Il bacio del pane
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Il bacio del pane

  1. 176 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il bacio del pane

Informazioni su questo libro

Il mare che si allontana, scintillante nella calura. La fiumara da risalire, gonfia di pietre luminose, i ruderi dei mulini, il bosco di lecci chiazzato del giallo delle ginestre e infine lo scroscio sempre più intenso: è così che Francesco e i suoi amici scoprono un'oasi di pace presso la cascata refrigerante del Giglietto, sopra il paese di Spillace, in Calabria. Il luglio è afoso, e i bagni nel laghetto, seguiti dai saporitissimi pranzi, sono il diversivo ideale per la piccola comitiva di ragazzi e ragazze nemmeno diciottenni, affamati di vita e di emozioni.
Ma quel luogo incantevole cela un mistero: in uno dei mulini abbandonati Francesco e Marta - la bellissima compaesana che vive a Firenze e scende al mare per le vacanze - incrociano gli occhi atterriti e insieme fieri di un vagabondo, che si comporta come un uomo braccato, cerca di allontanarli ed è addirittura armato. Ma la curiosità buona dei due ragazzi, gli sguardi leali scambiati nell'ombra, hanno la meglio: e presto l'uomo misterioso rivela qualcosa di sé, della ferita che lo ha condotto a nascondersi...
Luglio, agosto, giorni in cui la vampa dell'estate si accompagna ai sapori dei fichi maturi, delle olive in salamoia, del pane preparato in casa con un rito affascinante, sul far del mattino. Giorni in cui nemmeno la calura spegne il desiderio d'amore, che vibra tra i ragazzi e accende gli animi come peperoncino vivo sulle labbra. E poi settembre, l'estate che si va spegnendo, il ritorno alla scuola e alla vita usata, la maggiore età che si avvicina: e con essa la consapevolezza che l'incanto non è nulla senza il coraggio, senza l'impegno che ogni vita adulta richiede.
Con freschezza e passione, Carmine Abate dà vita a un intenso romanzo di formazione che si svolge nel tempo di pochi mesi e insieme racconta il senso racchiuso in una vita intera. L'uomo "selvatico" del Giglietto sarà per i protagonisti il testimone più alto della dignità, del rifiuto della prepotenza, della solidarietà che rendono grande ogni esistenza, e restituiscono a ogni luogo la sua bellezza. Valori che si incarnano nel gesto antico e attuale di baciare il pane, per celebrarne il dono e il mistero.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804629276
eBook ISBN
9788852042959

Agosto

8

Lo scirocco aveva allentato la morsa dell’afa dopo due settimane d’inferno, lasciando sulle strade e sui tetti delle case una patina di sabbia rossa del Sahara. Erano i primi giorni di agosto. Nel cielo senza rondini il sole sprigionava una luce biancastra che lo rendeva invisibile. Dalle finestre aperte si diffondeva l’odore dei peperoni fritti e nei giardini i fichi nivurelli maturavano a vista d’occhio.
Era quella l’estate che amavamo, l’estate gonfia di caldo secco e di promesse. Si continuava a sudare, ma il sudore scivolava via con un bel tuffo in mare o una doccia fresca; di notte la brezza saliva dalla marina, si spandeva nella nostra piazzetta e indugiava su di noi carezzandoci il viso, i capelli e ogni lembo di pelle nuda.
«Come si sta bene qui» diceva Mauro aspirando boccate di brezza nei polmoni. Emilia gli stringeva un braccio, gli baciava un orecchio, e noialtri gli davamo ragione: «Sì, si sta da Dio». Nessuno sparava cazzate in quei momenti. Lo stordimento delle giornate d’afa si era tramutato in pigrizia silenziosa. Avremmo voluto rimanere fermi e muti nella notte, con la brezza sul viso e il fiato delle ragazze sul collo per tutta la vita.
Marta se ne stava appoggiata con le mani intrecciate sulla mia spalla. Ne sentivo il respiro. Se mi fossi girato di pochi centimetri avrei incontrato le sue labbra.
All’una in punto si risvegliò la cicala paccia che friniva con più grinta, e forse con più gioia, rispetto alle nottate appiccicose di luglio.
Dissi a Marta: «Domani la mamma farà il pane».
Lei scattò come se avesse preso una scossa, mi sorrise, rispose: «Okay. Io vado a dormire, sennò domani sarò distrutta». Poi si rivolse agli altri: «Sono stanca, io mi ritiro. Buonanotte, ragazzi».
La cicala paccia non la smetteva di frinire il suo grido d’amore. Resistetti circa un’ora sul muretto di fronte al mare lontano, muto in mezzo agli altri muti, dentro un groviglio di eccitazione e ansia: pensavo che l’indomani avrei trascorso una giornata da solo con Marta, che avremmo fatto il bagno alla cascata del Giglietto e rivisto l’uomo del mulino e Fortunè. Ero stanco anch’io, di rimuginare. Mi alzai e dissi che andavo a nanna.
Gli amici mi presero in giro: «Non riesci a resistere più di un’ora senza Marta. Hai la faccia da pera cotta».
Erano le due di notte, non intendevo reagire alle loro provocazioni. «Ci vediamo domani» risposi e, con un movimento a raggiera della mano, lanciai un bacio ironico a tutta la compagnia.
Rientrato a casa, andai dritto in cucina a prendere una bottiglia di acqua minerale dal frigo e vidi la madia ricoperta da un velo trasparente. Dentro c’erano da una parte la pasta madre che stava lievitando e dall’altra la farina, pronte per l’impasto alle cinque del mattino.
Avevo promesso ai miei di avvisarli quando rincasavo di notte, altrimenti non dormivano tranquilli, perciò dissi forte: «Sono io».
Dalla loro stanza sentii la voce assonnata della mamma: «Che ore sono?».
Mio padre russava alla massima potenza.
Mentii: «È l’una meno venti. Buonanotte, ma’».
«Buonanotte, gioia.» Poi farfugliò qualcosa a mio padre, che smise di russare e le fece eco per dovere: «Buonanotte».
Così, ogni notte d’estate.
Il pane appena sfornato mi deliziava le narici con la sua fragranza intensa, come se lo avessi avuto a un centimetro dal naso, addirittura ne avvertivo il tepore sulla pelle. Era una sensazione bellissima, perciò sorrisi a occhi chiusi. «Sveglia, Francesco. È tardi.» Stavo sognando? «Sveglia, dormiglione!» Era la voce di Marta?
Con uno sforzo scollai a stento le ciglia e intravidi un pane davanti agli occhi, tra due mani conosciute. «Non stai sognando, sveglia» disse Marta e mi diede un bacio sulle labbra.
Ero a torso nudo, coprii con il lenzuolo il gonfiore imbarazzante dei boxer e la fissai con uno sguardo interrogativo.
No, non stavo sognando, erano le sue labbra saporite, quelle. Ma non capivo cosa ci facesse Marta nella mia stanza con un pane tra le mani.
Lei si sedette sul bordo del letto e mi spiegò, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo, che aveva aiutato mia madre a fare il pane.
«A che ora sei venuta?» le chiesi.
«Alle cinque. Non ho dormito un minuto dall’eccitazione.»
«E la mamma?»
«Una donna super, giuro. Si è sorpresa nel vedermi a quell’ora, ovvio, e mi ha messo subito alla prova: abbiamo fatto il pane assieme. È stata una fatica, però lo rifarei domani.»
«Non ne dubito» le risposi ironico, «ma prima dobbiamo consumare quello che avete sfornato stamattina», e diedi un morso al pane per eliminare dalla bocca l’alito acidulo del risveglio.
Marta scoppiò a ridere. «Che bischero tu sei, che bischero» mi diceva e io avevo una gran voglia di baciarla.
«È ottimo questo pane, il migliore che abbia mai mangiato. Si sente il tocco delle tue manine fatate» scherzai, ma il pane era davvero ottimo, e lo addentai per la seconda volta con gusto maggiore.
Lei mi imitò dando al pane un morso feroce. «Altro che manine fatate» disse a bocca piena, «ci vogliono i pugni chiusi per fare il pane, ci vuole fatica, sudore. Girati che te lo mostro.»
Mi girai a pancia in giù e lei, seduta a cavalcioni su di me, cominciò a premere con le nocche sulle mie natiche e sulla schiena. «Prima si impastano la farina e la pasta madre con acqua tiepida e sale... in tutto una ventina di chili...» Premeva così forte che mi faceva male. Mi lamentai. «Zitto, che fra poco finiamo.» Passò alle spalle, i movimenti dell’impasto divennero massaggi, carezze ruvide, stavo lievitando anch’io dall’eccitazione. «Poi si taglia questo bell’impasto abbronzato, lo si divide in pezzi e se ne ricavano forme di pane crudo ma, prima di portarle al forno, si lasciano lievitare nel letto, dopo averle coperte così...» E mi coprì fino alla testa con il lenzuolo, appoggiò la fronte sulla mia schiena impastata e concluse: «Ora alzati che andiamo a fare colazione, tua madre mi ha...». Mi voltai e la strinsi tra le braccia nel momento in cui stava dicendo «invitata».
Ero sorpreso quanto lei di quell’abbraccio, «smettila» ripeteva, la strinsi più forte, «smettila, ti prego», la baciai, lei chiuse gli occhi e ricambiò con foga. Mi liberai del lenzuolo. Marta si distese su di me e mi accarezzò i capelli, continuando a baciarmi. Sentivo i suoi seni sfiorarmi il petto a ogni battito del cuore e, mentre lei ansimava dalla voglia, le infilai una mano negli slip.
Non so cosa la fece pentire, se il mio ardore sconsiderato o il pensiero che in cucina c’era la mamma. Si liberò della mia mano con veemenza, saltò fuori dal letto e disse: «Ora basta, stai esagerando! Ci vediamo davanti al negozio di alimentari fra mezz’ora. Non dimenticarti il pane».
«E la colazione insieme?»
«Non ho più fame. A dopo.» E se ne andò, sculettando nervosa e sensuale, a salutare mia madre.

9

Fortunè ci corse incontro e ci scortò fino al mulino senza mai smettere di farci festa: abbaiava di contentezza, ci saltava sulle ginocchia, muoveva la coda come un metronomo impazzito dalla punta bianca.
«Piccolo, piccolo, quanto sei cresciuto in due settimane! Anche tu ci sei mancato molto» disse Marta con l’artificiosa voce da bambina. Era la prima volta che apriva bocca da quando mi aveva lasciato solo nel mio letto. Durante il viaggio si era chiusa in un mutismo cocciuto e ostile. Le avevo chiesto cento volte cosa avesse, anche se lo intuivo, poi avevo reagito con uno scatto di orgoglio, ignorandola per tutto il tragitto lungo la fiumara, accelerando il passo per dispetto.
L’uomo ci aspettava davanti al fico. Lo riconoscemmo a stento. Si era tagliato la barba bianca da Matusalemme e indossava la mia maglietta celeste e i pantaloncini da ragazzo. I capelli li teneva raccolti in un lungo codino che gli strisciava sulla nuca come un serpente. Sembrava ringiovanito di vent’anni, complice anche lo sguardo, di un grigio luminoso, senza una sola pagliuzza di disperazione. Doveva avere più o meno l’età di mio padre.
«Buongiorno. La trovo proprio bene stavolta» gli disse Marta sincera.
Mi sarei aspettato che rispondesse: “Grazie, lo devo a voi, al vostro pane e companatico”. Invece lui staccò due fichi dall’albero e ne donò uno a Marta e uno a me, con un’espressione severa del volto, come se ci ordinasse di mangiarli.
«Le abbiamo portato un po’ di roba, come l’altra volta» disse Marta.
«Anche due pani sfornati stamattina» aggiunsi io per compiacere entrambi.
Gli occhi dell’uomo luccicarono. «Entriamo dentro che è più fresco» rispose.
Pure il locale appariva più pulito e in ordine. Il pavimento era stato spazzato con una scopetta di erica che vidi appoggiata sul muro di fronte all’ingresso. Nessuna traccia di tizzoni spenti e di cenere. In un angolo c’erano il sacco a pelo tenuto arrotolato dal peso della Divina Commedia e il sacco da marinaio che fungeva da armadio, credenza, cassettiera e nascondeva sicuramente la pistola.
Marta tolse dal suo zaino una tovaglia, la stese per terra e vi posò più o meno la stessa quantità di cibo della volta scorsa. Per Fortunè riempì le due ciotole, una di crocchette e l’altra di latte. All’uomo porse un contenitore di plastica con melanzane ripiene e peperoni cotti al forno da mia madre. Per noi avevamo portato dei panini a forma di croce infarciti di frittata alle cipolle.
L’uomo prese il pane e lo annusò a occhi chiusi, poi ne tagliò due fette, le imbottì con i peperoni piccanti e si mise a mangiare senza fretta. Stavolta non gli cadde nemmeno una briciola.
Per qualche minuto ci fissò pensieroso, un nodo di rughe sulla fronte che si sciolse lentamente.
Incredibile, disse, gli sembrava di specchiarsi nei nostri occhi e nell’appetito sanizzo che avevamo, gli sembrava di rivedersi in quello stesso posto con i suoi coetanei, giovani affamati anche loro di pane e di amore, un’estate di quarant’anni prima, l’estate più bella della sua vita.
Erano una squadra di ragazzi dai diciotto ai vent’anni. Lui li aveva incontrati alla stazione Termini mentre aspettava la coincidenza per Milano. Si era diplomato ragioniere da quasi un anno e, dopo aver cercato inutilmente una sistemazione nella sua provincia, aveva deciso di partire, anche se non sapeva ancora se iscriversi all’università o trovarsi un lavoro in una fabbrica del Nord, come tanti suoi paesani. A Milano avrebbe potuto provare sia l’una che l’altra strada... se ci fosse arrivato.
A vedere quelle ragazze e quei ragazzi allegri, con i capelli lunghi e le chitarre a tracolla, aveva provato una sensazione strana, difficile da tradurre in parole: forse era un’invidia buona, un’ammirazione a prima vista, il rammarico di non essere come loro. Dai loro sguardi straripava la felicità o magari l’azzardo di chi vive con la leggerezza della libellula in volo, senza il peso del mondo sulle spalle. Per la prima volta vedeva splendere l’immagine della giovinezza spensierata che non si lascia abbattere dall’inquietudine o dalla noia della vita quotidiana – come era successo a lui, che a diciannove anni si sentiva un vecchio dal futuro spento, pieno di pensieri cupi e distruttivi –, la giovinezza che ti dà la forza per combattere i mostri dentro e fuori di te.
«Dove andate?» aveva chiesto, curioso e interessato.
«In paradiso» avevano risposto loro con ironia. «Se vuoi c’è posto anche per te.»
Senza pensarci troppo aveva preso una decisione di cui non si sarebbe mai pentito: si era aggregato con fiducia a quei giovani sconosciuti ed era salito sul treno del ritorno in Calabria, due ore dopo essere sceso da quello dell’andata.
Erano arrivati a Crotone la mattina presto e avevano preso il postale per Spillace, il paese di Beniamino, un ragazzo magro e capellone che studiava in un collegio di Roma, come la maggior parte di loro.
Scesi in piazza si erano imbattuti nella banda musicale che suonava marce allegre. Meglio di così non li avrebbe accolti nessun altro luogo al mondo, aveva detto Beniamino, fingendo di non sapere che era il tredici giugno e la banda annunciava l’inizio della festa di sant’Antonio. Poche ore dopo avevano seguito la processione attraverso il paese, familiarizzando con i vicoli, l’aria tiepida e profumata di fine primavera, la gente di Spillace, e la sera si erano mescolati alla folla cantando e ballando davanti al palco, dove si esibiva un complesso musicale. Certo, si distinguevano dai giovani locali, vestiti a festa, per gli abiti sgargianti e trasandati, specialmente le ragazze del gruppo, tutte di città, un paio straniere, di sicuro ritenute zoccole a prescindere, che invece erano dolcissime e sognatrici, troppo più avanti rispetto al mondo arretrato di quei tempi.
Per qualche giorno avevano dormito nella casa di Beniamino, i ragazzi nei sacchi a pelo, le ragazze nei letti.
Preso dal racconto, l’uomo masticava con lentezza, rumoreggiando in modo imbarazzante, al punto che persino Fortunè alzò la testa dalla ciotola del latte e lo fissò perplesso. Lui ricambiò con un’occhiata distratta, scrutò di nuovo Marta e infine rivolse lo sguardo grigio su di me, a lungo. Era la prima volta che parlava spontaneamente di sé. E non pareva pentito.
«Voi avete gli stessi occhi di quei ragazzi» proseguì «e, in più, la stessa generosità della gente di Spillace che, a parte i pettegolezzi e le malignità di qualche invidioso, ci aveva preso in simpatia e ci portava frutta fresca e verdura dall’orto, olive in salamoia e un po’ di latte appena munto, qualche bottiglia di vino e il pane fatto in casa.» E, addentando il pane di mia madre, aggiunse che grazie a noi aveva ritrovato la fragranza e il sapore della giovinezza. Fu allora che volle conoscere il nostro nome e ci svelò il suo: Lorenzo, come il nonno paterno.
L’idea di spostarsi alla cascata del Giglietto era stata di Beniamino, che conosceva le bellezze del luogo e sapeva che nessuno si sarebbe lamentato di quel trasloco. D’altronde, nella piccola casa del paese, chi vi soffocava più degli altri era proprio lui, perché si rivedeva bambino accanto alla bara della madre, nella stanza straripante di donne, urla, dolore.
Erano scesi dal campo sportivo, compiendo un tragitto che all’andata era molto meno faticoso di quello che facevamo noi. E già dall’alto, ammirando la valle con la cascata e la fiumara gonfia di pietre luminose e di oleandri in fiore, i ruderi misteriosi dei mulini lungo il corso, il bosco di lecci chiazzato del giallo inebriante delle ginestre, già dall’alto, al primo colpo d’occhio, aveva intuito che il Giglietto lo stava aspettando da sempre. Non aveva dubbi: sono i luoghi che ti cercano e ti trovano e, quando arrivi da loro, ti sembra di esserci stato altre volte, ne riconosci i profumi, i colori, la voce, ti chiedi come hai fatto a non sentirne prima il richiamo.
Si erano sistemati nella casa vuota del molinaro, che con il terreno circostante apparteneva alla famiglia di Beniamino e allora era abitabile, tant’è che in inverno i cacciatori di passaggio si riscaldavano al fuoco del caminetto. Ma certe notti calde preferivano dormire sul sacco a pelo, sotto il cielo nudo. L’unico problema, soprattutto quando di notte andavano a pescare le anguille nei vulli, erano le zanzare. Per il resto, quel luogo era davvero accogliente, fresco e profumato, generoso di frutta e di acqua potabile; addirittura, in certi punti fertili, crescevano spontaneamente piante di pomodoro e melanzana, i cui semi erano stati trasportati dagli uccelli.
Nelle ore più calde si rinfrescavano tutti insieme nel laghetto. A volte da Spillace arrivavano frotte di ragazzi, amici d’infanzia di Beniamino, e non riuscivano a staccare gli occhi dai seni nudi delle ragazze, che guizzavano felici nell’acqua.
Dopo pranzo, all’ombra della roccia da cui sgorgava la cascata, si dedicavano a lavori di artigianato: creavano bra...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il bacio del pane
  3. Prologo
  4. Fine luglio
  5. Agosto
  6. Epilogo
  7. Copyright