Il giorno in cui mi avevano telefonato per dirmi dello stage in Grecia era una bella mattina di sole. Davide passeggiava accanto a me senza smetterla di parlare, io guardavo a terra e aspettavo che la sua voce diventasse più bassa e mi arrivasse in gola, come accadeva sempre quando finiva le parole, dopo aver detto tutto. E ogni volta, a quel punto ce ne accorgevamo insieme e diventavamo silenziosi, ci spostavamo più lentamente per bilanciare le forze d’attrazione dei nostri corpi, per spezzare i gesti e rimettere a posto gli equilibri.
Davide era arrivato in città solo qualche giorno prima. Una barca a vela bianchissima rompeva il blu scuro del mare.
«Ho vinto una borsa del progetto Leonardo da Vinci, per la Grecia.»
«Bene, no?» aveva detto.
Non era la risposta che mi aspettavo, detta così, con un tono lento e leggermente impastato sulla prima sillaba. Avrei voluto che si stupisse, indagasse i dettagli e alla fine mi chiedesse di restare.
«Per quattro mesi.»
«…»
«Devo rispondere entro oggi pomeriggio.»
Volevo davvero partire?
«Che problema c’è?»
Sovrappensiero avevamo attraversato la strada per ritornare verso la piazza grande, sul mare, dove ci saremmo salutati. La telefonata aveva interrotto irreparabilmente ogni cosa, facendo sembrare una scemata quello che fino a dieci minuti prima sembrava una logica conclusione del nostro esserci ritrovati, dopo così tanto tempo, ora che lui si era trasferito a due passi da casa mia e ci avrebbe passato l’estate. Dopo quella telefonata l’intera faccenda suonava come una forzatura, i buoni amici certe cose le dovrebbero sapere. Davide mi aveva baciato in fronte prima di salire in macchina. Dai accetta, che tutti quei mesi ti diverti, è una bella esperienza. È quello che ti va di fare, no? aveva detto.
Poi, mentre camminavo verso casa con passo veloce per contrastare il vento forte, avevo cercato di ricordarmi le sue ultime parole. Qualcosa tipo: è quello che vuoi, o una cosa del genere. Aveva detto proprio così? Che intendeva dire? Mi ero ripetuta cento volte quella frase cercando di farla funzionare nella mia testa, di darle un senso. Ne era così sicuro o voleva dire qualcos’altro? O erano solo parole qualunque con cui si chiudono sempre le frasi di saluto?
Qualche giorno dopo vado a Padova per le lezioni preparatorie alla partenza.
Cammino lungo un fiume che non so come si chiami, l’aria è piena di goccioline appiccicose, umidità che non si capisce bene se cada dal cielo o salga dall’asfalto.
Via G.B. Ricci è in un quartiere irreale, circondato da parcheggi deserti e capannoni che sembrano vuoti. Sulla sinistra scorrono i binari morti della ferrovia. Si direbbe una di quelle zone di confine dove la notte, con la nebbia, fanno passare i convogli di clandestini e armi e mucche pazze.
Entro nell’aula gelida della sede dell’ente che mi pagherà una borsa per quattro mesi in Grecia, i vetri delle finestre sono appannati e c’è uno strano luccichio sui tavoli, come se ci avessero passato sopra una manciata di brillantini argentati. La luce che entra da fuori è affilata e gelida, modulata sulla stessa tonalità bianca del neon che vibra a bassa frequenza sul soffitto.
Alle 9.40 la presidentessa inizia a parlarci. Indossa una giacca sportiva Donna Karan, pantaloni di pelle nera e scarpe a punta con tacco, il viso di quel marrone-arancio che viene solo con le lampade e i capelli nero pece. Parla con frasi piene di feed-back brain storming opportunità multiculturale frontiera del domani, lo fa con un accento veneziano che la rende simpatica, meno televisiva. Ci spiega tutto e ci convince perché parla veloce e muove gli occhi in modo da riuscire a fissarci tutti contemporaneamente. Sorride.
Quando finisce ci fanno spostare in un’altra aula. Qui i tavoli sono cosparsi di brillantini dorati e la luce del neon è più stabile. Si gela. Ci sistemiamo sulle sedie disposte a cerchio come in una seduta d’autocoscienza, come in una serie tv americana dove c’è un padre cui gli assistenti sociali hanno strappato i figli, e lui ha sempre un giubbotto in jeans di quell’azzurro che non si usa più e mette tristezza.
La nostra insegnante di greco ha circa quarant’anni, si chiama Johanna e ha sposato un italiano. È bassa e sovrappeso, ma in quel modo morbido, non grasso, che hanno le persone del Sud. Ha un profumo alla vaniglia. Anche lei parla veloce e ci racconta cose senza nessun legame tra loro. Facciamo fatica a capire quello che vuole dire, si intuisce che vorrebbe raccontarci la Grecia intera in un corso di venticinque ore.
La mia vicina guarda la cartina e dice che bello ci sarà il mare. Io il mare me lo sono lasciato alle spalle questa mattina mentre facevo benzina al distributore di Duino e il cielo era di un azzurro iperilluminato, e in fondo, dove io non vedevo più, c’era il mare con i corpi degli studenti e dei vecchi stesi sul cemento di Barcola, le carte da gioco e i runner della pausa pranzo.
Guardo i miei futuri compagni di viaggio. Sono terrorizzata dall’idea di viaggiare in gruppo e dai viaggi organizzati dove bisogna sempre instaurare relazioni sociali, passare ore a discutere su cosa fare la sera, sorridere davanti allo specchio, scambiarsi vestiti, ballare con il bagnino, fare e ascoltare confidenze molto personali e divertirsi, soprattutto. Mi viene l’angoscia da vacanza in villaggio turistico, qualcosa che risale alla mia infanzia e agli animatori che trascinano tutti in balletti coreografici, e pensano sempre di far bene a coinvolgerti, che sia meglio coinvolgerti in quell’allegria e quella musica. Questo genere di cose rimandano a un’estate in vacanza con i miei zii quando avevo al massimo sette anni. Se ne stavano seduti al tavolo con le corone di fiori al collo e applaudivano con entusiasmo i tre animatori che passavano tra i tavoli requisendo i bambini per portarli sul palco. Saremmo finiti sotto tutti quei riflettori e gli occhi di decine di genitori che non la smettevano di battere le mani. Non avremmo avuto nemmeno qualche battuta da ripetere come nelle recite scolastiche, ma saremmo stati lì in piedi rigidi e in apnea a cercare di risultare carini e divertenti. I miei zii mi avevano spinto verso gli animatori, attirando ancora di più l’attenzione sulle mie caviglie ben ancorate alle gambe della sedia. Se ci fossero stati i miei genitori non l’avrebbero permesso. Avrebbero detto semplicemente “non sta bene, ha un po’ di febbre” facendo un cenno con la mano perché gli animatori si allontanassero e mi lasciassero stare. Mi avrebbero protetto e salvato. E io a sette anni, mentre salivo sul palco con la bocca piena del gusto salato delle lacrime respinte dagli occhi verso la gola, mi ero chiesta perché mai i miei genitori mi avevano fatto questo. Come avevano potuto, loro, abbandonarmi con due zii profondamente milanesi in un villaggio turistico? Perché non erano lì a salvarmi?
Nella pausa scendiamo al bar di sotto, spiamo i movimenti, iniziamo conversazioni. Siamo tutti mediamente socievoli e ci sorridiamo mentre scambiamo battute sui treni, i ritardi, le città da cui veniamo, la politica, il tempo, la stagione, l’epoca, l’era geologica.
Uno dei ragazzi faceva un corso di nuoto con me quando eravamo ancora nei Cavallucci marini, ci riconosciamo solo il terzo giorno.
«Tu hai il ragazzo?» chiede, lo ha chiesto a tutte, serio.
«…»
«Da quanto state insieme?»
«…»
«Lo tradirai?»
Non ascolta nemmeno le risposte, ha il tono di voce che veniva ai miei compagni delle medie quando giocavano a maschi contro femmine.
Si chiama Leonardo, durante la pausa legge il giornale con attenzione calcolata, dice che lavorava in una tv di Padova, che ha fatto male ad andarsene, ma lo pagavano poco.
«Tu stai lavorando?»
«No, sto solo facendo una traduzione» gli dico.
«Per che casa editrice?»
Registra il nome e alza le spalle continuando a sfogliare il giornale. Gli dico il nome di chi la dirige perché è un personaggio conosciuto.
«Te lo sei fatta?»
Lo chiede sempre con la stessa intonazione bassa. Ha una di quelle voci che devono essere bellissime quando cantano e suonano insopportabili in ogni altra occasione. Dice disegno con la esse da dizione.
Gaia beve un sorso di aranciata dal suo bicchiere e dice che lei lavora, deve farlo perché ha solo suo padre che la mantiene e non può mica permettersi di studiare e basta. Lavora da quando era alle superiori. Ha fatto il liceo artistico perché disegna molto bene, ma ha sempre lavorato. Adesso venire a Padova e fare queste lezioni preparatorie e inutili le sta facendo perdere un sacco di soldi, e lei non può mica permetterselo. A lei i soldi non li regala nessuno. Quando stava a Milano ci metteva poco a guadagnarsi due lire per il weekend e per non dipendere da casa ma ora, in questo buco di campagna dove ci sono solo fabbrichette, e quelle assumono gli extracomunitari, mica lei che ha una laurea e costerebbe troppo, ecco ora che abita qui non può mica perdere tempo.
Gaia dice tutto questo in tre minuti netti, come se noi la stessimo incolpando di qualcosa. Ha un dente spaccato e con quello mi sorride ogni mattina. Arriviamo sempre con molto anticipo, quasi nello stesso momento, mi fa un cenno con la testa e mi chiede come sto, io dico bene e tu? Il dente brilla, scheggiato in chissà che passato. Risponde che va bene con un tono che vuol dire il solito schifo, mi fa capire che la mia domanda è stupida e non serviva nemmeno rispondessi alla sua. È soltanto il ritornello prima di iniziare, la cantilena che il bambino ripete quando cammina da solo nel buio per scongiurare la paura, e lei prega così che queste lezioni finiscano presto, che questa vita finisca presto, prega di partire e di dimenticare tutto.
Non è la sola a volerlo, ma su di lei risplende, questo desiderio disperato, luccica affilato su quel dente rotto.
Tutti noi prescelti nascondiamo la sua stessa paura.
Gaia si veste di nero con una cintura piena di borchie e guanti di nylon con le dita tagliate. Ti guarda come se la sapesse molto più lunga di te e in qualche modo ti fa sentire male per il semplice fatto che puoi permetterti di ridere, lei non lo fa mai, nemmeno un accenno. Leonardo le sorride.
«A me tu Gaia piaci proprio, sei una dura vero?» dice, e lei non ha ancora capito che alle domande di Leonardo non serve rispondere.
Annamaria è arrivata una settimana dopo l’inizio delle lezioni. Ha sempre polo sui toni pastello, sandali con la zeppa di un beige indeciso, si sistema sulla sedia più esterna con un iBook G4 sulle ginocchia e inizia a prendere appunti. Con la mano destra si liscia e arriccia una ciocca castana di capelli sfibrati, sorride distante e ringrazia con un automatismo disumano, gentilissimo e privo di intenzione. Nelle pause non scende al bar, rimane in aula a chiedere informazioni sulla Grecia.
Valentina arriva con dei vestiti complicati pieni di gialli e viola, ha un orecchino sul sopracciglio e il piercing sulla lingua. Parla greco meglio di tutti noi. Gaia giura di averla vista all’esame di greco all’università, è per questo che lo sa così bene. Valentina non dice niente. Chiede a Leonardo perché legge sempre il giornale. A me dice che è bello tradurre, anche lei vorrebbe tanto farlo, con un entusiasmo sproporzionato e fuori luogo. Parla con chiunque tranne che con Gaia. Loro due non si avvicinano, non si toccano nemmeno per salutarsi, i loro corpi creano una sorta di barriera invisibile di forze che le tiene lontane. Tutte e due, a loro modo, sono invasive. Gaia con i riflessi metallizzati delle borchie che la corazzano e il tono che attacca sempre, come per rispondere in anticipo a qualsiasi accusa, la sua vita raccontata in cinque battute, il dente rotto che catalizza lo sguardo e toglie la voce. Valentina con gli accostamenti di colori che non hanno niente di tranquillo e impercettibile, l’aria da artista nei discorsi sulla psicanalisi e la voce troppo strillante, la figlia più piccola di tre fratelli.
Giacomo racconta una barzelletta dopo l’altra. Ridono tutti e sembrano non stancarsi mai. Mi ritorna la sindrome da villaggio turistico, che emerge ogni volta che qualcuno parla con le battute di “Mai dire gol”, “Mai dire Grande Fratello”, “Mai dire domenica” e “Zelig”. Ridono e io non conosco nemmeno un personaggio e mi mette tristezza tutta la situazione.
Decido di prendere questi quattro mesi di stage come una missione. Davide ha ragione, sarà una bella esperienza, una cosa bella da raccontare. Ma sono davvero solo curiosa? O desidero partire e vivere quattro mesi con queste persone e risultare carina e simpatica per conquistarmi il loro amore? E se davvero lo desidero così tanto che razza di persona sono?
Arriviamo all’aeroporto di Atene alle 22.30 del 28 aprile. Oltre le porte automatiche del ritiro bagagli cerchiamo con lo sguardo un cartello da seguire, con i nostri nomi o la scritta LEONARDO PROJECT.
Mi aspetto di trovare un uomo sui cinquant’anni in giacca blu stretta di spalle, ex palestrato dei tempi in cui non si prendeva nulla di chimico e non si seguivano diete svedesi, capelli corti e cartello bianco con una scritta che ci identifica.
Usciamo in mezzo a una folla di abbracci e baci con le braccia attorno al collo e gli occhi chiusi, valige che passano in mani più robuste, bambini che si aggrappano alle gambe.
Per noi non c’è nessuno. Le vetrate sono imperlate di brina, si congela.
Il volo low cost che ci ha portato qui era mezzo vuoto, Leonardo mi aveva chiesto di sedermi vicino a lui e mi aveva fatto ascoltare canzoni portoghesi e colombiane che parlano di lotte rivoluzionarie. Io detesto i sudamericani, li accomuno tutti nella figura di Isabel Allende. Non gliel’avevo detto perché durante tutto il volo mi aveva raccontato una serie infinita di storie bellissime. Forse erano inventate, per metà o per intero, ma il fatto che parlasse a bassa voce per non farsi sentire dagli altri e nel contempo non la smettesse di cliccare sui tasti del suo lettore per trovare la canzone più bella da farmi ascoltare, aveva avuto il potere di incantarmi. Quel tipo di incantamento dei bambini quando i cugini più grandi organizzano per loro i celebri spettacoli di magia che seguono sempre i pranzi natalizi. Aveva canticchiato una canzone, a voce così bassa che solo io potevo intuirne le parole. Ha una di quelle voci che ti immagini a cantare Blue Velvet.
Dopo cinque minuti riconosciamo Maria Kavandreis, la selezionatrice greca che ci ha scelti. L’abbiamo incontrata il primo giorno di lezione a Padova. Ognuno di noi era rimasto chiuso con lei in una stanza spoglia e metallica per qualche minuto. Fumava e aspettava una domanda. Io avevo chiesto: “Perché io? Perché proprio io...