La prima volta che siamo andate in Africa, avevi sette anni appena compiuti.
In realtà è stato solo un assaggio di quel continente così vasto e così diverso dal nostro. Credo che non si possa generalizzare: l’Africa è tanto in tutto. È tanto nella forza della sua natura, è tanto nella sua violenza e nelle sue contraddizioni. È tanto nei suoi odori, nei colori dei suoi cieli, che sembrano sempre più tersi dei nostri. Ed è tanto nei colori della pelle di chi vi è nato. I neri, infatti, non sono tutti uguali: ci sono quelli più scuri, quelli con i lineamenti più marcati e quelli più chiari, verrebbe da dire più europei.
La nostra prima Africa è stata una via di mezzo. Zanzibar, infatti, è un’isola molto turistica. I suoi abitanti hanno origini arabe e, per questo, i loro lineamenti sono meno marcati. Gran parte della popolazione è povera, ma la sensazione è che nessuno muoia di fame. La scelta del luogo non è stata casuale. Il fatto che fosse un’isola bagnata da un mare d’incanto e che il rischio malaria fosse assolutamente basso l’ha messa al primo posto per il nostro naturale istinto protettivo nei tuoi confronti.
Ricordo ancora la prima cosa che mi hai chiesto quando ti ho detto che la nostra famiglia sarebbe partita per l’Africa: “Mamma, non voglio vedere quei bambini che muoiono... non voglio...”. A distanza di mesi, evidentemente, le immagini che ti avevo fatto vedere erano ancora nitide nella tua memoria. Ti ho rassicurato dicendoti che saremmo andati a vedere un’isola molto bella dove sì, molte persone erano povere, ma non avremmo visto famiglie che stavano davvero male. Poi ti ho chiesto che cosa ne pensassi dell’idea di portare alcuni dei tuoi vestiti piccoli per regalarli ai bambini del luogo che ne avevano bisogno. Tu hai accettato senza alcuna esitazione, e così abbiamo portato con noi tre valigie piene per metà di roba da lasciare sul posto. Non che con questo pensassi di fare chissà che gesto, ma so che anche gesti apparentemente insignificanti possono migliorare la vita di qualcuno e mi faceva piacere che tu lo capissi..
Nel breve periodo che siamo rimasti a Zanzibar, hai fatto immediatamente amicizia con i ragazzi del posto che lavoravano sulla spiaggia davanti all’albergo. Vengono chiamati comunemente beach boys e la maggior parte della gente non li sopporta. Il loro lavoro consiste nell’agganciare i turisti appena arrivati per vender loro di tutto, dagli oggetti di artigianato, ai parei dai mille colori, alle gite per andare alla scoperta dell’isola. Niente di male, quindi, se non fosse per la loro invadenza, che a volte diventa eccessiva. Questo, però, accade solo nel corso dei primi giorni. Poi, capito con chi hanno a che fare, o lasciano in pace o diventano quasi amici. E questo è successo con te.
Personalmente credo non sia giusto viverli così male. Sono ragazzi che lavorano e, come cacciatori, aspettano che le loro prede escano dalla riserva, ma questo, non dimentichiamolo, quasi sempre per sfamare una famiglia.
In particolare tu hai fatto amicizia con un Masai. Una mattina, con quel ragazzo, hai costruito un bellissimo monte Kilimangiaro di sabbia. Lui ti ha mostrato i vari versanti della montagna più alta di tutta l’Africa e ha disegnato alle sue pendici il villaggio dove normalmente viveva. Io vi osservavo dal lettino poco distante e l’immagine che ritornava ai miei occhi era molto bella: una piccola bimba felice, magrina e pallida, e un gigante nero, magro, dai lunghi capelli intrecciati. Lui era vestito con la caratteristica stoffa Masai, dove prevale quasi sempre il rosso. Tu eri in costume, seduta sulla sabbia. Avrete parlato almeno per mezz’ora, e in quel lasso di tempo avete riunito un mondo.
In verità quel nostro primo viaggio in Africa non è stato come me lo ero immaginato. Nella mia testa ero convinta che in qualche modo avrei potuto insegnarti qualcosa di importante. Pensavo che insieme saremmo andate alla scoperta di realtà a te sconosciute... Pensavo che avresti imparato a giocare con altri bambini, che avresti condiviso con me l’entusiasmo di andare alla scoperta, l’entusiasmo alla visione della barriera corallina e mille altre cose.
In realtà non è andata proprio così. Il primo giorno hai fatto amicizia con una bambina sudafricana e da quel momento “schiodarti” dalla piscina è diventata un’impresa. Nulla, però, è impossibile. Così, una mattina, ti ho convinta a fare una lunga camminata sulla spiaggia per andare a visitare un villaggio locale. Appena arrivate hai sgranato gli occhi perché decine di bambini della tua età ci circondavano per chiederci qualcosa. Noi non avevamo nulla e comunicavamo con loro solo attraverso i nostri sorrisi. Quasi tutte le bambine indossavano vestiti lunghi fino ai piedi e portavano in testa un copricapo di stoffa che celava i capelli. Quando due maschietti un po’ più grandi di te si sono avvicinati e ti hanno toccato il capo, tu mi hai chiesto di andare via. Anche così piccola, hai capito che qualcosa non andava e ti sei sentita a disagio perché diversa.
In realtà, con il tempo lo capirai, non è che gli esseri umani siano diversi. Non sono il colore della pelle o il taglio degli occhi ad allontanarci, ma è la cultura di appartenenza che, in migliaia di anni, è riuscita a mantenerci più lontani di quanto avrebbe fatto il muro più alto della Terra. E questo perché, lo sappiamo bene, i muri si possono abbattere, mentre le convinzioni, le superstizioni e alcuni estremismi religiosi hanno radici profonde nella mente e nel cuore e sono difficilmente estirpabili.
Per anni ho raccontato storie di mondo. A volte solo per conoscenza, altre per violenze delle quali difficilmente parlano i media. Spesso, poi, vittime sono proprio le donne.
Ormai tu lo sai, e la cultura occidentale l’ha più volte ampiamente dimostrato, che uomini e donne hanno le stesse capacità di apprendere, di crescere nel mondo del lavoro, di fare importanti scoperte scientifiche.
Spesso le donne si sono messe in gioco più degli uomini per portare avanti battaglie preziose nei confronti della natura, anche a rischio della propria vita. Nel tempo sono diventate numerose anche le donne che hanno profondamente cambiato la storia della propria nazione.
Mi viene in mente Aung San Suu Kyi, una figura straordinaria che, dopo anni di lotta per i diritti umani e la democrazia in Birmania, grazie a elezioni libere è diventata parlamentare nel proprio paese. Per anni è stata leader di un movimento non violento. Per fare questo, per più di vent’anni ha rinunciato alla sua libertà, al suo essere donna, alla sua famiglia.
Chissà se crescendo ti avranno raccontato la sua storia... Se non è accaduto, te la voglio ricordare io, perché questa donna è un grande esempio di forza, coraggio e determinazione femminile.
Pur essendo una grande protagonista della storia della democrazia nel Sud-Est asiatico, non tutti la conoscono, e questo perché noi italiani abbiamo il brutto vizio di interessarci raramente a ciò che accade fuori dal nostro giardino. Ma io voglio ricordarti che il mondo è piccolo, e non devi dimenticarlo mai...
Tornando ad Aung San Suu Kyi, devi sapere che, prima di diventare il simbolo di non violenza e libertà che è oggi, viveva in Inghilterra con il marito e i due figli. Nel 1988 è tornata in Birmania per accudire la madre malata e si è trovata di fronte a una scelta drammatica: quella tra la sua famiglia e il suo paese. Negli stessi anni si è instaurato un regime militare duramente repressivo che l’ha messa agli arresti domiciliari per aver creato un movimento di opposizione non violenta, la Lega Nazionale per la Democrazia. Poteva, appunto, scegliere: tornare in Inghilterra senza far più ritorno in Birmania, oppure rimanere. Scelse di restare e di difendere il popolo birmano come se fosse un suo figlio. Pagò un prezzo altissimo: non poté ritirare il premio Nobel per la Pace, conferitole nel 1991, non poté assistere il marito, malato di cancro, che lottò per due anni e si spense lontano da lei, lasciandola ancora più sola. Nel mondo, è un’icona di forza morale e di coraggio.
Ecco, non ti dico questo affinché tu segua questi esempi: sarebbe quanto meno da megalomane e, soprattutto, non ti aiuterei certo a diventare una donna serena o felice. Le battaglie, anche le più giuste, purtroppo logorano e arrivano in profondità... E, soprattutto, nessuna vittoria è in grado di cancellare le cicatrici. Non ti dico di essere superficiale e di sfuggire alle responsabilità, ma ti sto invitando a riflettere sul fatto che ciò che per noi oggi è normale, potrebbe aver richiesto una guerra.
Lo sai, per esempio, che fino al 1946 le donne in Italia non hanno avuto diritto di voto? Sembra una cosa impossibile, eppure è così... Fino ad allora venivamo considerate, in quanto femmine e quindi poco istruite, non capaci di fare una scelta usando il cervello. Ma ti sembra possibile? Non che in Italia fossimo messi molto peggio degli altri... Nella maggior parte dei paesi europei, le donne hanno visto riconosciuto il diritto al voto nella prima metà degli anni Cinquanta. I più all’avanguardia sono stati i neozelandesi, che hanno permesso alle donne di andare a votare nel 1893. Mi lascia invece senza parole la Svizzera, paese considerato molte volte un esempio da seguire per organizzazione e civiltà. Lo sai che cosa c’è scritto sul sito elvetico swissworld.org, che ricorda cosa succedeva quando la tua mamma non aveva nemmeno dieci anni?
Il voto alle donne? Ma non fate ridere! Il loro cervello è più piccolo di quello degli uomini, il che prova che sono meno intelligenti. Sono portate all’estremismo, e andrebbero a manifestare senza neanche chiedere il permesso dei mariti. E poi non si favorirebbe l’uguaglianza sociale perché una donna per modestia non andrebbe mai a votare quando incinta, ed essendo risaputo che le donne di campagna fanno molti più bambini delle cittadine, queste ultime godrebbero di un ingiusto vantaggio. E se le donne venissero poi elette, che umiliazione per i loro mariti! Sarebbero costretti a cucinare...
Per cambiare questo modo di pensare, che a ricordarlo oggi sembra di due secoli fa, si è dovuto aspettare fino al 1971.
In questi anni, poi, è stata coniata la parola “femminicidio”, il che dice molto sul numero esagerato di donne che vengono uccise brutalmente perché considerate oggetti di proprietà.
Non che in passato fosse meglio... Un’altra cosa importante da sapere è che fino al 1981 esisteva il delitto d’onore. Un uomo che uccideva una donna che lo aveva tradito era in qualche modo giustificato perché ferito nell’onore e, di conseguenza, le pene erano irrisorie. Oggi non è più così, ma evidentemente molti maschi ci considerano tuttora alla stregua di oggetti da possedere o da utilizzare a piacere.
Oggi tu sei ancora piccola e non sai cos’è l’amore, ma mi domando quante persone sappiano davvero di cosa stiamo parlando.
Nel mondo, ancora oggi sopravvivono pratiche legate alla tradizione che violano barbaramente, feriscono violentemente il corpo e l’anima di noi donne. Lo sai che ancora nel 2013 in molti paesi alla donna viene negato il piacere del sesso? La cosa avviene attraverso la pratica dell’infibulazione – ancora molto comune in tanti Stati africani, nella penisola araba e nel sud-est asiatico –, che consiste nell’amputazione di parte dei genitali femminili, in particolare del clitoride, e successivamente nella cucitura delle grandi labbra. Questa pratica viene ripetuta per tradizione di famiglia in famiglia ed è la madre stessa a portare la figlia, ancora bambina, a subire questa orribile amputazione, che viene effettuata spesso con rasoi, forbici ma anche con oggetti recuperati al momento, come schegge di vetro o pezzi di latta particolarmente taglienti. Tutto questo per garantire in futuro un marito che, una volta scelta la donna, dovrà trovarla completamente chiusa e offerta solo a lui.
Un mio caro amico medico che da sempre dedica parte della sua professionalità ai paesi più poveri dell’Africa, ogni volta che parla di questa pratica mi dice che l’ostacolo più difficile da superare è proprio la famiglia, che ritiene l’infibulazione un valore aggiunto per la donna, anche a rischio di vederla morire, prima per terribili infezioni, poi durante il parto. Non è infatti raro che la donna non riesca a dare alla luce il piccolo naturalmente proprio a causa di questa trasformazione fisica imposta. A oggi si stima che 140 milioni di donne siano state sottoposte a questa tortura.
Fortunatamente, a dicembre del 2012 l’assemblea generale dell’Onu ha approvato una risoluzione che mette al bando le mutilazioni genitali femminili e prevede misure punitive per chi viola le leggi, oltre ad assistenza sanitaria e psicologica alle donne vittime di queste pratiche arcaiche. La strada da percorrere è ancora molto lunga perché nelle case, nei villaggi più isolati, in tutti i paesi del mondo, nel segreto delle mura domestiche possono accadere queste cose, e se non si ha il coraggio di urlare il proprio dolore e la propria rabbia, la dignità della donna ancora una volta è destinata a implodere dentro se stessa.
Questo è un esempio di una realtà che ai nostri occhi appare estrema ma, al di là del fatto che purtroppo non lo è, è importante che tu sappia usare la voce. Sappi urlare se serve, con tutta la rabbia che possono contenere il tuo corpo e il tuo cuore... Per la tua libertà, certo, ma anche per quella di chi, invece, questo coraggio non ce l’ha.
Tu oggi vivi ancora in un mondo idilliaco ma da tempo ho iniziato a fare attenzione e a riflettere sui messaggi che anche la nostra società trasmette ai bambini e in particolare alle femmine. Da sempre, come la maggior parte delle mamme, ti ho accompagnata nel sonno con il racconto di una favola.
Nelle librerie le favole che vanno per la maggiore sono quelle classiche. Per capirci: Biancaneve e i sette nani, Cenerentola, La principessa sul pisello, La Sirenetta, Cappuccetto Rosso, La bella addormentata nel bosco e tante altre. Lungi da me criticare le favole che mi hanno accompagnato nella mia infanzia, ma con il senno di poi alcune sono proprio delle stronzate.
Perdonami, ma non mi viene in mente un termine più appropriato. Perché le femmine delle favole devono essere sempre bellissime, povere o perseguitate? E perché a salvare le loro vite deve esserci sempre un principe, azzurro magari, ma sicuramente ricco? E poi, è mai possibile che questo principe debba scegliere sempre la sua sposa tra le ragazze in età da marito? Non ero a conoscenza del fatto che ci fosse un’età da marito, e lo dimostra il fatto che io mi sia sposata a quarant’anni.
Lo sai, sembra che io stia scherzando, ma non è così. Credo davvero che l’immagine dell’uomo che ci salva la vita, principe o non principe, sia alla base di molte nostre infelicità. Perché mai la nostra aspirazione dovrebbe essere quella di trovare un ragazzo ricco da sposare per risolvere tutti i nostri problemi? Eppure, nelle favole più gettonate spesso il messaggio è questo. Per non parlare poi della Sirenetta, che rinuncia alla propria vita per un uomo che non vede in lei l’amore, quello più grande. In realtà, se ci pensi, anche la Sirenetta, rinunciando alla propria voce, ha accettato una mutilazione per avere in cambio l’uomo dei suoi sogni, un po’ come avviene nella cultura di molti popoli con l’infibulazione. La differenza è che questa favola che ha fatto il giro del mondo è giunta a noi da uno scrittore norvegese, uno di quei paesi nordici all’avanguardia per l’uguaglianza fra i sessi, ma in fondo, se ci pensi, non si allontana molto dal comunicare l’immagine di un sesso femminile fragile che si annulla di fronte all’uomo che ama.
Ma come si fa a celebrare continuamente un amore non ricambiato o un amore che non ci rispetta e non ci ama per quello che siamo? Ecco, amore mio, in questo momento voglio proprio chiamarti amore... Non annullarti mai per un uomo che ti vuole cambiare, che ti giudica per il tuo aspetto fisico o ti vuole insegnare come si vive... Ti prometto che farò di tutto per non intromettermi nelle tue storie d’amore, ma sappi che io ci sarò sempre. Per ascoltarti, per aiutarti e per raccontarti che, dietro a una curva, la strada comunque continua.
Se poi ti andasse mai di fare tesoro dell’esperienza della tua mamma, posso garantirti che il compagno di una vita, o semplicemente di una parte del tragitto, dovrebbe apprezzare la condivisione e il dialogo. Dovrebbe saperti ascoltare, e la stessa cosa dovresti farla tu, mentre al giorno d’oggi sembra si sia davvero perso il piacere dell’ascolto. Tutti vogliamo essere sempre protagonisti, vogliamo raccontare di noi, delle nostre sensazioni, delle nostre avventure, dei nostri successi o anche delle nostre cadute, ma siamo poco disposti o interessati ad ascoltare le esperienze degli altri. Me ne sono accorta proprio di recente, ricordando con malinconia, in questi deserti di dialogo, le cene della mia giovinezza, quando in famiglia o con gli amici ci si confrontava con grande piacevolezza. Era come una partita a pallavolo: la palla doveva sempre essere passata, e dopo un massimo di tre scambi.
Oggi, anche nella nostra famiglia, è tutto più difficile. Gli orari spesso non coincidono e a volte la protagonista, che fa sempre dei grandi monologhi, è la televisione. Quante volte io e tuo padre abbiamo deciso che la televisione a tavola non si doveva guardare... quante volte, contro il tuo parere, l’ho spenta nel bel mezzo del tuo cartone preferito... quante volte invece ha vinto lei, con le notizie catastrofiche ripetute senza sosta dai telegiornali.
Un tempo perlomeno i Tg venivano trasmessi solo in determinate ore del giorno: se perdevi quell’edizione, dovevi aspettare almeno qualche ora. Oggi no! I Tg vanno in onda in qualsiasi momento del giorno e della notte e, con una rotazione di circa 15 minuti, ti ripetono in continuazione le stesse notizie... Quante volte ho sognato di frantumare quell’apparecchio che oggi non si può più chiamare nemmeno “scatola infernale”, perché è diventato ultrapiatto? Pensa che gran potere ha: contro la manifesta volontà di tutti di farne a meno, vince sempre lei. L’unica soluzione sarebbe bandirla dalla sala da pranzo, ma poi, in alcuni momenti, sono certa che ne sentiremmo troppo la mancanza.
Comunque, tornando a noi, mi auguro che tu un domani possa davvero apprezzare qualità che non invecchiano e non passano di moda: il piacere della risata e del dialogo, il saper accettare quei difetti che fanno parte di noi, il rispetto l’uno dell’altra, tutte cose che non costano niente, ma che oggi sono talmente rare da rappresentare un valore inestimabile.
Continuando a parlare di favole, voglio ricordare soprattutto. La principessa sul pisello, un racconto che non ho mai amato. È mai possibile che per essere principesse si debba essere rompiscatole? Mi ricordo che un giorno, non tanto tempo fa, mi hai chiesto di raccontartela di nuovo. Io te l’ho letta con la solita dolcezza, ma alla fine ti ho domandato in maniera provocatoria se secondo te quella era una favola intelligente, se ritenevi normale riconoscere una principessa dal fatto che non riuscisse a dormire perché sentiva un pisello sotto dieci materassi. Tu non avevi molte risposte, così ti ho spiegato che al mondo esistono ancora poche principesse, che dovrebbero d...