Carolly Erickson
LA FIGLIA DELLA ZARINA
Traduzione di Anna Luisa Zazo
15 novembre 1989
Il mio nome è Dar’ja Gradova e vivo a Yellow Rain, nel Saskatchewan. Sono vedova. Il mio caro Michail è morto, ma la mia famiglia, che abita vicino a me, è piena di premure, soprattutto mio figlio Nicholas e i suoi ragazzi.
Credono che il loro cognome sia Gradov, come quello del padre. Invece la loro vera famiglia, la loro autentica appartenenza, è un’altra: sono dei Romanov. Non lo sanno ancora, ma sono eredi al trono degli zar.
Ora che il mondo celebra la caduta del muro di Berlino e io ho compiuto da qualche mese novantadue anni, è giunto per me il momento di narrare la storia della mia vera famiglia, come dono per mio figlio e per i miei nipoti. E forse come gesto di espiazione per avere voltato le spalle alla mia ascendenza e aver taciuto tanto a lungo la verità sulle mie origini.
Soltanto nel 1918, infatti, sono diventata Dar’ja Gradova, quando con Michail salii sul treno per Murmansk. Avevo documenti falsi. Nessuno sospettava che in realtà ero Tat’jana Romanova, la seconda figlia dello zar Nicola e della zarina Aleksandra. Quella ragazza era morta, fucilata con i genitori, le sorelle e il fratello nella cantina di una povera casa in Siberia. Soltanto Michail, io stessa e poche altre persone fidate sapevano che la ragazza morta in quella cantina non era Tat’jana.
Tat’jana sono io.
E ora devo narrare la mia storia e quella della mia famiglia, affinché possano essere riparati torti ormai antichi e il mondo conosca la verità.
La mia storia inizia con un ricordo lontanissimo, in un nevoso pomeriggio di gennaio. Avevo sei anni, e tutte le campane di ogni chiesa di San Pietroburgo sembravano suonare all’unisono.
Ricordo che mio padre mi sollevò tra le braccia perché potessi guardare oltre la balaustra del balcone; sentii il vento gelido sul viso e, attraverso la nebbia giallastra, scorsi una folla quale non avevo mai visto prima.
Quella massa di gente, che cantava, gridava e agitava stendardi e bandiere, sembrava occupare tutto lo spazio davanti ai miei occhi, distendendosi lungo la Piazza del Palazzo e oltre, verso gli angoli dei viali e sul ponte che attraversava il fiume.
«Batjuška! Batjuška!» gridavano. «Piccolo Padre!» Ma le loro voci sembravano perdersi nel risuonare delle campane e nei cori di Dio salvi lo zar.
Era il mio onomastico, o un giorno vicino a quella data, la festa di Santa Taziana di Roma, martire vissuta all’epoca dei Cesari, così pensai che tutti gridassero e cantassero per celebrare il mio onomastico; sorrisi, agitai le mani per rispondere ai saluti e mi dissi che erano davvero molto gentili a dimostrare tanta gioia per la mia festa.
Naturalmente non stavano festeggiando il mio onomastico, bensì qualcosa di molto più importante, come scoprii in seguito.
Mio padre mi mise a terra, ma riuscivo ancora a vedere attraverso le aperture nella balaustra di pietra e sentivo il fragore delle voci. La gente cominciò a cantare Santa Russia e Gloria all’esercito e alla flotta della Russia, e batteva le mani al ritmo dei canti, sebbene dovesse averle irrigidite dal freddo. Nostra madre ci ricondusse nella Sala Bianca attraverso le porte di vetro e ci scongelammo davanti al fuoco.
Ci sorrise e ci diede latte caldo e pasticcini glassati al miele. Eravamo felici quel giorno, perché ci aveva appena rivelato un segreto meraviglioso: presto avremmo avuto un fratellino.
In famiglia, nell’inverno del 1904, eravamo quattro bambine. Come ho già detto, io avevo sei anni, Ol’ga ne aveva appena compiuti otto, la piccola e paffuta Marija ne aveva quattro e l’ultima, Anastasija, due e mezzo. Tutti dicevano che dovevamo avere un fratello e mamma ci assicurò che presto ne avremmo avuto uno, a dispetto di quanto andava affermando nonna Minnie (che non era gentile con mamma e diceva sempre che riusciva a mettere al mondo soltanto femmine).
«È perché sta per arrivare il fratellino che la gente grida e tutte le campane suonano?» chiesi.
«No, Tanja, è perché amano la Russia e amano noi, soprattutto il tuo caro papà.»
«Ho sentito Čemodurov dire che è per la guerra» intervenne Ol’ga con quel suo tono adulto da “so tutto io”. Čemodurov era il cameriere personale di mio padre e, a quel tempo, la fonte di tutte le informazioni di Ol’ga.
«Silenzio! Di queste cose si occupa vostro padre» ribatté seccamente mamma, lanciando a mia sorella uno sguardo che le fece mettere il broncio; tuttavia lei obbedì e non disse più nulla.
«Com’è andata la tua lezione di ballo, Tanja?» chiese mamma, cambiando argomento. «Sei riuscita a non pestare i piedi di Ol’ga?»
«Il professor Leitfelter ha detto che sono brava» risposi orgogliosa. «Tengo bene il tempo.»
Ol’ga e io andavamo a lezione di danza due volte la settimana all’istituto Voroncov per giovani aristocratiche. Con altre quaranta ragazze, tutte vestite con lo stesso abitino bianco dalla sottogonna in lino rosa, eseguivamo passi e piroette muovendoci e inchinandoci al suono di un grande pianoforte, mentre il maestro camminava avanti e indietro, correggendo la nostra posizione e battendo le mani con aria indispettita quando non riuscivamo a tenere il tempo.
Mi piacevano le lezioni di ballo. Mi piaceva tutto, dalla bella sala bianca, con il soffitto alto, le imponenti colonne di marmo e gli immensi candelabri, ai ritratti nelle cornici d’oro che ci fissavano dalle pareti mentre danzavamo, fino alla grazia delle ragazze più brave e al senso di leggerezza che i movimenti suscitavano in me.
Tra loro non ero più una granduchessa circondata dalle premure di cameriere e servitori. Ero una tra le tante e non venivo trattata in modo diverso dalle altre allieve soltanto perché ero la figlia dell’imperatore (il professor Leitfelter era severo allo stesso modo con tutte). Per il tempo della lezione mi abbandonavo, felice, al fluire della musica e dimenticavo il resto.
Il giorno successivo, nella Piazza del Palazzo e oltre, tornò a riunirsi quella folla immensa. Le campane ripresero a suonare, la gente cantava e gridava e mio padre ci condusse tutte sul balcone per ricevere il suo omaggio.
«Non avevo mai visto nulla di simile» ci disse quel pomeriggio, all’ora del tè. «Manifestazioni di sostegno così entusiaste, una tale dimostrazione di affetto per la nazione...»
«E per la dinastia, non dimenticatelo» lo interruppe mia madre. «È per i Romanov, e per voi, Nicky.»
Mio padre sorrise con dolcezza, come faceva sempre quando gli ricordavano che era lui, l’imperatore, l’oggetto della venerazione popolare.
«Il mio popolo è leale» disse. «Si lamenta, sciopera e fa marce di protesta e arriva a scagliare bombe ma, quando la nazione ne ha bisogno, risponde all’appello. Mi dicono che si radunano folle così in tutte le città. Gli uomini si precipitano ad arruolarsi come volontari. I contributi in danaro arrivano a fiumi, decine di migliaia di rubli. E tutto perché siamo in guerra contro il Giappone.»
«Vinceremo, vero, papà?»
«Ma certo, Tanja. Soltanto gli inglesi hanno una flotta migliore della nostra. E anche il cugino Willy ha molte belle navi.» Il cugino di mamma, Willy, era il Kaiser Guglielmo, sovrano della Germania. Avevo visto i suoi ritratti nello studio di mamma: era un uomo robusto, dall’aria rabbiosa. A lei non piaceva.
La folla venne a cantare e ad applaudire per molti giorni e noi uscivamo sul balcone sorridendo e rispondendo agli omaggi. Papà, tuttavia, che aveva sempre l’aria un po’ triste, tranne quando faceva lunghe passeggiate, andava in bicicletta o spaccava la legna, cominciò ad affliggersi seriamente e, poco tempo dopo, le grida e i canti cessarono nonostante si radunassero ancora in molti nella Piazza del Palazzo, alzando lo sguardo verso il balcone o parlando tra loro.
Ol’ga mi disse che alcune delle nostre grandi navi erano state affondate dai giapponesi. Molti uomini erano annegati, aggiunse, e io pensai: “Non è strano che papà abbia l’aria così triste”.
«C’è una guerra, una guerra terribile. E noi stiamo perdendo. È quello che dice Čemodurov.»
Ricordo che mi sentii confusa e che mi addolorava vedere il volto triste di mio padre, che a volte era molto allegro; poi ricordo il giorno in cui nacque il mio fratellino.
Al mattino di quel giorno, noi bambine fummo mandate ai piani superiori, nella nursery, per non disturbare, e ci dissero che mamma era a letto nella stanza di nonna Minnie.
«Tutti gli zar di Russia sono nati in quel letto» ci spiegò la cameriera. «Vostro padre, vostro nonno, che era forte come un toro, e il vostro venerato bisnonno, che fu ucciso dalla bomba di quell’uomo orribile.»
Poco tempo dopo rimbombarono i cannoni della fortezza dei Santi Pietro e Paolo, e noi comprendemmo che il nostro fratellino era nato. Ci permisero di andare a vedere lui e mamma. Lei era abbandonata contro i morbidi guanciali del letto e aveva l’aria molto stanca, come quando aveva mal di capo. Ma era bella, il viso addolcito dalla stanchezza e la folta capigliatura bionda sparsa sul cuscino bordato di pizzo. Ci sorrise e ci tese le mani.
Accanto al letto una culla dorata fiammeggiava alla luce del sole. Una delle cameriere della nursery, seduta vicino, la faceva dondolare piano con il piede. Ricordo di essermi chinata a guardare al suo interno e di avere scorto, sotto un copriletto color porpora ricamato in oro, il nostro nuovo fratellino, addormentato.
«Aleksej» disse piano mamma. «Lo chiameremo Aleksej, l’ottavo Romanov a sedere sul trono di tutte le Russie. Questa, sì, è un’occasione di festa.»
Poco dopo la nascita di Aleksej, il nostro servitore Sedinov portò nella nursery quel terribile arnese, lo spaventoso strumento che avrebbe dovuto insegnarmi a sedere ben eretta.
Nei primi tempi dopo il parto mamma non stava bene e rimaneva a letto ai piani inferiori, così a occuparsi di noi nella nursery era nonna Minnie. La nonna non era gentile e affettuosa come mamma, ci colpiva sulle mani con un bastone quando non la accontentavamo e, una volta in cui Ol’ga rifiutò di obbedirle, brandì perfino un frustino da amazzone.
«Voi ragazze siete state troppo viziate» disse il giorno in cui portarono quell’arnese nella nursery. «Ora vi insegnerò a comportarvi come fanciulle bene educate, che non parlano se non sono interrogate, che non accavallano le gambe e non stanno curve.» Mi lanciò uno sguardo minaccioso. «Sì, Tat’jana, sto parlando di te. Devi imparare a sedere come si deve.»
Fece portare da Sedinov quello strumento nel punto in cui ci trovavamo Ol’ga e io. Era una lunga sbarra di acciaio con cinghie di cuoio in alto e in basso. Seguendo le istruzioni della nonna, lui mi appoggiò la sbarra contro la schiena, lungo la colonna vertebrale, legandomi le cinghie alla vita e sulla fronte.
Non potevo muovermi; all’inizio mi riusciva difficile persino respirare.
«No, no! Toglietemi questa cosa orribile!» gridai, lottando e contorcendomi per cercare di allentare le cinghie, rossa in viso, mentre Ol’ga rideva.
«Sedinov, toglimela subito!» urlai di nuovo.
Il servitore, che ci voleva bene e ci conosceva da sempre, guardò la nonna di sotto le sopracciglia cespugliose, ma lei rispose con un’occhiata accigliata, poi guardò severamente me. Doveva obbedire per forza alla nonna, che dopo tutto era l’imperatrice vedova.
«Starò diritta, nonna, lo prometto, purché mi liberiate di questa cosa!»
«La porterai quattro ore al giorno fino a che la spina dorsale non si sarà raddrizzata. Io l’ho portata quando ero bambina. E anche mia sorella» aggiunse la nonna fissando Ol’ga, che immediatamente irrigidì la schiena e sollevò il mento sperando di evitare la tortura che io subivo. Minnie era stata la principessa Dagmar di Danimarca prima di sposare mio nonno, lo zar Alessandro, e sua sorella era la principessa Alessandra, ora regina d’Inghilterra. Nonna Minnie diceva spesso che, se lei e sua sorella avevano fatto due matrimoni così splendidi, era stato grazie al loro portamento impeccabile; in realtà ora so che, all’epoca, oltre a essere insignite del titolo di principesse, erano state anche molto belle.
La sbarra di acciaio diventò il tormento della mia esistenza per alcuni mesi. Dovevo portarla per molte ore e, anche quando mi veniva tolta, sentivo la schiena rigida e dolorante e non potevo chinare la testa senza provare sofferenza.
«Mi dispiace di doverlo fare, padrona» mormorava Sedinov ogni volta che me la legava. «Ma è un ordine della vostra eccellentissima nonna.»
«Sì, Sedinov, capisco. Devi obbedire agli ordini.»
«Grazie, padrona, pregherò per voi.»
Anche le cameriere provavano pena per me: Njuta mi lanciava furtive occhiate di comprensione e la cara Elizaveta nascondeva dei dolci nelle tasche del mio vestitino quando pensava che nessuno la vedesse. Šura, la capocameriera e prima guardarobiera, a volte mi toglieva la sbarra anche per un’ora di seguito, quando era certa che nonna Minnie non sarebbe salita nella nursery a controllare come andavano le cose.
Eravamo abituate ai disagi della nursery. Ol’ga, Marija, Anastasija e io dormivamo in stretti lettini da campo, come quelli dei soldati in caserma. Era una tradizione, diceva nonna Minnie, e le tradizioni andavano rispettate. Tutte le granduchesse dei Romanov – i maschi erano esentati – si stendevano da generazioni su quelle dure brandine, da quando uno zar, molto tempo prima, aveva decretato che le sue figlie non avrebbero dormito in letti morbidi fino a quando non fossero state sposate.
«Non vedo perché se un nostro antenato faceva soffrire le sue figlie, allora dobbiamo soffrire anche noi» osservò Ol’ga una sera mentre entrava nel letti...