Non mi è mai piaciuto viaggiare in treno, né in aereo, né in macchina, e in generale per me partire è sempre una rottura di coglioni, come scrivere, come vivere, come tutto, benché scrivere sia sempre meglio che vivere. Gli ebrei hanno vita facile: ogni volta che devono sceneggiarsi in un dramma tirano fuori l’Olocausto. I cattolici non sono da meno: hanno il peccato originale, il diluvio universale, la crocifissione. Per me è più complicato: un procariote, un cianobatterio, un artropode, un lobopode, una molecola di RNA, sono già troppo, non posso accontentarmi del minimo biologico, devo avere ancora meno per poter dire e scrivere il nulla del tutto, il quasi nulla, l’immane tragedia di una qualsivoglia chimica elementare a procedere.
Sull’Eurostar Roma-Venezia sarebbe stato un viaggio tranquillo se non avessi avuto accanto un padre con una figlia nell’età delle domande, soprattutto l’età delle risposte dei genitori, e basterebbe ascoltare le risposte dei genitori per capire l’inutilità della scolarizzazione. Un genitore medio non sa neppure cosa sono le stagioni, se un figlio glielo chiede dà le risposte più assurde, oppure risponde tautologicamente, perché è così. Inoltre ai bambini, poiché i genitori sono terrorizzati dalla morte, si raccontano favole rassicuranti, non così dissimili dalla produzione letteraria per adulti. Non stavano mai zitti.
«Papà, come fa l’aereo a volare?» diceva la bambina indicando il cielo fuori dal finestrino.
«Perché ha le ali che prendono il vento.»
«E se non c’è il vento l’aereo non vola, papà?»
«Uhm... be’... vola lo stesso tesoro, perché ci sono i motori. I motori producono il vento.»
«Ma senza le ali l’aereo non vola?»
«No, tesoro.»
«E i razzi, papà, i razzi non hanno le ali, papà, perché?»
«Uhm... già è vero... non hanno le ali... Tesoro, infatti i razzi vanno solo verso l’alto, non vanno mai orizzontali...»
In genere sono molto tollerante con le persone intorno, nei luoghi pubblici non vedo e non sento nulla, mi sembra tutto uno scenario da cui prendere spunto per dislocarmi altrove. Ma a volte anch’io ho dei guizzi di intolleranza esplicita e ho detto: «E i missili, papà? I missili balistici, papà? Un LIM-49A Spartan, un A-135, un MIM-104 Patriot, un ABM-4 Gordon, come cazzo volano?».
Papà mi ha fissato, ha guardato la bambina che ha guardato me e ha riguardato papà interrogativamente, pretendendo una risposta. Alla fine papà, per uscire dall’imbarazzo, ha sfoderato un sorriso forzato e ha detto alla bambina, senza alcuna ironia nei miei confronti: «Ora ce lo spiega il signore, come volano i missili, tesoro».
«No, guardi, la figlia è sua. Si compri un iPhone, almeno a ogni domanda di sua figlia consulta Wikipedia» ho risposto troppo acidamente, ancora me ne pento. Perché papà, lo sguardo di papà, mi ha suscitato pena, gli uomini li detesto ma detesto anche trovarli disarmati, sono talmente abituato all’arroganza dell’ignoranza che di fronte a un silenzio colpevole mi sento in colpa io.
Quando papà e figlia sono andati al vagone ristorante mi è venuto in mente di masturbarmi riascoltando l’ultimo messaggio della donna che mi chiama maiale registrato con la mia nuova applicazione dell’iPhone, ma era solo un’idea, non avevo voglia di percorrere il tragitto dal mio sedile alla toilette neppure per pisciare, e in fondo la vecchiaia è questo, quando ti passa anche la voglia della voglia di farti una sega, quando ti passa anche la voglia di andare a pisciare, quando ti viene da pisciarti addosso, e infatti ho chiuso gli occhi e mi sono pisciato addosso con grande soddisfazione interiore, pisciarsi sotto è l’inizio dell’infanzia e la trasgressione della senescenza, e mentre l’orina mi bagnava le mutande e poi scendeva in un rivolo tiepido lungo le cosce e giù all’interno delle Nike stavo ascoltando Too Much Love Will Kill You dei Queen, e Freddie cantava: I’m just the shadow of the man I used to be.
I’m just the shadow of the man I used to be e, arrivato a Venezia, telefono subito alle tre morte. Risponde Deliziosa: grande sorpresa, gran tripudio, grande attesa sul Canal Grande, non sono ancora arrivato, sono ancora al telefono e già le altre due hanno tirato fuori l’argenteria e stanno apparecchiando.
Qui non mi danno fastidio i turisti, non sono persone, ammesso che le persone siano qualcosa i turisti sono ancora meno, meno ancora dei piccioni di cui tutti si lamentano lanciandogli briciole di cornetti in piazza San Marco. I turisti sono parte dello scenario e dell’Occidente più cialtrone, e tuttavia pur scansandoli mi piace guardarli e non sospiro neppure sul Ponte dei Sospiri. I turisti sono comparse interscambiabili, se ne fucilassero cinquanta in piazza San Marco potrebbero essere rimpiazzati da altri cinquanta identici e nessuno se ne darebbe tanta pena, come del resto quando accade qualche attentato all’estero, quando casca un aereo, quando rapiscono degli ostaggi, l’unica preoccupazione è se ci siano o non ci siano connazionali: danno la notizia della sciagura e poi specificano nessun italiano tra le vittime e si tira un sospiro di sollievo; solo le malattie non endemiche sono timori internazionali, allorché annunciano lo scoppio di una febbre suina in Messico guardi con sospetto il vicino perché potrebbe contagiarti.
Non faccio in tempo a mettere piede a Mestre che mi squilla l’iPhone e so chi è.
«Agostinelli, ora non posso.»
«Bimbo, ma quando arrivi?» fa invece la vocina di Letizia.
«Sono per strada a...», mi guardo intorno e penso di fermarmi al caffè Gondola D’Oro per la prima birra della giornata, non si sa mai. Ho preso l’abitudine di bere prima di qualsiasi incontro, televisivo e non, altrimenti non riesco a parlare con nessuno, neppure a tacere, senza provare una noia mortale.
«Quasi lì, tranquille...» dico rabbrividendo.
Quando venni qui anni fa per scrivere un articolo sulla Biennale il nome di Kara Murnau aleggiava nella laguna e ti rimaneva impresso come le canzoni che detesti. Dovevo essere già in un punto della spirale di eventi che mi ha portato fin qui, ma per me era solo un nome come un altro, mi arrivava nel timpano come un’interferenza del mio stream of unconsciousness e di volta in volta cercavo di dimenticarlo perché era uno di quei personaggi molto conosciuti della mondanità radicalchic, e perché odio ricordare ciò che non mi interessa e nel mio intimo cerco di non farmi interessare niente, non ho più vent’anni, non ne ho più neppure trenta, e secondo Leopardi la vecchiezza ha inizio prestissimo, al quinto lustro, quindi è un miracolo che io, per come mi sento e per come la penso, sia ancora vivo.
Dalla stazione di Venezia Santa Lucia alla casa delle tre morte cerco di provare qualcosa e provo meno del previsto, mi perdo volutamente allungando il percorso, ogni tanto faccio sosta a un bar per arrivare almeno con l’allegria beat di due Vodka Lemon in circolo nei globuli bianchi e rossi e nel ketoprofene e sale di lisina e me ne sto a contemplare il cielo sul mio iPhone 4S, guardando Spiral Arms, Spiral Disc, Super Boom, Whirlpool Galaxy, X-Cloud.
I luoghi dei ricordi sono luoghi della mente e non ho abbastanza fantasia per farli coincidere col passato, sono troppo uguali, benché questi anni trascorsi mi sembrino molte vite fa. Non conoscevo ancora Kara Murnau né Valentina Mannella né Mickey Mouse, e prendevo appunti per Contronatura mentre ricevevo le lettere di Madame Medusa, bei tempi, o forse no, si rimpiange sempre il passato perché è ormai passato, a saperlo lo vivevamo meglio. Anni fa ripassai anche nei miei cosiddetti luoghi d’infanzia, erano così uguali che di quel poco che restava dei miei ricordi di bambino non è rimasto niente, beato Celentano che ha avuto la via Gluck spianata dal cemento e può passare il resto della vita a cantare che là dove c’era l’erba ora c’è una città. Ha cementificato per trent’anni i coglioni agli altri ma lui è salvo.
Di ponticello in ponticello, di calle in calle, di callo in callo dei turisti più ciabattoni su cui mi casca l’occhio, mi ricordo il soggiorno con Mirta Martinato, il nostro matrimonio, ecco il ricordo che dovrebbe suscitarmi qualche alta marea di emotività e invece niente perché io non ci ho mai creduto neppure allora. C’era l’emozione della giovinezza di Mirta Martinato, di essermi messo con una ragazza così giovane per me, e tuttavia averla sposata era una trasgressione troppo kitsch per non neutralizzare le bomboniere e pensare già al divorzio durante il viaggio di nozze. Eravamo andati a Venezia perché avevo ceduto perfino alla perversione delle bomboniere, bomboniera più, bomboniera meno tanto valeva viversela standoci in mezzo, tra i merletti di piazza San Marco.
È l’allegria dei giovani che attira i vecchi come zanzare verso la luce che li fulminerà, e non so se sto venendo dalle tre morte perché sono tre giurate influenti del Premio Strenna, per stare al gioco della Murnau fino in fondo, o se solo per allestire una zanzariera a baldacchino da cui ottenere almeno una scossa adrenalinica, e a proposito: Agostinelli ha detto che all’ultima festa organizzata dalla Murnau Editore c’erano anche loro, lo ha letto su un quotidiano free press, mentre “Repubblica” si soffermava su un’inchiesta partita dalla Procura di Milano contro Kara Murnau, a proposito di alcune feste e giri di ragazze annesse e connesse, e comunque sia, secondo Agostinelli due anni fa Valentina e Mickey Mouse sono stati proprio qui, ma Mickey Mouse non lavorava ancora in radio e soprattutto era in condizioni fisiche ben diverse da adesso, e cioè camminava con le sue gambe.
«Ciao tesoroooo!» prorompe Deliziosa, che mi apre scalza e in palandrana floreale stampandomi un bacio di rossetto su una guancia e inondandomi le narici di Patchouli.
«È arrivato il nostro scrittore preferito!», preferito non certo per la scrittura, visto che, essendo tre giurate del Premio Strenna, i libri non li leggono.
«Tesorooo! Ecco la nuova scoperta della Kara! Ma che bel ragazzo!» le fa eco Letizia, spuntando fuori dal corridoio.
Quel minimo di relazioni sociali che ancora mi erano rimaste prima che tagliassi i ponti con chiunque le dovevo, secondo la Murnau, non solo a lei ma anche a Letizia e Deliziosa e Celeste, alle quali si era rivolta per riscattarmi dal mio isolamento volontario e però divenuto così irreversibile da risultare imposto dagli altri. Non mi invitavano più da nessuna parte, non recensivano i miei libri e neppure mi pubblicavano più perché ero una mina vagante, e io non me ne preoccupavo più di tanto, e tuttavia ormai nella mia terra bruciata senza altro da bruciare accettai l’aiuto di Kara Murnau, con tutte le clausole annesse, perché devi sempre avere qualcuno che scegli di non vedere per giustificare il disgusto che susciti in chi ti fa disgusto. Cioè, non potevo accettare, alla fine, che fossero gli altri a avermi messo alla porta, volevo mettermici io. Devi farti invitare per rifiutare un invito, devi farti accettare per respingere, altrimenti è come andartene da una cena a cui non sei stato invitato, e la Murnau un giorno disse che il primo lavoro di neutralizzazione della mia cattiva fama lo intrapresero proprio le tre morte a Venezia, così disse.
Entrando dalle morte appoggio lo zaino all’ingresso, le bacio tutte e tre, stringo le loro mani di marmo venato, inanellate di anelli non più freddi della carne. Sono di marmo venato anche i pavimenti, e sono di marmo venato le modanature delle scale, e è venato il tavolo della sala da pranzo che sembra il tavolo di un obitorio.
«Faccio un salto alla Carnivore» dico d’istinto.
«Dove, bimbo?»
«Alla Biennale.»
«Ma sei appena arrivato!»
«Torno dopo, almeno sono più tranquillo. Devo mandare un pezzo al “Giornale”...» dico tanto per avere una scusa per andarmene in giro, sono tre mesi che non scrivo più un articolo per “il Giornale” ma nessuno se ne accorge perché nessuno legge davvero niente e i radicalchic della cultura comprano solo “Repubblica” e “Corriere della Sera”, dei quali guardano solo i titoli di prima pagina.
«Oh, uno dei tuoi bellissimi articoli... Però datti almeno una rinfrescatina, no?»
«No, grazie. La rinfrescatina dopo.»
«Stasera ti abbiamo preparato una cenetta con i fiocchi.»
«I fiocchi, già. A dopo... ragazze...»
Letizia ridacchia, Deliziosa mi fa l’occhiolino e sussurra maliziosa: «Fiocchini azzurri!», mordendosi il labbro inferiore come una lolita. Letizia rincalza pleonastica: «Pilloline!».
«Ti abbiamo visto in televisione, ieri, eri bellissimo.»
Non ero in televisione, ieri, ma quando vai in televisione devi abituarti anche a questo: qualcuno ti ha visto anche se non c’eri. Non osi mai chiedere dove, e cosa dicevi, perché hai il terrore di sapere con chi ti hanno confuso, e quindi è sempre meglio acconsentire e anzi cedere all’illusione che c’eri davvero pur non essendoci e magari aspettarti per sbaglio un bonifico nella speranza si sbagli anche l’addetta all’amministrazione della trasmissione dove sei stato ospitato senza andarci.
«La strada la sai?» dice Celeste aggiustandomi il colletto della camicia, le dita marmate mi sfiorano il collo diramando un brivido che mi attraversa la spina dorsale. «Vuoi che diciamo a Carlo Azeglio di accompagnarti?»
«Conosco benissimo la strada, e... Carlo Azeglio chi è?» oso domandare.
«Non ti ricordi, il nostro Carlo Azeglio, il nostro figliolino.»
Sul non ti ricordi resto qualche secondo interdetto prima di annuire, tanto chissenefrega. Lo chiamano figliolino, non ho ancora capito di chi è figlio, se lo saranno passate di utero in utero e avranno tirato a sorte l’estrazione. Un decennio fa, mi raccontò la Murnau, sono andate in Svizzera per una delle prime inseminazioni artificiali sperimentate, sono andate in tre e sono tornate apparentemente senza risultati, dopo è saltato fuori un aborto poliomelitico semiparalitico di età indefinibile, non sai se dargli dieci anni o ottanta e deve essere questo Carlo Azeglio.
«È in sedia a rotelle?»
«Certo, certo, ora ne ha una nuova motorizzata.»
«Ah, mortorizzata, fica. E parla anche?» dico terrorizzato.
«Non ancora, ma si fa capire, e esce da solo. Conosce le strade di qualsiasi città meglio di un Tomb Tomb.»
«Di un Tomb Tomb non ho dubbi, comunque vado da solo. Grazie bellissime... a dopo» e fuggo via, in direzione dell’Arsenale. Al di là della marchetta per il Premio Strenna, a cui per far felice la Murnau mi sottoporrò, tanto orma...