezza. «Ti sei di nuovo addormentata camminando.»
«Il corpo è abituato così» si scusò Eréndira.
Raccolse la zuppiera, ancora intontita dal sonno, e cercò di pulire la macchia sul tappeto.
«Lascia stare» la dissuase la nonna «lo lavi oggi pomeriggio.»
Così, oltre alle normali faccende pomeridiane, Eréndira dovette lavare il tappeto della sala da pranzo, e visto che era già al lavatoio ne approfittò per fare anche il bucato del lunedì, mentre il vento girava e rigirava intorno alla casa cercando un buco per infilarcisi. Ebbe così tanto da fare che la notte le piombò addosso senza che se ne accorgesse, e una volta rimesso il tappeto in sala da pranzo era ormai ora di andare a letto.
La nonna aveva strimpellato il piano tutto il pomeriggio, cantando tra sé in falsetto le canzoni dei suoi tempi, e sulle palpebre aveva ancora sbavature di muschio misto a lacrime. Ma quando si sdraiò nel letto, dopo aver indossato la camicia da notte di mussolina, si era ormai ripresa dall’amarezza dei bei ricordi.
«Approfitta di domani per lavare il tappeto del salotto,» disse a Eréndira «che non ha più visto il sole dai tempi del rumore.»
«Sì, nonna» rispose la bambina.
Prese un ventaglio di piume e iniziò a far vento alla matrona implacabile che sprofondando nel sonno le recitava il codice dell’ordine notturno.
«Stira tutta la biancheria prima di andare a letto così dormi con la coscienza tranquilla.»
«Sì, nonna.»
«Controlla bene gli armadi, perché nelle notti di vento le tarme hanno più fame.»
«Sì, nonna.»
«Nel tempo che ti avanza porta i fiori in cortile così prendono aria.»
«Sì, nonna.»
«E dai il mangime allo struzzo.»
Si era addormentata ma non smise di impartire ordini, perché era da lei che la nipote aveva ereditato la dote di continuare a vivere nel sonno. Eréndira uscì dalla stanza senza far rumore e sbrigò le ultime faccende della sera, rispondendo sempre ai comandi della nonna addormentata.
«Dai da bere alle tombe.»
«Sì, nonna.»
«Prima di andare a letto bada che sia tutto in perfetto ordine, perché le cose soffrono molto se non vengono messe a dormire al loro posto.»
«Sì, nonna.»
«E se vengono gli Amadís, avvisali di non entrare,» disse la nonna «perché la banda di Porfirio Galán li sta aspettando per ucciderli.»
Eréndira smise di risponderle perché sapeva che cominciava a perdersi nel delirio, ma non saltò neppure un ordine. Quando ebbe finito di controllare che le finestre fossero chiuse ed ebbe spento le ultime lampade, prese un candelabro in sala da pranzo e si fece luce fin nella sua camera, mentre le pause del vento erano invase dal respiro placido ed enorme della nonna addormentata.
La sua stanza era lussuosa, anche se non quanto quella della nonna, e strapiena delle bambole di pezza e degli animali a molla della sua infanzia ancora recente. Sfinita dai lavori massacranti della giornata, Eréndira non ebbe la forza di svestirsi, posò il candelabro sul comodino e si sdraiò sul letto. Poco dopo, il vento della sua disgrazia si infilò nella camera come un’orda di cani e rovesciò il candelabro sulle tende.
All’alba, quando il vento finalmente cessò, iniziarono a cadere gocce di pioggia grosse e isolate che spensero le ultime braci e indurirono le ceneri fumanti della villa. La gente del villaggio, indios per lo più, cercava di recuperare i resti del disastro: il cadavere carbonizzato dello struzzo, il telaio del piano dorato, il torso di una statua. La nonna contemplava con una desolazione impenetrabile le spoglie della sua fortuna. Eréndira, seduta fra le due tombe degli Amadís, non piangeva più. Quando la nonna si convinse che restavano ben poche cose intatte fra le macerie, guardò la nipote con sincera compassione.
«Mia povera bambina» sospirò. «Non vivrai abbastanza a lungo per risarcirmi i danni.»
Iniziò a risarcirli quel giorno stesso, sotto il fragore della pioggia, quando la nonna la portò dal bottegaio del villaggio, un uomo macilento, vedovo prematuro, molto noto nel deserto perché pagava a buon prezzo la verginità. Mentre la nonna aspettava impavida, il vedovo esaminò Eréndira con rigore scientifico: considerò la forza delle sue cosce, le dimensioni dei suoi seni, il diametro dei suoi fianchi. Non disse una parola finché non ebbe calcolato il suo valore.
«È ancora molto acerba,» dichiarò allora «ha due tettine da cagna.»
Poi la fece salire su una bilancia per confermare coi numeri il suo verdetto. Eréndira pesava quarantadue chili.
«Non vale più di cento pesos» disse il vedovo.
La nonna si indignò.
«Cento pesos per una creatura completamente nuova!» quasi gridò. «No, caro mio, questo vuol proprio dire mancare di rispetto alla virtù.»
«Non più di centocinquanta» ribatté il vedovo.
«La bambina mi ha fatto danni per oltre un milione di pesos» disse la nonna. «Di questo passo le servirebbero più o meno duecento anni per ripagarmi.»
«Fortunatamente ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata
- Un signore molto vecchio con due ali enormi
- Il mare del tempo perduto
- L’annegato più bello del mondo
- Morte costante al di là dell’amore
- L’ultimo viaggio della nave fantasma
- Blacamán il buono, venditore di miracoli
- La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata
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