In effetti c’era qualcosa di strano nella morte della signora Kodra, travolta da un’automobile bianca, probabilmente una Fiat 132, la sera di martedì 6 gennaio alle ore diciotto e trenta, a Milano, all’angolo tra via Porpora e via Catalani. Morì meno di un’ora dopo al Policlinico. Una infermiera (Emanuela Quadri di trentadue anni) raccontò al medico di turno (il dottor Giuseppe Ancona di quarantotto anni) che la poveretta aveva sussurrato prima di morire una parola, forse un nome.
«Un nome come Paola, o Pola. Poteva essere anche Paolo, perché la donna era stremata e la sua voce un sussurro, un soffio.»
Il medico guardò l’infermiera: «Sono stati avvertiti i parenti?».
«Viveva sola, era vedova.»
«Kodra è un cognome albanese» disse il medico. «C’è anche un pittore che si chiama così.»
«Lei era nata a Fiume nel 1923, come mia madre.»
«A chi hai dato la carta d’identità?»
«Aveva un passaporto e una patente scaduta» disse l’infermiera. «Li ha tenuti Prandi per fare il rapporto in questura.»
«Finirà in niente. Il mascalzone è scappato, nessuno ha preso il numero della targa. Però è curioso: la donna non aveva che quel colpo alla nuca, nessuna ecchimosi sul corpo.»
«Amedeo ha detto che un tale ha visto l’auto, una Fiat 132 bianca» aggiunse l’infermiera.
«Amedeo chi?»
«L’autista dell’ambulanza, quello di Bari che suona la chitarra.»
«Andiamo bene» disse il medico. «Senti, domani non sei di turno, ci vediamo?»
«Tua moglie è partita?»
«Settimana bianca a Madonna di Campiglio.»
«Domani sera ho un impegno.»
«Sei una sciocca» disse piano il medico.
«Buona sera, dottore. A proposito, ti regalerò il disco.»
«Che disco?»
«Buona sera dottore.»
«Piantala.»
La ragazza gli sorrise e uscì.
Il rapporto diceva:
Martedì 6 gennaio, giorno dell’Epifania, alle ore 18.30 circa, la signora Anna Stuparic vedova Kodra di 53 anni, nata a Fiume il 4 marzo 1923, domiciliata a Milano in via Catalani 12 bis, dove viveva sola, è stata travolta all’angolo della stessa strada con via Porpora da un’automobile presumibilmente bianca. Secondo l’autista dell’ambulanza della Croce Verde, Amedeo Panizzaro, dovrebbe trattarsi di una Fiat 132: così gli avrebbe detto il portinaio dello stabile di via Porpora, proprio di fronte al quale è avvenuto l’incidente. Il portinaio, Giuseppe Marengo di anni 59, udì il rumore di una frenata, si affacciò alla finestra e vide l’auto che si allontanava verso piazzale Loreto. C’era nebbia. Non ricorda il numero della targa, eccetera...
Il vice commissario Giulio Ambrosio pensò che l’agente Prandi aveva attitudini letterarie: soltanto lui poteva aggiungere al martedì 6 gennaio, “giorno dell’Epifania”. Un miracolo che non avesse scritto: nata il 4 marzo 1923 sotto il segno dei Pesci.
Comunque era una faccenda odiosa: un bastardo ammazza una donna, scappa e chi si è visto si è visto. Sul «Corriere della Sera» la notizia era stata pubblicata in cronaca, venti righe in corpo sei, titolo su una colonna. C’era anche un errore di stampa. «il Giornale» l’aveva data in giustezza doppia, titolo su due colonne:
UCCISA DA UN’AUTO CHE FUGGE NELLA NEBBIA
Il vice commissario Ambrosio pensò a via Porpora, anzi al vecchio cinema Porpora dove andava da ragazzo. Ricordava quella zona piena di case basse con giardini interni e orti, pensioni, piccoli alberghi, portoncini di gusto liberty, botteghe. Con una ragazza che si chiamava Lisa aveva visto al Porpora tutti i film con Fred Astaire e Ginger Rogers, e poi era andato a una scuola di ballo vicino a piazza Missori. Quando aveva imparato a ballare i lenti, Lisa aveva incontrato un odontotecnico di Porta Volta e si erano lasciati.
«Bonelli!» gridò. «Senti, esco per un paio d’ore, se mi cercano di’ che torno alle cinque. Ciao.»
Accese una Muratti, scese lo scalone della questura, in cortile aveva la sua Volkswagen Golf color erba (gli piaceva perché era una macchinetta di moda, come una volta la Mini, e poi la R5). Faceva freddo, tre sottozero secondo il Gazzettino Padano. Alzò il collo della canadese, poi salì in macchina.
“Sono anni che non vedo via Porpora” pensò.
Posteggiò di fronte a un bar, aveva voglia di un caffè.
«Lungo» disse. Era un uomo robusto, col viso segnato, i capelli folti tagliati corti, un’aria svagata, come se si portasse dietro un problema da risolvere e pensasse a quello soltanto, senza riuscire a trovare la soluzione.
Uscì sulla strada.
Via Catalani non era cambiata, da come la ricordava. Camminava adagio guardando le case di un piano, colorate una diversa dall’altra. Un piccolo hotel (per fare l’amore al pomeriggio), una clinica (qui tolsero le tonsille a Guenzati, compagno di quarta ginnasio), la targa di un tosatore di cani.
Superò il numero 12 bis. Una cosa alla volta. Guardò gli alberi neri di un giardino. In via Vallazze la nebbia era più fitta. “Ci passavo in bicicletta” si disse. Da quando Francesca l’aveva lasciato si raccontava le cose, da solo.
Non c’era portineria. Quattro campanelli, due senza targhetta. A fianco di uno c’era scritto PAPETTI, accanto all’altro ORLANDINI. Preferì quello di Orlandini. Era un poco snob anche in scelte di questo tipo.
Non accadde nulla.
Allora, a malincuore, spinse il bottone del signor Papetti, che invece era una signora.
Lo aspettava al primo piano in cima alla scala.
«Non ho capito bene il suo nome. Chi cerca?»
Era una vecchia indomabile, magra, sui settant’anni, con una voce robusta che al telefono passava certamente per quella di un uomo. Fumava.
«Mi chiamo Ambrosio e cerco la signora Kodra.»
«Venga su. Lei è delle pompe funebri?»
La vecchia lo guardava con curiosità, ma anche con sospetto.
«Non è delle pompe funebri?» ripeté, indietreggiando verso la porta.
«No, sono della questura.» Tanto valeva dirglielo subito.
«Si accomodi.»
La stanza era buia, nonostante fossero le tre del pomeriggio: un divano ricoperto di cotone a fiori, due poltrone uguali al divano, una lampada con un abat-jour rosso spento, un vecchio tavolo rotondo, un secrétaire con il ripiano aperto, alle pareti un quadro ovale fatto con fiori secchi, una veduta di Napoli in una cornice nera, la fotografia di una ragazza con un grande cappello bianco (“da riprodurre sulla porcellana per una tomba” pensò Ambrosio).
«Si sieda.»
Una molla della poltrona era rotta.
«Mi parli della signora Kodra.»
«Fa bene a venire al dunque con me, non mi piacciono i trucchetti. Il mio povero marito era maresciallo maggiore della guardia di finanza.»
«Vive da sola?»
«Con mia figlia, che è impiegata all’Azienda elettrica.»
«Cerco notizie sulla signora Kodra: come viveva, chi vedeva, che tipo di donna era. Tutto quello che sa.»
«Non è facile.»
La vecchia prese un bocchino di onice, vi infilò la sigaretta, si sistemò due cuscini all’uncinetto dietro la schiena. Sul divano pareva un idolo, o un uccello rapace. Chissà com’era, da giovane. L’imprevedibilità delle donne. Un uomo, più o meno, riesci a immaginarlo come sarà, o com’era.
«Mica facile» ripeté. «La signora abitava qui, sotto di me, da subito dopo la guerra. Noi ci siamo venuti dieci anni più tardi. Ricordo che avevamo il nostro primo televisore, un Geloso che non si rompeva mai, un fenomeno: mio marito era sempre incollato a quel televisore. Abbiamo visto insieme la rivolta di Budapest. Lei era un bambino.»
«Nel ’56 avevo ventinove anni e mi ero appena sposato.»
«Figli?»
«No. Senta, signora: perché dice che è difficile avere notizie della sua vicina?»
«Perché viveva come un orso: buon giorno buona sera e basta. Mio marito la chiamava Mata Hari, sa quella famosa spia. Alla tivù...»
«Scusi, signora, ma...»
«La chiamava così perché era un tipo misterioso. Era graziosa, a suo modo, bionda. Si ossigenava, naturalmente. Abbastanza in carne. Col passar del tempo si era u...