Calvin C. Quartermain aveva una struttura alta, lunga e arrogante come il suo nome.
Non si limitava a camminare, avanzava con andatura rigida e maestosa.
Non si limitava a vedere, spalancava gli occhi.
Non parlava, sparava a bruciapelo con la lingua, qualunque fosse il bersaglio che gli capitava sottomano.
Egli concionava, decretava, apprezzava niente, assommava ingiurie.
In quel momento era intento a esaminare dei batteri sotto il microscopio dei suoi occhiali d’oro. I batteri erano i ragazzi che meritavano la morte. Uno dei ragazzi, in particolare.
«Una bicicletta, Gesù, una dannata bicicletta azzurra… ecco cos’era!»
Quartermain urlò perché si era dato un calcio alla gamba buona.
«Bastardi, hanno ucciso Braling e ora vogliono me!»
Una robusta infermiera lo tenne fermo come la statua dell’indiano dei negozi di sigari mentre il dottor Lieber gli aggiustava la gamba.
«Cristo, che maledetto stupido. Cos’ha detto Braling circa il suo metronomo? Gesù!»
«La gamba è rotta, stia calmo.»
«Ma gli ci vorrà più di una bicicletta. Una macchina dell’inferno come quella non basterà a uccidermi, no!»
L’infermiera gli cacciò una pillola in bocca.
«Buono, signor C., buono.»
Notte nella casa acida di Calvin C. Quartermain, e lui a letto, rottame già da tempo, da quando la sua parte giovane aveva rotto il carapace ed era scivolata fra le costole, lasciando il guscio a seccare come scaglia al vento.
Quartermain piegò la testa e i suoni della notte d’estate respirarono nell’aria. Ascoltandoli, rimuginava il suo odio.
«Dio, fulmina quei mostri bastardi col tuo fuoco!»
Sudando freddo, pensò: Braling ha perso la sua coraggiosa battaglia per farli diventare esseri umani, ma io ce la farò. Cristo, che succede?
Guardò il soffitto e gli sembrò che un mucchio di polvere da sparo esplodesse per combustione spontanea, che le loro vite si estinguessero tutte insieme alla fine di un’estate incredibilmente lunga, un fenomeno del tempo e del cielo accecante, del miracolo a sorpresa per cui egli era ancora vivo, e respirava, in mezzo ad avvenimenti così pazzeschi. Ma chi guidava la parata, e dove andava? All’erta, perdio: i tamburini vogliono massacrare i capitani.
«Devono essercene altri» mormorò alla finestra aperta. «Altri che la pensano come me, su quei miscredenti!»
Sentiva le ombre fremere, all’esterno: gli altri uomini di ferro arrugginito nascosti nelle loro inaccessibili torri a mangiucchiare pappette di avena e a mordicchiare biscotti per cani. Li avrebbe invocati con alte grida, mentre la febbre saliva come un lampo di calore in cielo.
«C’è il telefono» ansimò Quartermain. «È il momento, Calvin, convocali tutti!»
Nel cortile buio si sentì un fruscio. «Cos’è?» mormorò il vecchio.
I ragazzi si ammassarono dabbasso nel mare d’erba senza luce: Doug e Charlie, Willie e Tom, Bo, Henry, Sam, Ralph e Pete, tutti a spiare la finestra della camera da letto di Quartermain, lassù.
Portavano tre bellissime zucche intagliate, terrificanti. Le avvicinarono al marciapiede e intonarono sotto le stelle, sempre più forte: «I vermi s’intrufolano strisciando, i vermi escono strisciando».
Quartermain chiuse a pugno le mani incartapecorite e afferrò il telefono.
«Bleak?»
«Quartermain, santo cielo, è tardi!»
«Zitto. Hai saputo di Braling?»
«Sapevo che un giorno l’avrebbero beccato senza la clessidra.»
«Non è tempo di scherzare.»
«Al diavolo lui e i suoi dannati orologi: lo sentivo ticchettare per tutta la città. Quando fai tanta fatica a reggerti sull’orlo della fossa, la cosa migliore è saltarci dentro. Un ragazzino con una pistola a tappo non significa niente. Cosa vuoi farci, proibire le pistole giocattolo?»
«Bleak, ho bisogno di te!»
«Abbiamo tutti bisogno l’uno dell’altro.»
«Braling era il segretario del Consiglio scolastico. Io sono il presidente! Questa dannata città brulica di assassini in embrione.»
«Caro Quartermain» disse asciutto Bleak, «mi ricordi quell’acuto direttore del manicomio che sosteneva che i suoi ospiti erano matti. Ti sei accorto solo adesso che i ragazzi sono delle bestie?»
«Ma dobbiamo fare qualcosa!»
«Lo farà la vita.»
«I maledetti idioti sono davanti a casa mia in questo momento e cantano un lamento funebre!»
«I vermi s’intrufolano strisciando? Era la mia preferita, da ragazzo. Non ti ricordi quando avevi dieci anni? Chiama i loro genitori.»
«Quegli scriteriati? Gli direbbero solo: “Lasciate in pace quel vecchio antipatico”.»
«Allora votiamo una legge che obblighi tutti ad avere settantanove anni.» Anche attraverso i fili del telefono, il ghigno di Bleak arrivava chiaro. «Ho ventiquattro nipoti, io, e quando li minaccio di vivere per sempre sudano freddo. Svegliati, Cal: siamo una minoranza, come gli africani neri e gli scomparsi ittiti. Viviamo nel paese dei giovani. Tutto quello che possiamo fare è aspettare che alcuni di quei sadici compiano diciannove anni per poi spedirli in guerra. Il crimine che hanno commesso? Essere pieni di succo d’arancia e pioggia primaverile. Pazienza, un giorno ormai vicino li vedrai vagabondare con l’inverno nei capelli. Gustati la tua vendetta con calma.»
«Dannazione, vuoi aiutarmi o no?»
«Vuoi sapere se puoi contare sul mio voto, al consiglio dei professori? Se comanderò l’Esercito delle Vecchie Carogne di Quartermain? Mi siederò in panchina e ogni tanto getterò un voto a voi cani feroci: abbreviare le vacanze estive, scorciare quelle di Natale, eliminare la Festa degli aquiloni a primavera. È a questo che pensi, eh?»
«Vuoi dire che sono un pazzo?»
«No, un alunno ritardato. Solo a cinquant’anni mi sono accorto che ero entrato a far parte dell’esercito degli uomini indesiderati. Non saremo africani, Quartermain, e nemmeno cinesi pagani, ma le stimmate della nostra razza sono grigie e i polsi che una volta giravano a meraviglia sono arrugginiti. Odio la faccia che vedo allo specchio ogni mattina, odio quel tipo solo e impotente. Quando passa una bella donna sento l’oltraggio. Dio, certi pensieri sono adatti alla primavera, non a un faraone estinto. Quindi, Cal, entro certi limiti puoi considerarmi dei tuoi. Buonanotte.»
I due telefoni si abbassarono.
Quartermain si affacciò alla finestra. In basso, la luce della luna gli permetteva di vedere le zucche che scintillavano della terribile luce d’ottobre.
Perché immagino, si chiese, che una somigli a me, l’altra a Bleak e altra ancora a Gray? No, no, non può essere. Cristo, dove lo trovo un metronomo come quello di Braling?
«Andate via!» gridò alle tenebre.
Quindi prese le stampelle e lottò per mettersi in piedi, si avventò al piano di sotto, zoppicò sul portico e in qualche modo raggiunse il marciapiede, avanzando sulla linea luminosa delle zucche vuote.
«Gesù» mormorò. «Sono le zucche di Halloween più brutte che abbia mai visto. Allora…»
Brandì una stampella e picchiò uno dei mostri arancio, poi un altro e un altro, finché le luci all’interno furono spente.
Fece qualche passo indietro e ricominciò ad ammaccare, fracassare: le zucche erano aperte, i semi sparpagliati, la polpa arancione schizzata dappertutto.
«Qualcuno venga qui!» gridò.
La governante, allarmata, uscì di corsa e si avviò al grande prato.
«È troppo tardi per accendere il forno?» s’informò Quartermain.
«Il forno, signor Cal?»
«Accenda il dannato forno. Prenda le teglie per cuocere le torte: conosce la ricetta della torta di zucca?»
«Sì, signor Cal.»
«Allora raccolga quei resti sbrindellati. Domani, a pranzo, avremo solo dessert.»
Quartermain si voltò e con l’aiuto delle stampelle tornò al piano di sopra.
La riunione straordinaria del Consiglio scolastico di Green Town stava per cominciare.
A parte Calvin C. Quartermain c’erano solo due persone: Bleak e la signorina Flynt, la segretaria.
Calvin indicò le torte sul tavolo.
«Cosa sono?» chiesero gli altri due.
«La colazione della vittoria, o se preferite il pranzo.»
«A me sembrano torte, Quartermain.»
«Certo, idiota! Il banchetto della vittoria, ecco di che si tratta. Signorina Flynt?»
«Sì, signor Cal?»
«Le detto una dichiarazione. Stasera al tramonto, sul bordo del burrone, terrò un discorso.»
«Di che genere?»
«Dirò: Mascalzoni e ribelli, la guerra non è finita; voi non avete perso né vinto. Finora abbiamo fatto solo le prove: preparatevi a un lungo ottobre. Ho valutato le vostre forze, perciò state attenti.»
Quartermain chiuse gli occhi e fece una pausa, poi si portò le dita alle tempie come per ricordare.
«Ah, sì. Il compianto colonnello Freeleigh è una grave perdita. Ce ne serve un altro. Per quanto tempo Freeleigh è stato colonnello?»
«Dal mese che spararono a Lincoln.»
«Be’, qualcuno deve fare il colonnello. Sarò io: colonnello Quartermain. Che ve ne sembra?»
«Va benissimo, Cal, benissimo.»
«D’accordo. Adesso zitti e mangiatevi la torta.»
I ragazzi sedevano in circolo sul portico di Doug e Tom. Il soffitto dipinto d’azzurro rifletteva il colore del cielo di ottobre.
«Dio» disse Charlie. «Non mi piace doverlo dire, Doug, ma ho fame.»
«Charlie, non è il momento.»
«Altroché se è il momento» ribatté Charlie. «Tortina di fragole con una bella nuvoletta di panna montata.»
«Tom» chiese Douglas, «cosa dice il regolamento scritto nel tuo taccuino a proposito del tradimento?»
«Da quando in qua pensare a una tortina è tradimento?» Charlie aveva tirato fuori un po’ di cerume dall’orecchio e lo guardava con grande curiosità.
«Non è per il fatto di averci pensato, è per averlo detto.»
«Ma io muoio di fame» disse Charlie. «Quanto agli altri ragazzi, basta toccarli che mordono. Così non va, Doug.»
Doug guardò il cerchio di facce dei soldati, come sfidandoli a unirsi alla protesta di Charlie.
«Nella biblioteca del Nonno c’è un libro secondo cui gli indù possono digiunare novanta giorni. Non preoccuparti, dopo il terzo giorno non sentirai più niente!»
«Quanto tempo è passato? Tom, controlla l’orologio. Quanto?»
«Mmmm, un’ora e dieci.»
«Però!»
«Come sarebbe, “però”? Non guardare l’orologio, guarda il calendario. Sette giorni è un bel digiuno!»
Rimasero in silenzio per un altro po’, quindi Charlie disse: «Tom, quanto tempo è passato?».
«Non dirglielo, Tom!»
Ma Tom consultò l’orologio orgogliosamente. «Un’ora e dodici minuti.»
«Santa vacca!» Charlie fece una smorfia, sembrava che portasse una maschera. «Il mio stomaco è diventato una prugna. Dovranno nutrirmi con una sonda. Sono morto, mandate a chiamare i miei. Ditegli che gli ho voluto bene.» Poi chiuse gli occhi e si rovesciò sulle assi del pavimento...