- Dello stesso autore in edizione Mondadori
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- Piano inclinato
- Una notte, una vita
A mia moglie Teresa
e a mia figlia Federica
Lasciamo Porto Said.
Cala l’imbrunire quando il Money prende il largo. La giornata è stata pesante e, dopo la breve cena, ci ritiriamo tutti nelle cuccette.
Tutti?...
Ho preso sonno da poco quando un oggetto freddo, metallico, mi carezza la guancia.
Un incubo?... Eppure non ho quasi toccato il cibo.
La voce di un uomo. Alta, categorica.
Se stai calmo, non ti succede nulla.
Apro le palpebre a fatica, le stropiccio. Non voglio credere ai miei occhi. Incombe su di me una sagoma con un passamontagna nero.
Ti ripeto. Se stai calmo, non ti succede nulla.
Non posso avere dubbi, è la voce di un uomo. Il suo italiano è contaminato da suoni gutturali e aspirati.
Mi tiro su, torno a massaggiare le palpebre.
Andiamo di là. Non fare scherzi, sarebbe peggio per te.
Nel salone, seduti sui divani, ci sono i miei ospiti. Legati ai polsi e alle caviglie.
Non cambiamo, siamo quelli che eravamo.
Al liceo Christine Gerra era la compagna del terzo banco. Fila di sinistra, dal lato dei finestroni.
Quando girandomi la osservavo, i raggi del sole che filtravano dai vetri immancabilmente incrinati ne illuminavano gli occhi.
Brillano anche ora. Non per la luce, ma per la rabbia. Non accetta d’essere ostaggio non si sa di chi e perché.
Frenetica, ansiosa, agitata, impulsiva. Nei pensieri e nei gesti. In ricerca perenne di un ruolo. Di donna vera o di primadonna delle compagnie di giro? In guerra contro tutti, anche contro se stessa. Eppure si dice pacifista e antimilitarista.
Il teatro è il suo modo d’essere e di non essere, il luogo delle sue esibizioni esistenziali. Tutte le sere, quando cala il sipario, si spengono le luci e il pubblico va via, Christine non vorrebbe spogliarsi degli abiti di scena per rientrare nei suoi. È il momento più critico delle sue giornate.
Una sera, a sua insaputa, sono andato a un suo spettacolo. Fra lei e gli spettatori c’era qualcosa di indecifrabile, quasi il pubblico non si fidasse di lei, e lei da parte sua lo detestasse. Eppure ascoltava e applaudiva.
Sembrava ci fosse una latente ostilità anche fra lei e il personaggio che interpretava. Come se il personaggio la rifiutasse come interprete, e lei lo ripudiasse nel momento stesso in cui gli prestava anima e corpo. Eppure si dimostrava un’attrice molto professionale.
Scandiva le parole con voce calda, roca, suadente. Aveva gesti naturali, cioè sapientemente studiati. I silenzi e le pause erano densi di pensieri forti. Prendeva fiato e usava il diaframma con tecnica di maestra d’accademia. E ricche di sfumature erano le parole dette e quelle lasciate intuire. Limpido il suono. Perfetta la dizione.
Ma quella sera m’era sembrata un’ottima comprimaria, non una Signora della scena. Attento alle reazioni degli spettatori mi chiedevo cosa mi avesse suggerito quella sensazione.
Nel salone del Money. Ora ritorno a quella domanda.
Le sue qualità, di non di poco conto, non bastano forse a essere grandi?
Non so darmi una risposta. Resta il fatto che è una prima donna per un teatro di platee compiacenti. E affollate di Madame Bovary della provincia bene. Coi mariti ingessati in giacche blu a righini bianchi. Cravatte argentate dai disegni geometrici. Rombi, quadri, cerchi, sfere. Spettatori satolli, dalla digestione difficoltosa e dai reflussi intestinali. Pronti a sganasciarsi dalle risate alle battute più volgari e a far scorrere fiumi di lacrime a quelle più patetiche.
Ci siamo rivisti dopo tanti anni. E ora, sdraiata su un divano, mi studia.
Mi chiedo perché abbia scelto il mestiere di attrice. Con la sua intelligenza e il suo carattere forte sarebbe stata una donna di successo in tanti altri campi. In politica, per esempio. Poteva essere un ministro stimato e ammirato.
Ci sono domande che non è elegante fare. E se gliele ponessi si limiterebbe a citare, penso, un filosofo che a scuola non ci hanno fatto studiare, ma che lei amava da morire. Parlo di Nietzsche, detto il pazzo, forse per il pensiero troppo lucido. La sua follia dà ragione a chi sostiene che ciò che non è diretto è insignificante. Lui era contro tutto e tutti, persino contro Socrate e Platone. Né ha risparmiato il cristianesimo. Eppure ammirava Cristo, il suo Santo Anarchico.
Con Christine non c’eravamo parlati dalla fine del liceo. È la stessa ragazza di quando, dopo la maturità, i peggiori esami della mia giovinezza, mi sentivo un reduce di una guerra nemmeno combattuta. E non immaginavo quali strade avrei preso per abbandonare quella mediocrità nella quale la scuola mi aveva confinato.
Mi sente perplesso, prova a spiegarsi.
Nei nostri transfert, se noi attori ci addossassimo i sentimenti, le passioni, gli struggimenti che rappresentiamo, finiremmo per esserne contagiati.
Ora tace, ma continua a fissarmi. Forse si chiede come abbia potuto fare tanti soldi da possedere una barca di lusso e offrire una crociera nel Mediterraneo, a lei e altri due nostri compagni di liceo. Vito Impellizzari, popolare commissario di pubblica sicurezza, e Guido Businco, medico e proprietario di una farmacia nel centro storico di Roma.
Il Money non è roba da poco, è una balena da emiro o da petroliere russo. Quarantacinque metri con un equipaggio di tutto rispetto. Il comandante, un motorista, due marinai, un cameriere e la cuoca Lucrezia.
Eppure al liceo, magari ancora si dirà, era l’ultimo degli ultimi. E quando i professori lo interrogavano non indovinava mai una data né sapeva districarsi fra i pensieri dei filosofi classici. Per non parlare degli errori di grammatica e sintassi nei temi di italiano e nelle traduzioni di latino.
Negli occhi azzurri, più espressivi di allora, nei sorrisi allusivi e nella mimica, un florilegio di interrogativi, affiorano pensieri ironici e maliziosi.
Non ci avrà invitati come testimoni di quello che era allora ed è ora? O non vorrà mica riscattare il passato meschino con il presente sontuoso? O magari illudersi che il passato sia il presente? E che il tempo scorra per gli altri e non per lui? I ricchi e i potenti non vedono i colori del tramonto. E lui, da ragazzo, non aveva né qualità né soldi, tanto che non prendeva l’autobus per comprarsi le sigarette. Nazionali zigrinate, neppure da esportazione. Adesso, invece...
Intuendo questi pensieri dallo sguardo di Christine mi viene in mente quello che mi disse uno psicoterapeuta.
La psicoanalisi, signor Bonfante, non è la terapia dei ricchi come si crede comunemente. Certo nel mio studio viene chi può pagare la parcella. A volte per anni. Ma ricchi e potenti sono restii a raccontare a un estraneo pensieri e fatti che non confessano neanche a se stessi. Questi predatori scelgono altre vie per uscire dai loro disturbi. Che so, regalarsi l’ennesima amante giovanissima, o l’ennesima villa, o l’ennesima crociera su yacht con i rubinetti d’oro nei cessi. Si concedono quelle fughe dall’Io proprie dei vip. In luoghi che le signore borghesi ammirano sulle riviste dai dentisti o dai parrucchieri.
Ascoltando quel rovistacervelli mi vedevo nello specchio. Perché anch’io, devo ammetterlo, ricorro a questi rimedi alternativi.
Questi ricordi mi rimandano ad altri ricordi, non so per quale associazione di idee. Penso al mio primo datore di lavoro. A quella sera in cui, dopo una giornata massacrante, non so quanti pacchi avevo recapitato ai clienti, mi fece consegnare la lettera di licenziamento dalla sua segretaria. Quella strappona, culo basso e tette barocche, non era mai stanca. Doveva fare di tutto, specie i servizi più bassi, per mantenere un figlio disabile e un marito sfaticato, disoccupato per vocazione.
Vedrà, Leo. Si chiude una porta, si apre un portone...
A quelle parole mi veniva da piangere. E non per me. Ero stato pigro a scuola, l’avevo visitata più che frequentata, ma avevo energie da vendere. Un lavoro l’avrei trovato, prima o poi. Mi veniva da piangere per quella poveraccia. Doveva darla a quel vecchio bavoso perché non aveva alternative.
Quando Vito Impellizzari è salito a bordo era eccitato, faceva su e giù per il salone dai cui finestroni entrano tutti gli azzurri del cielo e del mare. Lo seguivo con la coda dell’occhio. E lui pure mi studiava. E lo faceva da commissario. Con aria sospetta e finta bonomia.
Conserva ancora lo sguardo di quando, al primo anno di liceo, era il mio compagno di banco. Anche allora mi guardava e sorrideva, ma pensava ad altro. In lui i pensieri più lontani avevano sempre la meglio su quelli più immediati.
Ora la memoria vira verso l’istituto Giuseppe Garibaldi.
In quella scuola ho detestato l’Eroe dei due Mondi, che prima adoravo. Quando la professoressa di storia e filosofia, un’odiosa mummia parlante, ne raccontava la vita era più potente di un barbiturico. Eppure, esibizionista già allora, avrei voluto vestire come lui. Papalina. Poncio. Stivali. Camicia rossa. Fazzoletto annodato al collo. Capelli lunghi. E una zazzera che nascondeva le orecchie, una volta a sventola e poi mozzate in Sudamerica. Lì un tribunale lo aveva accusato di abigeato e stupro. Dicerie messe in giro dagli zuavi clericali, che non hanno mai amato quel confratello massone, e smentite dalle foto in età avanzata quando il nostro Che Guevara non aveva più l’immagine di un valoroso conducator, ma quella di un nonno incimurrito e imbottito di antipiretici.
Sulla scaletta del Money Vito si trascinava il trolley e aveva sotto il braccio una cartella di cuoio. Anche al liceo ne aveva sempre una con sé. Pensavo contenesse chissà quali carte segrete. Dentro, invece, c’era un diario zeppo di notizie banali. L’ora in cui si era svegliato, in cui aveva fatto colazione e la doccia, in cui si era vestito per andare a scuola. Una nota riguardava me. Leo Bonfante non me la racconta giusta. Tutto qui. Eppure, a una lettura attenta, quella frase non era insignificante né lusinghiera. E anche ora mi sembra di rileggere quel giudizio nel suo sguardo di sbirro spesso citato dai giornali per le operazioni contro la malavita delle notti romane.
Quando eravamo al liceo non so quante volte gli avevo detto di distruggere quel diario e di non bruciare ore che nessuno gli avrebbe restituito per annotare notizie prive di qualsiasi interesse e che nessun editore avrebbe mai pubblicato.
Fidati della memoria, Vito. È fisiologicamente lungimirante, salva solo i dati che meritano d’essere ricordati.
Anni dopo la stessa raccomandazione l’ho ripetuta al ragioniere della mia ditta. Operato di appendicite degenerata in peritonite aveva mitizzato quell’episodio. In effetti durante il ricovero in ospedale moglie e figli lo avevano coccolato come mai prima. Anche se erano più interessati al suo stipendio a rischio che al suo addome infettato. Al capezzale del ragioniere s’erano affollati parenti, amici e conoscenti, che andavano a trovarlo, specie il sabato e la domenica, perché non sapevano che altro fare. E lui per la prima volta s’era sentito un protagonista e non un comprimario. Allora, per immortalare quel momento, aveva pensato di scrivere un libro-diario sulla peritonite e i suoi sintomi. Inappetenza. Nausea. Dolori addominali. Incapacità d’espellere gas. Vomito. Diarrea o stitichezza. Alla fine, superando lo scetticismo di medici e familiari, aveva stampato quel libercolo a sue spese. E mobilitato moglie e figli per distribuirlo ai negozianti del quartiere. Che nel riceverlo si grattavano o toccavano ferro. Ma quando incrociavano l’autore non gli lesinavano incoraggiamenti. Un fornitore della mia ditta, interessato più degli altri a tenersi buono il ragioniere, superò tutti quei ruffiani. Nelle aziende del resto chi maneggia i soldi conta più del proprietario, che pensa alla grande e vola alto. I contabili invece pensano agli spicci e volano rasoterra. E così quel leccapiedi, esortandolo a scrivere altri libri, si spinse oltre l’immaginabile.
La tua penna, ragioniere carissimo, scorre sul foglio come quella di Tolstoj e Dostoevskij. Erra con stile inconfondibile nelle pianure sconfinate della grande letteratura russa. E questo te lo dice uno che se ne intende!
Alla vista del salone del Money, Impellizzari trattiene la cartella fra le gambe e allarga le braccia come il pastore della Meraviglia nel presepe napoletano.
Ammappela che lusso!
Mentre mi stringe forte a sé, penso si stia chiedendo come sono riuscito a rovesciare la mia vita da così a così.
Sgherri si nasce, e Vito c’è nato. È istintivo per lui sospettare. E interrogare. E interrogarsi. E indagare.
Per non essere costretti a confrontare il nostro volto di un tempo con quello d’oggi, sgualcito dagli anni, non dovremmo mai vederci nel prossimo né riflessi nello specchio della memoria. Quando incontro dei compagni di scuola è deprimente dover confrontare il come ero e il come sono. Né importa se la vita non m...