
- 288 pagine
- Italian
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I casi di Theodore Boone - 4. L'attivista
Informazioni su questo libro
Theodore Boone ha smascherato ladri e assassini e, per avere solo tredici anni, ha già ottenuto grandi successi: senza dubbio diventerà un grande avvocato. Ma quando Strattenburg, la città in cui vive, rischia di essere sconvolta dalla costruzione di una nuova tangenziale, tutto cambia: i migliori amici di Theo perderanno le loro case, il fiume sarà inquinato, e così l'acqua potabile, i raccolti... Tutto questo per risparmiare ai cittadini un piccolo ingorgo di traffico. Theodore allora decide di aiutare i suoi amici nella sua avventura più pericolosa: ma rischiare è necessario per evitare la catastrofe ambientale. Senza mai arrendersi, perché la posta in gioco è troppo alta.
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Informazioni
Print ISBN
9788804633686eBook ISBN
9788852043734CAPITOLO 1
L’avversario era la squadra della Central, l’altra scuola della città, grande rivale della scuola media di Strattenburg. Ogni volta che c’era una partita, una gara o una competizione di qualsiasi tipo contro la Central, la tensione saliva, il pubblico era più numeroso e tutto sembrava assumere maggiore importanza. Succedeva persino per un dibattito. Un mese prima, in un’aula magna stipata fino all’inverosimile, la squadra di oratoria di terza media della Strattenburg aveva vinto in casa della Central, e quando i giudici avevano annunciato la loro decisione, il pubblico non l’aveva gradita. C’erano stati alcuni fischi, anche se prontamente zittiti. Sportività e comportamento corretto erano d’obbligo, qualunque fosse la competizione.
Il capitano della Strattenburg, Theodore Boone era anche l’ancora di salvezza, l’elemento decisivo, quello del tiro risolutivo quando la pressione cresceva. Theo e la sua squadra non avevano mai perso, anche se non potevano dirsi del tutto imbattuti. Due mesi prima, infatti, avevano pareggiato con la squadra femminile della Strattenburg dopo un acceso dibattito sul tema dell’innalzamento dell’età minima per guidare dai sedici ai diciotto anni.
Ma in quel momento Theo non pensava ad altri dibattiti. Era di scena, seduto a un tavolino pieghevole. Aveva Aaron da una parte e Joey dall’altra, e tutti e tre, elegantissimi in giacca e cravatta, fissavano la squadra della Central dalla parte opposta. Il professor Mount, insegnante, amico di Theo e tutor della squadra di oratoria, stava parlando al microfono e diceva: «E ora, per la dichiarazione conclusiva della Strattenburg, Theodore Boone».
Theo lanciò un’occhiata al pubblico. Suo padre era seduto in prima fila. Sua madre, indaffaratissima divorzista, era bloccata in tribunale e indispettita per non poter assistere alla prova del suo unico figlio. Alle spalle del signor Boone c’era una fila di ragazze che comprendeva April Finnemore, una tra gli amici più intimi di Theo, e Hallie Kershaw, la studentessa dell’ultimo anno più popolare in assoluto. Raggruppati dietro le ragazze, invece, c’erano alcuni professori: madame Monique, che veniva dal Camerun, insegnava spagnolo ed era la preferita di Theo, naturalmente dopo il professor Mount; la professoressa Garman, che insegnava geometria; la professoressa Everly, che insegnava inglese. Era presente persino la professoressa Gladwell, la preside. Un discreto pubblico, almeno per un dibattito. A una partita di basket o di football ci sarebbe stato il doppio degli spettatori, ma in quel caso le squadre avevano più di tre concorrenti per parte e, a essere sinceri, erano più emozionanti da seguire.
Theo cercò di non pensare a quelle cose, anche se era difficile. L’asma di cui soffriva gli impediva di praticare attività sportive, perciò quella era la sua opportunità di competere davanti a degli spettatori. Era felice che quasi tutti i suoi compagni di classe fossero terrorizzati all’idea di parlare in pubblico. Lui, al contrario, si divertiva. Justin poteva farsi rimbalzare un pallone da basket tra le gambe e segnare tiri da tre punti tutto il giorno, ma quando veniva interpellato in classe era timido come un bimbo di quattro anni. Brian era il nuotatore tredicenne più veloce di Strattenburg, e gli piaceva atteggiarsi a grande atleta sicuro di sé, ma se lo mettevi davanti a una platea si squagliava.
Theo no. Lui passava poco tempo sulle gradinate ad applaudire gli altri ragazzi. Preferiva bazzicare le aule del tribunale e osservare gli avvocati battersi di fronte a giudici e giurie. Un giorno sarebbe diventato un grande avvocato e, per quanto avesse solo tredici anni, aveva già imparato una lezione preziosa, e cioè che saper parlare in pubblico era importante per avere successo. Non era semplice. In effetti, mentre si alzava in piedi e si avviava con aria professionale verso il podio, sentiva lo stomaco fare capriole e il cuore battere forte. Aveva letto di grandi atleti e delle loro abitudini precedenti le gare, e di come molti fossero così tesi e nervosi da arrivare a vomitare. Lui non aveva la nausea, ma avvertiva il timore, l’inquietudine. Un avvocato, veterano dei processi, una volta gli aveva detto: «Se non sei agitato, figliolo, allora c’è qualcosa che non va».
Theo era agitato, certo, ma sapeva per esperienza che si trattava di una condizione passeggera. Una volta iniziata la partita, i crampi scomparivano. Toccò il microfono, guardò il moderatore e disse: «Grazie, professor Mount». Si girò verso la squadra della Central, si schiarì la voce, ricordò a se stesso ancora una volta di parlare adagio, scandendo bene le parole, e cominciò: «Il signor Bledsoe esprime alcune valide osservazioni, specie quando afferma che chi infrange la legge non dovrebbe poi trarne vantaggio. E che molti studenti americani, nati in questo paese così come in questo paese sono nati i loro genitori, non possono permettersi di frequentare un college. È impossibile ignorare queste argomentazioni».
Theo prese fiato, poi rivolse la propria attenzione agli spettatori, pur evitando un contatto visivo. Aveva imparato alcuni trucchi durante la sua carriera di oratore, e uno dei più importanti era ignorare i volti in mezzo al pubblico. Potevano distrarre. Potevano farti perdere il filo. Quando parlava, preferiva fissare gli oggetti – una sedia vuota sulla destra, un orologio in fondo all’aula, una finestra sulla sinistra – e spostava di continuo lo sguardo dall’uno all’altro. Questo dava la netta impressione che fosse in sintonia col pubblico, che lo guardasse con sincerità, che comunicasse con lui. Lo faceva sembrare a suo agio sul podio, cosa che ai giudici piaceva sempre.
Proseguì: «Tuttavia, i figli dei lavoratori senza documenti, quelli che una volta chiamavamo “immigrati illegali”, non hanno scelto dove nascere, e nemmeno possono scegliere dove vivere. Sono i loro genitori ad aver deciso di entrare, illegalmente, negli Stati Uniti, e lo hanno fatto in sostanza perché soffrivano la fame ed erano in cerca di un lavoro. Non è giusto punire i figli per le azioni dei genitori. Abbiamo studenti, in questa scuola, e alla Central, e in ogni scuola del nostro distretto, che non dovrebbero essere qui perché i loro genitori hanno infranto la legge. Ma li accettiamo, li accogliamo, e il nostro sistema dà loro un’istruzione. In molti casi sono nostri amici».
Il tema era rovente. In tutto lo Stato dilagava una chiassosa campagna per vietare ai figli dei lavoratori clandestini di iscriversi ai college pubblici. I sostenitori del divieto affermavano che il gran numero di “illegali” avrebbe: 1) sovraccaricato il sistema universitario; 2) sottratto un’opportunità agli studenti americani senza i requisiti necessari per il college; 3) bruciato milioni di dollari di tasse versati da autentici cittadini statunitensi. Fino a quel punto del dibattito la squadra della Central aveva svolto un ottimo lavoro nel sottolineare tali argomenti.
Theo continuò: «La legge esige che questo sistema scolastico, così come ogni altro sistema scolastico dello Stato, ammetta e dia un’istruzione a tutti gli studenti, indipendentemente dalla loro provenienza. Se lo Stato è obbligato a farsi carico dei primi dodici anni della loro istruzione, perché allora dovrebbe essergli consentito di chiudere loro le porte in faccia proprio quando quegli studenti sono pronti per entrare al college?».
Theo aveva alcuni appunti scribacchiati su un foglio che teneva davanti a sé sul podio, ma evitò di abbassare gli occhi per guardarlo. Ai giudici piacevano molto gli oratori che parlavano senza abbassare gli occhi, e lui sapeva che stava guadagnando punti. Tutti e tre i ragazzi della Central si erano basati sui loro promemoria.
Alzò un dito e disse: «Primo: è questione di giustizia. A tutti noi i genitori hanno detto che si aspettano che andiamo al college. Fa parte del sogno americano. Sembra ingiusto, quindi, approvare una legge che proibirà a molti dei nostri studenti, e a molti dei nostri amici, di esservi ammessi». Alzò un altro dito. «Secondo: la competizione è sempre una buona cosa. Il signor Bledsoe è dell’opinione che nelle iscrizioni ai college dovrebbe essere data la precedenza ai cittadini statunitensi perché i loro genitori sono arrivati qui prima, anche se alcuni di quegli studenti non sono qualificati quanto i figli dei lavoratori privi di documenti. Ma le nostre università non dovrebbero ammettere solo gli studenti migliori? In tutto lo Stato ci sono ogni anno circa trentamila posti disponibili per le matricole. Perché qualcuno dovrebbe godere di una considerazione particolare? Ammettere gli studenti migliori non rende i nostri college più forti? Certo che sì. Nessuno dovrebbe essere ammesso se non lo merita, proprio come nessuno dovrebbe essere respinto in base al luogo di nascita dei suoi genitori.»
Il professor Mount trattenne un sorriso a fatica. Theo stava andando alla grande e lo sapeva. Riusciva ad aggiungere appena un accenno di rabbia alla sua voce, niente di troppo teatrale, ma quel giusto tocco che trasmetteva il messaggio: “È talmente ovvio. Chi potrebbe mai contraddirmi?”. Mount aveva già assistito a una cosa del genere. Theo si preparava a sferrare il colpo di grazia.
E infatti, il ragazzo fece scattare il terzo dito verso l’alto, dicendo: «L’ultimo punto è questo…». Si fermò per una pausa, inspirò e percorse l’aula magna con lo sguardo, come se il suo ultimo punto, qualunque fosse, rispondesse a una verità così lampante che nessuno dei presenti avrebbe potuto avere dubbi. «Molte ricerche dimostrano che i laureati hanno maggiori opportunità, lavori migliori e compensi più alti rispetto ai non laureati. Una laurea rappresenta un vantaggio di partenza per una vita migliore. E compensi più alti significano entrate fiscali più alte, che portano ad avere scuole migliori e università migliori. Gli studenti a cui viene negata la possibilità di andare al college hanno maggiori probabilità di trasformarsi in disoccupati, e ciò comporta problemi di ogni tipo.»
Theo fece un’altra pausa e, senza fretta, controllò il primo bottone della sua giacca. Sapeva che era a posto, ma aveva bisogno di dare un’immagine di estrema fiducia in se stesso. «In conclusione, il progetto di chiudere le porte delle nostre università agli studenti i cui genitori sono giunti qui illegalmente è una pessima idea. Già respinta da più di venti Stati, peraltro. Ecco perché il dipartimento di giustizia di Washington ha annunciato che intenterà un’azione legale contro questo Stato, se verrà approvata una legge del genere. È miope, meschina e semplicemente ingiusta. Questo è il paese delle opportunità e, in momenti diversi, tutti i nostri avi sono arrivati qui come immigrati. Siamo un popolo di immigrati. Grazie.»
Mentre Theo tornava al suo posto, al bordo del palco comparve il professor Mount. Sorrise e disse: «Facciamo un bell’applauso a entrambe le squadre».
Il pubblico, che era stato diffidato dall’esprimere consenso o ostilità in qualsiasi modo, si produsse in un caloroso applauso.
«Facciamo una breve pausa» concluse Mount. Theo, Aaron e Joey si alzarono prontamente in piedi e attraversarono il palco per stringere la mano alla squadra della Central. Tutti e sei i ragazzi erano sollevati per essersi finalmente liberati dalla tensione della gara. Theo fece un cenno del capo a suo padre, che gli rispose mostrandogli i pollici alzati. Ottimo lavoro.
Qualche minuto dopo, i giudici annunciarono il vincitore.
CAPITOLO 2
Sparite giacca e cravatta, Theo si sentiva un po’ più a suo agio nei soliti pantaloni di tela kaki, anche se la camicia con il colletto bianco fermato da bottoncini era un tantino troppo elegante. Le lezioni erano finite. Era suonata l’ultima campanella, e quel mercoledì Theo si dirigeva verso l’auditorium per fare un po’ di attività extrascolastica. Durante il tragitto, parecchi studenti del terzo anno si congratularono con lui per la nuova, eccellente prestazione. Lui sorrise e accettò i complimenti con naturalezza, come se non avesse fatto niente di eccezionale, ma nel profondo era piuttosto compiaciuto di se stesso. Assaporava un’altra vittoria, ma senza arroganza. «Non montarti mai la testa» gli aveva detto una volta un veterano delle battaglie processuali. «Perché la prossima giuria può spezzarti il cuore.» Cioè, il prossimo dibattito avrebbe potuto essere un disastro.
Entrò nel vasto auditorium e andò in una sala prove più piccola, dove alcuni studenti tiravano fuori gli strumenti dalle custodie, preparandosi alla lezione. April Finnemore stava controllando il suo violino quando Theo si avvicinò. «Ottimo lavoro» gli disse sottovoce. Era raro che, a parte il suo interlocutore, qualcun altro sentisse April quando parlava. «Sei stato il migliore.»
«Grazie. E grazie per essere venuta. C’era una bella folla.»
«Sarai un grande avvocato, Theo.»
«L’intenzione sarebbe quella. Ma non so bene cosa c’entri la musica.»
«La musica c’entra sempre» dichiarò lei.
«Se lo dici tu.» Il ragazzo aprì una grossa custodia e ne tirò fuori con cautela un violoncello che apparteneva alla scuola. April e qualche altro allievo avevano strumenti propri. Altri, come Theo, li prendevano a noleggio, perché non erano certi che la faccenda della musica sarebbe durata. Theo frequentava il corso perché l’aveva convinto April e perché a sua madre piaceva l’idea che il figlio imparasse a suonare uno strumento.
Ma perché il violoncello? Non lo sapeva con esattezza, e nemmeno ricordava perché lo avesse scelto. In realtà, non era sicuro di aver preso lui la decisione. In un’orchestra d’archi ci sono molti violini e molte viole, un contrabbasso, almeno un violoncello e, di solito, un pianoforte. Le ragazze sembravano preferire i violini e le viole, e Drake Brown si era fregato il voluminoso contrabbasso. Non c’era nessuno che avesse chiesto il violoncello. Dal primo momento in cui lo ebbe tra le mani, però, Theo fu certo che non avrebbe mai imparato a suonarlo come si deve.
Aggiunta dell’ultimo minuto al programma di sei settimane di quell’anno, il corso era presentato come un ciclo di lezioni per principianti, dedicato ai ragazzi che non sapevano suonare uno strumento. Principianti veri, quindi, studenti con ben poca formazione musicale e a volte ancor meno talento. Theo rientrava perfettamente in quella categoria, e come lui la maggior parte dei ragazzi. Era una lezione tranquilla, un’ora alla settimana, concepita in sostanza per divertire e dare un minimo di istruzione.
Il divertimento lo forniva l’insegnante, il professor Sasstrunk, un arzillo vecchietto con lunghi capelli grigi, occhi castani stralunati, parecchi tic nervosi e la stessa giacca scozzese di un marrone sbiadito ogni settimana. Sosteneva di aver diretto molte orchestre, nel corso della sua lunga carriera, e da dieci anni insegnava musica allo Stratten College. Aveva un fantastico senso dell’umorismo e rideva dei ragazzi quando sbagliavano, il che succedeva in continuazione. Il suo lavoro – diceva – era iniziarli semplicemente alla musica, offrirgliene “un assaggio” e basta. Non sognava di trasformarli in veri musicisti. «Qui impariamo soltanto i primi elementi, ragazzi, facciamo un po’ di esercizio e vediamo dove ci porta» diceva tutte le settimane. Dopo quattro incontri, i ragazzi non solo gradivano la lezione, ma cominciavano davvero a prendere la musica più seriamente.
Le cose, però, stavano per cambiare.
Il professor Sasstrunk era in ritardo di dieci minuti e, quando entrò nella sala prove, aveva un’aria stanca e preoccupata. Il suo sorriso abituale era scomparso. Guardò i ragazzi come se non sapesse bene cosa dire, poi esordì: «Sono uscito adesso dall’ufficio della preside. A quanto pare, sono stato licenziato».
Gli allievi prese...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- I casi di Theodore Boone - L’attivista
- CAPITOLO 1
- CAPITOLO 2
- CAPITOLO 3
- CAPITOLO 4
- CAPITOLO 5
- CAPITOLO 6
- CAPITOLO 7
- CAPITOLO 8
- CAPITOLO 9
- CAPITOLO 10
- CAPITOLO 11
- CAPITOLO 12
- CAPITOLO 13
- CAPITOLO 14
- CAPITOLO 15
- CAPITOLO 16
- CAPITOLO 17
- CAPITOLO 18
- CAPITOLO 19
- CAPITOLO 20
- CAPITOLO 21
- CAPITOLO 22
- CAPITOLO 23
- CAPITOLO 24
- CAPITOLO 25
- CAPITOLO 26
- CAPITOLO 27
- CAPITOLO 28
- CAPITOLO 29
- Copyright