Da mani mortali
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Da mani mortali

  1. 176 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Da mani mortali

Informazioni su questo libro

Con il passare del tempo e dei libri, la poesia di Biancamaria Frabotta tende a farsi sempre più umanamente saggia e pacata, sempre più amica e aperta. Lo si vede nella solida compostezza della pronuncia, nella capacità matura di saper conciliare il proprio sentimento dell'esistere con lo sguardo critico della ragione. Da mani mortali è un'opera in cui la poesia si confronta sensibilmente con la realtà naturale anche minima del mondo immediatamente circostante, con il pulsare e il crescere delle molteplici vite della campagna, di un semplice orto o di un giardino, sotto il "grande disordine del cielo". Un'opera che si confronta, passo su passo, con la misteriosa intelligenza della natura e dei suoi vari abitatori: vegetazione e animali di una vita che si manifesta nell'infinito articolarsi infinitesimale dei suoi ritmi e delle sue complesse variazioni stagionali, dei suoi aromi e della sua musica discreta. Mentre intorno si allarga l'ombra di un'ambigua apparenza indecifrabile che accoglie nelle sue mutazioni le tracce non sempre benefiche dell'opera umana, talvolta irretendola nel sogno di un dio stupito dalla "felice combinazione" del creato, quasi un adolescente solitario e immalinconito dalla diffidenza delle sue creature mortali. E un po' come il pullulare della vita in natura è l'esistenza dei poeti, ai quali Biancamaria Frabotta dedica la sua affettuosa e antiretorica attenzione: "Sono come le pulci, i poeti / acquattati nel pelo del mondo". Un'attenzione che non ha nulla di narcisistico, ma che vede nelle figure e nell'opera dei poeti stessi e nella poesia qualcosa che ricorda quella luce tra i rami, o quel bagliore lunare, che a volte registra nella paziente osservazione delle cose che sa compiere e trasformare nella persuasiva, classica probità felpata della sua meditazione lirica. I poeti di oggi, ma anche i poeti di ieri, i grandi che riappaiono come l'amato Giorgio Caproni. E tutti, con i loro "passi senza importanza", nella segreta zoppìa che Agostino diagnosticava in Petrarca, suo indocile allievo. Ma lo sguardo di Biancamaria Frabotta riesce insieme, ancora, a concentrarsi sugli equivoci e sulla violenza della nostra storia contemporanea, a manifestare la propria morale indignazione, secondo una linea di poesia civile che è un altro dei caratteri forti della sua opera, che per la sua pienezza e forza comunicativa trova in questo nuovo libro la sua realizzazione al più alto livello.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804620358
eBook ISBN
9788852022821

GLI ETERNI LAVORI

Quo pede claudices agnosco
F.P. Secretum, III, 204

Sono come le pulci, i poeti
acquattati nel pelo del mondo.
Invisibili, se ne stanno passivi
nelle ore dolci dei vivi
ma in un tale loro modo
e così a caso dispersi
fra i tanti, singoli vanti.
Oh, se mordono, nei loro nidi
e hanno, a volte, certi visi
sotto gli occhi di tutti...
E bisogna cercarli, perché
smettano infine il fastidio
uno a uno e prima o poi
di certo, scovarli, stanarli
dai loro nascondigli
i pochi (troppo pochi!) poeti.

La prima generazione dei biancospini

Oltre la soglia del letargo, una foglia
pende ancora a lato del legno, trema,
si rimette al vento con l’astuzia dei deboli.
Ha conosciuto la pietra e l’agio delle erbe
la prima generazione dei biancospini.
Irti più del filo spinato che li regge
proclamano la resistenza all’inverno
mentre un riemerso brulichio di molti
silenziosamente li lavora nel tepore.
La pianta è un cantiere sempre aperto
a chi vi torna senza averne memoria.
Sappi che frenerò ogni desiderio
di spronarla, questa ottusa pazienza
di durare, per ora, senza dare ombra.

Città, infelicità di confondere i tagli
degli anni precedenti. Eppure è dalla ferita
che vigorosa s’alza, d’estate, la ricrescita.
Ostento l’indole permalosa degli ostinati
un cuore leggermente brachicardico,
da sport al chiuso, e uno spazio ridotto
in memoria, per i costi delle vittorie.
Per questi mortali negozi
non mi manca né zelo, né carattere
so prevenire le sorti del più fragile
scoprire chi ne ha rosicchiato
le fibre tenere, le più esposte
ai dentini delle basse stature
che l’hanno finemente lavorato
e la colazione è diventata un pranzo.
Aver voluto e volere sono una cosa sola
nel giunco reciso che agito nell’aria
virgulto di bacche, vivo folto di foglie
su cui si sente ancora odore di sangue.

Dove più umida si combina al brecciolino
s’incolla ai polpastrelli, lessandoli di sale
e d’alga, scricchiola vivace
sotto i piedi e di nuovo asciutta
scivola come la veste spettrale
di cui il mare ritirandosi si libera
brillano i gusci che ospitavano i molluschi
e li cogliete voi, bambini nati sul cemento
protetto dal vento della fortuna.
Ma ritrovandoli lontano dalla costa
– noioso attrito alla vanga adulta –
bussatene la consistenza con le nocche
sporche di concime per una piantagione
disamena, ma meno disumana spero
cacciateli nel fondo delle tasche
riportateli alla collina
restituiteli ai loro anteriori asili.
Avranno, nell’esilio, gli occhi bianchi
del giovane guardiano restìo a crescere
come il biancospino fra i finocchi selvatici.

Stanotte la pioggia ha scavato una trincea
dove quei nodi che chiamano occhi
non smettono di fissarmi, se provo
a modellarli nella forma di figlioli
i biancospini che aspettano pazienti
il cambiamento che fugge l’occhio assiduo.
Mi guardano come fanti sparuti
sul ciglio sanguigno della fanga
se insisto ad asservirli nella curvatura
di una siepe senza fiori e senza frutti
pronti ad alzarmi contro i diti di pruni
a bucarmi gli occhi nel gelo di febbraio.

Se avessi a portata di mano un libro di rimedi
accanto alla verità muta dei campi e una guida
ai segreti del mio giardinetto avido di cure
celebrerei il tempo delle viole marzoline
che colsi l’anno che la Pasqua fu alta
un dono mi sembrò delle erbe in lutto
e invece qualcuno ne aveva sparso i semi
vicino alla fontanella, ancora fresca di calce.
Direbbe il vecchio proprietario
che non riconosce più la sua terra, che qua nulla ho piantato
là, troppo fittamente, e in poco spazio tanto fra loro strette
le pianticelle, da danneggiarne in profondità ogni gemma.

Raggirando la vana gloria di piegarli
in archetti di trionfo se ne vanno in alto
senza freno i rami liberi dei biancospini.
Lo disse un giardiniere passato qui per caso.
Ramo legato non cresce, briga d’amore
non muta la sua forma accidentale.
A suo tempo basterà la lama delle forbici
a moderare l’orgoglio che non cambia verso
e a primavera, dai moncherini
potati ad arte, quale sicuro rigoglio
quale popolosa famiglia di nuovi getti!

Lenti sono in questi orti i progressi
e qualche volta incorreggibili
come laggiù è il filo delle montagne
o la crescita abnorme delle zucche
che a terra si propaga in un disordine di serpe.
Anche noi, dispersi nel corso sordo delle cose
dovremo cambiare verso al sonno.
Non si dorme dalla parte del cuore.

Gli eterni lavori

Dalla valletta degli ulivi una neve marina
veste di bianco le bacche della piracanta.
Potessi poggiando la testa sul cuscino
udire il mormorìo della terra che dorme
quando sibila la sofferenza delle piante.
Potessi, ospite impensierita, dal pietrisco salvare la salvia
che perde al vento, talvolta, una fogliolina accartocciata
accorrere dove il ramerino implora una sponda
l’ibiscus un tepore che non è qui e un’arancia
s’affaccia fra il plumbago e le spine di Cristo.
Solo al tatto la riconosco quella pace truccata
che al mattino scuote la coperta dei sogni.

Vorrei il tuo fiuto acuto
bastardino sconosciuto
ma non per dissotterrare
quell’afrore speciale
della preda stordita dalla caccia
o sotto un velo di foglie imputridite
il trionfo fetido del ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Da mani mortali
  3. GLI ETERNI LAVORI
  4. I Nuovi Climi
  5. Da Mani Mortali
  6. Dopo, un poeta
  7. Nota
  8. Dello stesso autore
  9. Copyright