Che correre faccia bene è cosa ormai ampiamente accettata dalla gente e suffragata da studi di ogni tipo.
Ma spesso si trascurano gli effetti più perniciosi del correre. E non parliamo soltanto della pericolosissima tendenza all’assuefazione (per cui poi fermarsi diventa più difficile che iniziare, un po’ come le sigarette, le droghe o le canzoni di Pupo), ma proprio dei casi in cui correre mette a repentaglio la tua salute o, persino, la tua esistenza.
Ecco alcuni esempi di vita vissuta...
PER FORTUNA CHE C’È OSCAR
Sono nel Monferrato, è una bella domenica sera di novembre.
Mi telefona Oscar e mi propone di raggiungerlo a Moleto, piccolo paesino a 15 chilometri da dove mi trovo adesso, per correre assieme nelle morbide colline lì attorno.
È un bel percorso tra le viti e i ciliegi, con una salita finale che ti azzittisce.
Mi cambio, metto tutte le cose in macchina e chiudo la casa. Ormai sono andati via tutti, sono l’ultimo rimasto. Sino al prossimo venerdì non tornerà nessuno.
È una casa di campagna, che ci godiamo principalmente nel weekend. Chiudo il gas, la luce, tutte le finestre e la porta, tranne quella maledetta finestrella del bagno a pianterreno.
L’ho vista aperta mentre ero già in macchina. Torno indietro, ma non ho voglia di riaprire la porta, quindi tento di chiuderla dall’esterno. Non si devono mai chiudere le finestrelle a scatto dall’esterno!
La casa è un po’ isolata: due chilometri dal paese, due chilometri dal vicino simpatico, due chilometri dal vicino rompipalle e 125 chilometri da Milano.
Afferro un lato della finestrella e tiro forte con l’intenzione di far scattare il gancio togliendo la mano al volo. Non riesco a togliere la mano. Perlomeno non tutta. L’indice mi rimane schiacciato nella finestrella che si chiude con un bel TLAK.
Il dolore arriva un attimo dopo. Tiro e il dolore aumenta. Il dito è incastrato e così tutto il corpo è bloccato per colpa del dito. Proprio l’indice. Non potrò più indicare. Non è fine indicare col medio.
PANICO PANICO PANICO
Il telefonino è in macchina, sta venendo buio, non posso avvisare Oscar che mi maledirà.
Se grido nessuno mi sentirà, non posso resistere così una settimana. Morirò di fame e di sete... prima di sete, poi di fame; anzi, verrò sbranato dai cani selvatici, di notte qui ne girano... ma cosa dico!? Morirò di freddo: sono in pantaloncini e maglietta, ho lasciato il giubbotto in macchina!
Provo ancora a tirare, ma non c’è niente da fare. Il dito pulsa, fa male da bestia. Non posso neanche tagliarmelo, non ho il mio coltellino svizzero. Penso a quando troveranno il mio scheletro con la falangetta incastrata nella finestra. Sai le risate!
CRETINO CRETINO CRETINO
Ho il telecomando della macchina in tasca e, aprendola e chiudendola, accendo e spengo le luci delle frecce. Chissà mai che qualcuno noti questa intermittenza... Mi viene un’idea geniale: aziono il telecomando con tre impulsi veloci e tre lenti, il segnale di SOS dell’alfabeto morse... purtroppo oggigiorno non lo sa più nessuno.
È già passata un’ora e sembra un giorno. Non riesco neanche a sedermi, anzi sono tutto allungato, col braccio teso. Sembra che stia facendo stretching, invece sto morendo.
Adesso, oltre al dito, mi fa male anche la mano, il braccio e la spalla. Che situazione di merda. Mi viene da piangere; anzi: piango... un rumore... oh no, stanno arrivando i cani, peggio: i cinghiali. Sfilo il cordino dei pantaloncini, se si avvicinano, il primo lo strangolo...
Noooo, mi cadono e, con una mano non riesco a tirarli su, non ci arrivo... cavolo, se arriva un maniaco trova già la pappa pronta. Vedo una figura umana che si avvicina... Lo Yeti del Monferrato, non sapevo esistesse... non è possibile... Oscar!! Che umiliazione e che liberazione. Mi vede e non capisce il perché della mia posizione. Poi capisce e cambia espressione. Per un po’ non ride, ma poi non riesce a trattenersi e sbotta in una risata infinita. Nonostante il dolore rido anch’io. Mi tira su i pantaloncini, recupera le chiavi di casa in macchina e, dall’interno, sgancia il perfido congegno.
Mi dice che, non vedendomi arrivare, ha pensato che l’appuntamento fosse da me. Beata incertezza.
Sono libero, dovrei mettere dei punti ma, visto che siamo in «tenuta» da corsa, bendo il dito alla bell’e meglio e andiamo a farci una bella sgambata all’imbrunire.
Vado spesso in questa casa nel Monferrato a due passi dal paese, 125 chilometri da Milano e un tot dal mio amico Oscar che non mi abbandona mai.
LOST
Non so perché l’ho fatto. Probabilmente ero troppo stanco dopo aver volato direttamente da Amsterdam a Kuala Lumpur (13 ore no stop), probabilmente la strana sensazione dell’aria umida e dei 25 gradi di temperatura nonostante fosse febbraio, probabilmente il fatto che in quella zona di Kuala Lumpur non ero mai stato, ma l’idea di disfare il bagaglio e di uscire per una corsetta prima di sera mi era sembrata buona.
Adesso ormai erano quasi 50 minuti che mi facevo largo in quell’aria spessa.
La maglietta della maratona di Beirut era zuppa, i pantaloncini larghi che avevo portato per usarli anche in piscina se ne stavano incollati alle cosce, tanto bagnati erano, e io non avevo la più pallida idea di dove mi trovavo.
Kuala Lumpur è una bella città. Moderna, fin troppo.
È tagliata da alcune superstrade che sono simili alle tangenziali di Milano, solo che, invece di circondarla, la attraversano, dividendola di fatto in grandi aree in cui sono stati costruiti grattacieli, uffici, hotel e, poche, abitazioni di lusso.
Tra un’area e l’altra ci sono spazi verdi che, agli occhi di noi occidentali (soprattutto se abituati ai racconti di Salgari) prendono subito l’aspetto di una giungla.
Le zone pedonali sono ridottissime. Tutti si muovono in auto o con i mezzi pubblici, un po’ per il caldo un po’ perché sono viziati. A piedi si va solo all’interno dei centri commerciali.
Io, scarpette ai piedi, mi ero avventurato in una strada che mi sembrava meno trafficata, poi avevo seguito dei ragazzi in bicicletta, poi avevo deciso di tagliare per un parco, ma non trovando l’uscita dove mi aspettavo, avevo ripiegato su un’uscita diversa... insomma mi ero perso.
La prima reazione era stata quella di ripercorrere all’indietro la stessa strada, ma presto avevo realizzato che in quei paraggi tutte le strade sembrano uguali.
Mi ripetevo: «Sono un maratoneta, anzi un ultramaratoneta. Non c’è problema, stasera correrò un po’ più del solito».
Ma poi un tarlo si era insinuato nella mia mente... e se stessi correndo in direzione contraria al mio albergo? Di colpo avevo rallentato il passo e le forze mi avevano lasciato.
Il caldo. Non trovavo fontane dove bere e non avevo portato con me neppure un po’ di ringgit (la moneta locale). La lingua non era un problema, lì parlano tutti l’inglese, ma anche potendo comunicare cosa avrei potuto dire?
Non sapevo l’indirizzo dell’hotel, ma ne sapevo il nome. Se trovavo un taxi potevo farmici portare.
Bastava rientrare in una delle zone attraversate dalle arterie principali.
Non faceva ancora buio, ma il sole era tramontato da un po’.
Speravo che accendessero delle luci in modo da potermi orientare verso i luoghi più illuminati: i grandi negozi e gli alberghi erano per me come i fari dei naviganti antichi.
Un altro pensiero si insinuò nella mia mente.
E se qualcuno mi aggredisce?
Il cuore batteva più rapido, non so se per l’ansia o per il ritmo più veloce che avevo impresso al mio passo.
E se svengo in mezzo alla strada?
Quante volte mentre correvo a Milano avevo pensato che è da scemi correre senza avere con sé un documento di identità: se stai male chi chiameranno? E se era da scemi in Italia, come si definisce uno che in una città sconosciuta corre senza documenti, senza soldi, senza telefono?
Stavo percorrendo già da un po’ una strada piuttosto buia, attratto dal fatto che dietro agli edifici che la delimitavano vedevo un maggior chiarore.
Un po’ più avanti scorsi una coppietta che camminava veloce. Due ragazzi con dei sacchetti della spesa.
Li raggiunsi e chiesi loro se sapessero indicarmi dove trovare un taxi.
La ragazza, gentilissima, mi spiegò che una decina di metri più avanti avrei trovato un vicoletto attraverso il quale sarei arrivato proprio vicino a un posto dove i taxi passano sovente.
La ringraziai e affrontai quell’ultima prova.
Il vicolo era stretto e non capivo bene cosa ci fosse ai bordi della strada. Ma correvo e contavo sul fatto che, qualunque cosa fosse, sarei stato più veloce di lei. Una luce mi attirava verso la fine del vicolo.
Gli ultimi dieci metri credo che li feci più veloce di Usain Bolt... e finalmente mi ritrovai esattamente di fronte al mio albergo.
Fatta la doccia, prima di andare a cena, entrai in uno dei tanti centri commerciali e comprai un piccolo marsupio.
Mai più senza documenti, cellulare e una manciata di soldi.
INCONTRI PERICOLOSI
Stiamo girando degli spot pubblicitari. Siamo sulle morbide colline del Bolognese. Durante la pausa pranzo decido di fare una corsetta in questo bel paesaggio. Tolgo i panni del comico e metto la «divisa» da corsa.
Intanto Aldo si butta sul divano del camper e dorme, mentre Giacomo si connette coi suoi innumerevoli oggetti tecnologici.
Parto e sento il produttore e i dirigenti dell’azienda per cui stiamo girando gli spot commentare: «Quando torna sarà spompato e non renderà un tubo. Chi gli dice di non correre?». Allungo il passo, la loro titubanza non mi ferma.
Percorro la strada asfaltata in continuo saliscendi che costeggia ville e aziende agricole.
Spesso i cani da guardia si avventano sulle cancellate d’ingresso e sulle recinzioni che delimitano le proprietà. Meno male che sono chiuse. Non tutte, però.
All’improvviso, esattamente al settimo chilometro (sino ad allora il mio numero fortunato) esce da non so dove un rottweiler bellicoso. Mi immobilizzo e mi guardo attorno. L’albero più vicino è troppo lontano. Vie di fuga: nessuna. Possibilità di volare: nulle. Temperatura del corpo: due gradi. Se scappi, i cani ti scambiano per una preda e sei fregato. Rimanere fermi però è difficile. È come restare immobili mentre un tir ti sta venendo incontro a manetta.
Mi ricordo che se un cane ti salta addosso devi mettere avanti un braccio, per evitare che ti morda alla gola. Certo, con un rottweiler il braccio lo saluti in pochi secondi. Avessi almeno il mio coltellino svizzero! Quando serve non ce l’ho mai! Con quello avrei potuto difendermi egregiamente... Per rallegrare ulteriormente la situazione, mi viene in mente Il mastino dei Baskerville.
Provo una tecnica che mi ha insegnato un amico. Se hai paura, e io ne ho tanta, devi pensare che non sei tu ad averla, ma qualcun altro. Ti devi sdoppiare e osservare dall’alto.
Mi sforzo ma, non c’è niente da fare: non funziona.
Il cane è a due passi da me. Si è fermato. Mi abbaia furioso ma non attacca. Con voce tremante «grido»: «C’è nessuno? C’è nessuno?». Si materializza, anche lui non so da dove, un uomo in tuta da meccanico che dice: «Serve qualcosa?». Io rispondo: «Sì, vorrei che il cane non mi sbranasse». Lui ride e fa: «Non si preoccupi, non fa male a nessuno». E io: «Quel mostro non fa male a nessuno?!». E lui: «È tutta apparenza, vero Rocky?». Prende il cane per il collare borchiato ed energicamente lo porta nella proprietà.
Vorrei dire tante cose, soprattutto insultarlo, ma mi sento svuotato. Non ho più forze. Torno alla base camminando, ho le gambe molli.
Quando arrivo, sento il produttore dire ai clienti: «Avete visto che faccia?! Sembra che abbia corso la maratona di New York. Mi sa che questo pomeriggio verrà tutto uno schifo».
E, come un indovino d’altri tempi, la sua profezia si avvera.
Dopo questa brutta esperienza ho cercato un modo per tenere testa a eventuali assalti di cani.
Ho scartato il bastone, troppo ingombrante per la corsa. L’ascia, troppo appariscente, e anche il pugnale, che avrei portato legato alla caviglia e si sarebbe notato coi pantaloncini corti. Ho fatto delle prove con la frusta ma non ho ottenuto buoni risultati e mi sono lasciato due bei segni sulle gambe. Ho pensato anche all’immobilizzatore elettrico, ma devi «toccare» il cane e, a quel punto, ti è già addosso.
Poi mi è venuta l’illuminazione: lo spray al peperoncino!
L’ho acquistato soddisfatto, però per un mese non ho incontrato cani e mi è cresciuta la voglia di sperimentarlo. Ho pensato a mia mamma... a mio fratello... Troppo rischioso.
Così, un giorno, al ritorno da un bel giro in campagna, sono andato in bagno e, prima di fare la doccia, ho deciso di provarlo. L’ho spruzzato, con la mano tesa, verso il lavandino. Pur essendo scarso, il getto è rimbalzato sulla ceramica e si è nebulizzato nel piccolo locale.
Ho cominciato a tossire e gli occhi a lacrimarmi. Mi sono buttato sotto la doccia ma, nonostante il getto d’acqua, ho continuato a tossire e starnutire per tutto il tempo in cui sono stato in bagno. Questo supplizio è durato un bel quarto d’ora e il bagno è rimasto impraticabile per tutto il giorno.
La mia compagna mi ha requisito lo spray alludendo al fatto che non sono abbastanza affidabile e pure maldestro.
Ora sono disarmato e in balia delle belve.
Ho visto però un documentario in cui gli Indios cacciano le scimmie con la cerbottana, lanciando spine intrise di veleno ricavato dal dorso delle rane.
La cerbottana ce l’ho e le spine pure. Mi manca ancora di scovare quel tipo di rana prima che un altro cane cerchi di assaggiarmi.
Il tempo stringe, ma ho grandi speranze: sto partendo per il Brasile.
C’è chi a Milano c’è nato, e per questo l’ama, e chi ci è arrivato seguendo una delle tante occasioni che la vita ti mette davanti. Ma non per questo l’ama di meno.
È una città difficile da apprezzare se non la guardi attraverso gli occhi di un innamorato. Per me che venivo da una città di mare, una città abbracciata dalle colline aspre e il cui cielo era spazzato regolarmente dalla bora, trovarmi in una metropoli dove il cielo azzurro è un evento, dove il panorama è occultato dai profili delle case, dove per sentire il profumo di iodio devi andare nell’area relax di una palestra... be’ è stato uno shock. Che è durato fino a quando, una sera tardi, in compagnia di un amico, siamo andati in una birreria.
Ci sono serate così, serate in cui più birre bevi e più i ragionamenti acquistano in lucidità e la memoria funziona come una carta assorbente. Ormai erano le due passate. Nella sala restava un cameriere mezzo addormentato dietro al banco, il mio amico e io infervorati in non so più quale discussione, e un tipo strano, sulla cinquantina, il capello lungo e brizzolato, i jeans comodi (non di quelli che ti strizzano) tenuti su da delle bretelle che garantivano un po’ di decenza anche alla camicia bianca portata larga nella calda serata estiva. Sedeva solo a un tavolo, la testa ciondolante di chi aveva già bevuto molto, un’altra mezza pinta di birra scura davanti, tra i piedi la custodia nera di uno strumento a fiato.
Poi accadde.
Il tipo strano tirò fuori dall’astuccio un trombone e si mise a suonare. Jazz, probabilmente. Tutto tacque. Il cameriere dormiva ancora dietro al bancone, ma il tempo si era fermato. E io mi innamorai di Milano.
Quale altra città può regalarti ...