Che cosa hai fatto?
  1. 252 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Quando Alice incontra Gretchen non le pare vero di poter uscire dalla routine della sua vita di brava ragazza. Un buon lavoro e un fidanzato fedele che la vuole sposare non le bastano più. Gretchen invece è brillante, impulsiva e desiderosa di divertirsi. Senza contare che ha un fratello decisamente affascinante al quale Alice non resta insensibile. Le due ragazze diventano inseparabili, ma Alice non sa che l'amica nasconde un inquietante segreto in grado di distruggere chi le sta intorno. La loro si rivelerà un'amicizia tormentata, che le segnerà profondamente e insegnerà a entrambe più di quanto avrebbero mai immaginato. Tra passato e presente, in un complesso gioco di ruoli, amori e inganni che s'intrecciano, la verità viene inesorabilmente svelata.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2012
Print ISBN
9788804616016
eBook ISBN
9788852023118

Lucy Dawson

CHE COSA HAI FATTO?

Traduzione di Adriana Colombo e Paola Frezza Pavese

Mondadori

CHE COSA HAI FATTO?

Per Jay, Luke e Guy

RINGRAZIAMENTI

Desidero esprimere tutta la mia gratitudine a Sarah Ballard e a Joanne Dickinson per i loro consigli, il loro sostegno e per aver creduto in me. Sia la squadra di United Agents sia quella di Little, Brown hanno lavorato a questo progetto senza risparmiarsi e con un incredibile entusiasmo, ma in particolare voglio ringraziare Jessica Craig e Lettie Ransley, di UA, Emma Stonex e Jennifer Richards, di Little, Brown.
L’aiuto che mi hanno dato Lee Tomlinson, Sally Dawson e Camilla Dawson si è rivelato preziosissimo, ma come si renderà conto chiunque abbia una formazione medica, ho seguito i loro consigli solo in funzione della trama del romanzo. Grazie al resto della mia famiglia, ai miei amici e a James per esserci stati quando avevo bisogno di loro.
Infine, a Ruth Easton, per il tuo incoraggiamento e la tua gentilezza, grazie.

1

«Può dirmi cos’è successo, Alice?» chiede la voce pacata all’altro capo del telefono. Il mio cuore martella, sembra schizzarmi via dal petto, non riesco quasi a respirare. Sento il suo battito sordo nelle orecchie.
«Si tratta della mia migliore amica» ansimo, e la voce si fa stridula per la paura. «Credo che abbia cercato di suicidarsi.» Guardo la bottiglia rotta di whisky ai piedi di Gretchen; schegge di vetro frammiste a pillole sparse. «Per favore, qualcuno l’aiuti!»
Riesco a restare lucida abbastanza per fornire l’indirizzo, e poi con dita molli – le stesse che qualche secondo fa battevano con forza sui tasti digitando il numero delle emergenze – chiudo la comunicazione e faccio scivolare il telefono sul supporto. Adesso, nel silenzio del soggiorno, rimaniamo solo Gretchen e io. È appena calata la sera, e i vicini di casa rientrati dal lavoro probabilmente stanno scalciando via le scarpe e preparando la cena, eppure qui non si sente alcun rumore; tutto è pervaso da un silenzio irreale. Niente televisione, niente radio, nessun segno di vita.
Indietreggio senza staccare gli occhi dalla mia amica, e quando tocco il muro con le spalle mi lascio scivolare sul pavimento. Riesco a sentire solo il mio respiro affannoso, e cerco di controllarlo.
Gretchen è seduta, non scomposta e impertinente come al solito, ma accasciata in un angolo tra due pareti con un ginocchio sollevato, la testa penzolante e un braccio rigido sporto in avanti.
L’aria è satura di un insopportabile odore di alcol: ai piedi di Gretchen ce n’è una pozza scura, punteggiata di piccole pillole bianche simili a coriandoli. Non riesco a vederle il viso, coperto dai lunghi capelli biondi ondulati. È muta, immobile. Non so se è cosciente oppure – oddio morta. Avverto un sapore di vomito in bocca e comincio a battere i denti. So che dovrei fare qualcosa, soccorrerla mettendola nella posizione corretta, ma non riesco assolutamente a ricordare quale sia e ho paura di toccarla. Mi ricorda un manifesto sugli effetti dell’eroina che mi avevano mostrato alla fine delle elementari, solo che la ragazza della foto era stata ritrovata tre giorni dopo la morte.
Con le ginocchia rannicchiate contro il petto e la testa affondata tra le mani, chiudo gli occhi e immagino l’ambulanza che viene a salvarci facendo spostare tutti nella corsia degli autobus, dai motorini ai fuoristrada. Mi accorgo che sto dondolando lievemente e anche piagnucolando, ma non riesco a smettere.
Dopo un’attesa che sembra durare secoli, sento in lontananza l’ululato delle sirene farsi sempre più lacerante. Poi le luci azzurre illuminano improvvisamente la parete sopra la testa di Gretchen.
Il citofono mi fa sussultare, anche se sapevo che sarebbe suonato. Mi alzo con fatica e attraverso di corsa la stanza. Una voce maschile dice il mio nome, e io premo il tasto dell’apriporta. «Terzo piano, siamo qua» rispondo io ansiosa, poi riaggancio e apro la porta d’ingresso. Sento immediatamente lo scalpiccio dei loro passi su per la scala di ferro: eccoli. Un uomo e una donna in divisa verde, entrambi più anziani di me, si precipitano verso Gretchen e prendono in mano la situazione. Il sollievo è immenso, ma poi comincia una girandola di domande. «Sa se ha preso tutte queste pillole, Alice? L’ha già fatto altre volte, Alice?»
Mi rendo conto che continuano a chiamarmi per nome per non farmi perdere il contatto con la realtà, e cerco di rendermi utile. Dico loro quello che posso.
Siamo sull’ambulanza: la donna è alla guida – la cosa mi sorprende anche se non so perché – e l’uomo siede silenzioso dietro la testa di Gretchen. Le sistema un tubicino, mentre io con una mano mi tengo aggrappata al sedile per non scivolare. Cerco anche di non guardare la mia amica legata alla barella, sballottata da una parte all’altra mentre a sirene spiegate ci apriamo un varco nel traffico.
Mi tremano le mani e all’improvviso in quel piccolo spazio pieno di fili e strane macchine fa molto caldo. Mi sfugge un sospiro, e il paramedico mi lancia un’occhiata. Credo abbia detto di chiamarsi Joe, non ricordo.
«Stia tranquilla, Alice» mi rassicura. «Siamo quasi arrivati.»
Credo di essere sotto choc.
«Allora, Gretchen è la sua migliore amica?» chiede al di sopra del suono delle sirene, come se stessimo facendo una chiacchierata al bar. «Compagna di scuola? Università?»
«Ehm.» Mi sforzo di andare indietro con la mente. «No, l’ho conosciuta sul lavoro.» Ripenso a Los Angeles, a noi due che entravamo a braccetto nello Sky Bar ridacchiando, mentre Gretchen mi sussurrava allegra: “Vieni a vedere questo!”.
«Lei che mestiere fa?»
«La fotografa.»
«Quindi Gretchen è una sua collega?»
Che diavolo importa? «No, però l’ho conosciuta sul lavoro» rispondo, sforzandomi di essere gentile, mentre il mio sguardo si posa d’impulso su Gretchen legata saldamente alla barella. L’ambulanza sembra rallentare e procede zigzagando a sobbalzi – immagino si stia facendo strada nel traffico intenso – ma all’improvviso riparte di nuovo a tutta velocità. Giro di scatto la testa a sinistra. Gretchen è completamente immobile nonostante il leggero movimento della barella che scivola qualche centimetro verso di me: per poco non mi schiaccia contro la parete dell’ambulanza. Il paramedico allunga una mano per bloccarla. «Scusi!» esclama.
Rallentiamo fino a fermarci. Gli sportelli si spalancano, l’aria fredda di gennaio mi colpisce come uno schiaffo in pieno volto, ma mi rinvigorisce. Vedo le porte spalancate del Pronto Soccorso e infermieri in attesa che alzano lo sguardo su di noi dalla loro postazione. Rimango seduta mentre tirano fuori Gretchen, e io scendo malferma sulle gambe.
La fanno passare davanti agli occhi spalancati di una popolazione di zombi annoiati, che avendo problemi lievi come distorsioni alle caviglie o leggere contusioni alla testa si trovano lì da ore, condannati alla lettura di vecchie riviste femminili zeppe di posta delle lettrici sulle “esilaranti” birichinate dei loro nipoti, suggerimenti per togliere macchie d’olio da una camicetta di seta, modelli per lavori a maglia, e ricette di cheesecake ipocaloriche. Seguo incerta la barella, poi una mano leggera e sicura si posa sul mio braccio per guidarmi su un lato, mentre Gretchen viene portata in un’altra sala e le porte a vento si richiudono dietro di lei. Attraverso l’oblò, vedo teste di medici muoversi frenetiche per la stanza.
«Alice?» chiede l’infermiera. «Può venire con me? Abbiamo bisogno di qualche informazione.»
Mi conduce in una stanzetta con una sedia, un tavolo, e un lavandino sormontato dal cartello SI PREGA DI LAVARSI LE MANI. Mi chiede chi sono i parenti prossimi di Gretchen e se desidero far chiamare qualcuno.
«Ehm, suo fratello, Bailey... il mio ragazzo... Tom» rispondo in modo automatico, intontita. Poi ricordo che in realtà non è più il mio ragazzo e dovrei dire “ex”, ma il momento è passato. «Bailey è a Madrid, all’aeroporto, o almeno lo era. Mi ha telefonato da là per chiedermi di passare da Gretchen. Tom è a Bath, a una cena di lavoro...»
«Ha un numero telefonico di Bailey?»
Comincio a passare in rassegna i numeri nella mia testa. «Ha un cellulare, che però tiene quasi sempre spento. È 079... no, aspetti... 0787... Mi spiace, non riesco a concentrami; non riesco...»
«Ci pensi con calma» mi rassicura l’infermiera con gentilezza.
Alla fine riesco a ricordarlo, e lei lo annota su un blocco. «E quello di Tom?»
«07...» comincio, poi esito. «Potrei telefonargli io, per favore? È possibile?»
«Certamente. Sa come possiamo contattare i genitori di Gretchen?»
Scuoto la testa. «Con loro ha rapporti difficili. Bailey è l’unico che...»
L’infermiera mi interrompe. «Dovremmo proprio avvertire i genitori» insiste con garbo, e io capisco cosa intende... anche se non l’ha detto.
«Non so il loro numero» rispondo scoraggiata. «Non li conosco neppure! Dov’è Gretchen adesso? Cosa le stanno facendo?»
«È in Rianimazione. Vado a dare queste informazioni e torno. Sono qui tra un secondo.»
Rimasta sola, prendo la borsa ed estraggo il cellulare, ma in questa stanzetta non c’è campo, e comunque non so se è permesso telefonare dall’interno dell’ospedale. Lo rimetto via: aspetterò il ritorno dell’infermiera. Mi concentro sul cartello SI PREGA DI LAVARSI LE MANI e cerco di non farmi prendere dal panico.
L’infermiera non ci mette molto. Ha trovato Bailey all’aeroporto: è in lista d’attesa per Londra. Il telefono era acceso, ma – tipico da parte sua – con la batteria quasi scarica: a quanto pare la comunicazione si è interrotta proprio qualche secondo dopo che lei gli ha detto l’essenziale. Lo immagino solo e terrorizzato, seduto su uno di quei sedili scomodissimi degli aeroporti, senza alcuna possibilità di abbreviare l’attesa; o forse adesso si sta imbarcando.
Chiedo se posso usare il cellulare per chiamare Tom, ma lei scuote la testa, dispiaciuta. «Solo all’esterno, mi spiace.»
Le dico che torno subito, e passo di proposito dal Pronto Soccorso per raggiungere il posteggio. È una classica sera di gennaio, fredda e buia. Ho addosso i pantaloni leggeri della tuta, e tremo mentre digito il numero e attendo la connessione; il fiato si condensa davanti a me; mi porto le braccia al petto per riscaldarmi.
Parte la segreteria: il cellulare è spento, oppure occupato.
«Ciao, sono io» dico con voce tremante dopo un bip. «Tom, sono in ospedale con Gretchen. Vieni subito. Siamo al Pronto Soccorso. Devo rientrare subito e devo tenere il cellulare spento, quindi non puoi chiamarmi; ma per favore vieni subito...»
Gli do l’indirizzo, più o meno preciso, e chiudo la comunicazione. Ho fatto bene a dirgli così? Dovevo raccontargli tutto o no? Non voglio che guidi in preda al panico, correndo come un pazzo e rischiando la vita. All’improvviso capisco perché queste telefonate vengono fatte dal personale esperto dell’ospedale. Attendo un paio di minuti – quel tanto da permettergli di controllare la segreteria telefonica –, ma lui non richiama, così, molto riluttante, spengo il cellulare, e rientro.
Dopo quaranta minuti, mi comunicano che Tom ha chiamato l’ospedale dicendo che stava arrivando, e verso le nove Gretchen viene spostata nell’unità di Terapia Intensiva. Non ha ancora ripreso conoscenza, ma mi riferiscono che Bailey ha raccomandato la mia presenza accanto a lei. Tre infermiere si muovono rapide e con fare esperto attorno al suo letto, e intanto si parlano a bassa voce in un linguaggio tecnico a me ignoto.
Siedo il più lontano possibile dal letto, lasciando che il nome di Gretchen mi scivoli silenziosamente sulla lingua, come un mantra su cui concentrare la mia mente confusa. È un nome che evoca una bambolina con il viso di porcellana, le trecce attorcigliate attorno alla testa e gli occhi che non si chiudono quando la si sdraia. Ha sicuramente un’aria fragile, ora, su quel letto d’ospedale, allacciata a macchine e tubi, in un silenzio rotto soltanto da un bip meccanico.
La pelle è come cera, e le guance su cui prima appariva un leggero colorito sono pallide. Fa pensare a Coppelia, in attesa di prendere vita nel laboratorio, più che al giocattolo di una bambina. Una ragazza vera dalla pelle bianca come il latte, che potrebbe mettersi a sedere e buttare via la coperta; ma le sue palpebre non si sollevano, non batte ciglio, e la bocca è tenuta forzatamente aperta da un tubo che impedisce alla gola arsa di chiudersi. Mi ricorda una bambola di plastica gonfiabile costretta a compiere un atto osceno.
Le guardo le mani. Pollici, dita. Con le loro piccole unghie quadrate, curate. Non si muovono e non si sono mosse; neanche un minimo guizzo. Le hanno pettinato e raccolto all’indietro i lunghi capelli, e questo, lo so, la farebbe incazzare. Gretchen li vorrebbe sparsi sul cuscino; apprezzerebbe la potenziale teatralità dell’immagine. Comunque ha sempre un aspetto etereo. La sua è una bellezza che non viene intaccata da una pettinatura sciatta o dalla mancanza di trucco.
Ho visto un quadro, credo alla National Gallery, di una fanciulla che galleggia su un fiume verso la sua tomba. Le dita ghiacciate stringono al petto fiori rosa pallido. I capelli biondi ondulati scorrono dietro di lei come alghe, e il vestito verde chiaro trascinato verso il bordo della pira funeraria provoca una leggera increspatura sulla superficie dell’acqua. Sembra Gretchen in questo momento.
Mi ritrovo, inorridita, a domandarmi se da morta sarà così bella, se nel momento cruciale qualcosa...

Indice dei contenuti

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  2. Che cosa hai fatto?
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