«Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!», questo celebre verso della Divina Commedia contenuto nel sesto canto del «Purgatorio» è ispirato dall’incontro di Dante Alighieri con Sordello da Goito, famoso poeta del XIII secolo. È il lamento sulle condizioni di un’Italia divisa, lacerata al suo interno da accese rivalità e particolarismi molto locali. Un’espressione di lucida attualità che riassumeva la condizione di un’Italia «serva», debole nel consesso geopolitico del tempo, per l’assenza di una tensione morale unitaria.
Non si esagera nell’affermare che dopo sette secoli c’è ancora molta verità nel verso di Dante. L’Italia è una Repubblica senza patria. Molti secoli dopo, Giuseppe Prezzolini scriverà: «patria di tutti, non poté nel passato l’Italia, e non può oggi, esser la patria degli Italiani».1
L’affermazione, apparentemente perentoria, è purtroppo l’amara constatazione che nasce dalla realtà di vita quotidiana e da una storia dolente, segnata da quasi un secolo di lacerazioni che hanno impedito di realizzare, secondo una formula alquanto abusata, un «Paese normale». Il degrado delle nostre città, i ritardi strutturali, la volgarità della politica, la corruzione, la criminalità organizzata, l’incuria del patrimonio artistico, il malessere sociale, le insufficienze della scuola, in generale la scarsa qualità della classe dirigente – non solo quella politica – traggono origine dall’essere l’Italia «una Repubblica senza patria», troppo spesso somma di particolarismi, individualità, caste, interessi opachi, faziosità. Un contesto che è frutto di una debolezza storica, che può essere puntualmente rinviato ai vizi d’origine del nostro recente passato.
Luigi Barzini e Leo Longanesi conclusero che l’Italia più che una nazione era una federazione di famiglie, anzi di clan, perché questa è l’unica vera istituzione che gli italiani riconoscono. Longanesi voleva che sul tricolore della bandiera nazionale venisse scritto come motto: «Tengo famiglia».
Trent’anni fa, lo storico Rosario Romeo ammoniva che «un Paese idealmente separato dal proprio passato è un Paese in crisi di identità e dunque potenzialmente disponibile, senza valori da cui trarre ispirazione e senza sentimento di fiducia…».
Sul territorio della Penisola esiste certamente uno Stato in termini amministrativi e giuridici, capace di fare leggi – spesso fin troppe –, di imporre e riscuotere tasse, di condizionare la vita dei cittadini, di arrestarli e giudicarli. Occorre domandarsi, però, se esista del tutto una comunità, una nazione intesa come patria.
L’Italia è una straordinaria entità culturale, geografica, paesaggistica, linguistica, dove uno straordinario popolo è stato capace di produrre una delle più importanti civiltà della storia umana. La denuncia delle insufficienze del Paese non deve impedire di riconoscere i traguardi, anche in termini di benessere collettivo, conseguiti dal popolo italiano.
«Parto dall’estremo Nord, con l’intento di scendere fino a Pantelleria, regione per regione, provincia per provincia. Sono curioso dell’Italia, degli italiani e di me stesso; che cosa ne uscirà, non saprei anticiparlo». Nel 1953, in un Paese ancora segnato dalle macerie del dopoguerra, con queste parole Guido Piovene iniziò il suo Viaggio in Italia, un vero percorso, fatto di appunti e osservazioni, dalle Alpi alla Sicilia, destinato a concludersi nel 1957. Al termine di questo lungo itinerario Piovene tratteggiava una Penisola di luci e ombre, concludendo che «il nostro è un popolo ricco delle virtù più umili e terrestri, povero delle virtù lucide».2
L’anomalia italiana deriva dall’essere stati incapaci di costruire uno Stato che poggiasse su un forte contenuto nazionale come è avvenuto per gli inglesi, i francesi, gli americani e anche per i tedeschi. Uno Stato fondato su un’identità condivisa, su un idem sentire comune, su una cornice capace di andare oltre le legittime diversità politiche. Uno Stato in cui i cittadini pagano le tasse perché convinti di concorrere alle necessarie spese comuni e non perché coartati da meccanismi infernali nella consapevolezza che una parte consistente finirà in sprechi e ruberie. Per dirla con estrema sintesi, uno Stato che non sia tale solo per prefetture, questure, caserme dei carabinieri, ma lo sia anche come entità immateriale, come sentimento di patria.
L’Enciclopedia Treccani definisce il sostantivo patria come «il territorio abitato da un popolo e al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni». L’origine della parola è latina e rimanda a patrius, «paterno», dunque, con un richiamo esteso alla famiglia, alla tribù, agli antenati, accezione che si arricchisce perché per i latini la parola patria sottintende anche terra. Cicerone già la definisce come un insieme di istituzioni, tradizioni, sentimenti, ideali. L’Encyclopédie francese indica la patria come pays des pères, la terra dei padri, mentre per i tedeschi essa è Vaterland o Heimat, dove quest’ultima parola tedesca è correttamente traducibile come luogo dell’infanzia e riguarda la lingua degli affetti.
L’Italia storicamente è giunta tardi, rispetto ad altri grandi Stati europei, all’unità politica, ma come la Germania e la Francia ha sempre avuto un’unità linguistica e culturale, un comune retaggio sedimentato nel tempo.
Agli inizi del Novecento tra lo storico Gioacchino Volpe e il filosofo Benedetto Croce si sviluppò un serrato confronto sull’origine della nazione italiana. L’identità italiana, affermava Volpe, non coincide con l’atto giuridico di nascita dello Stato unitario ma lo precede di alcuni secoli, configurandosi come spirito italiano prepolitico e linguistico che affonda le radici nella romanità e nel Medioevo. Volpe espone la sua tesi in due opere, dove descrive questo percorso storico, Origine e primo svolgimento dei comuni nell’Italia longobarda e L’Italia in cammino, all’interno delle quali è chiara la configurazione dell’unità nazionale italiana soprattutto come dimensione linguistica e culturale, quindi spirituale, prima ancora che politica e statuale.
Gli antefatti di una coscienza nazionale italiana li ritroviamo nelle pagine di Livio, Cicerone, Plinio, Virgilio, e si manifestano anche nel Medioevo nonostante l’universalismo culturale di questa epoca. I numismatici conoscono bene un’antica moneta, datata fra l’88 e il 90 a.C., fatta coniare dai Soci Italici e che reca la scritta «Italia», probabilmente la prima traccia di una connotazione geopolitica della Penisola. In quegli anni fu combattuta la cosiddetta «guerra sociale» (dove il termine sociale non è inteso nell’accezione moderna ma in quella latina che indicava nei socii gli alleati italici dei romani), denominata anche guerra italica, una rivolta dei municipi d’Italia, alleati di Roma, ma schierati contro la capitale nella rivendicazione di un pieno e paritario riconoscimento della cittadinanza romana per i propri cittadini, in virtù del contributo militare ed economico dato all’espansionismo della città caput mundi. L’imperatore Augusto delimiterà i confini italici all’arco alpino e suddividerà la Penisola in regioni.
In questa prospettiva – secondo Giovanni Gentile – il Risorgimento non crea l’Italia ma la fa ri-sorgere, riportando alla luce il fiume carsico dell’italianità che scorreva da secoli. Se, però, è accettabile ritenere – come scrisse Gentile – che Tommaso d’Aquino, Dante, Petrarca, Boccaccio, Galileo, Manzoni siano «tutti padri nostri comuni, o nostri fratelli maggiori», è altrettanto vero che questa visione è rimasta relegata in gruppi intellettuali marginali lontani dalla politica e dalle élite decisionali. È più che mai rimasto inattuato l’auspicio del giovane Piero Gobetti che dalle colonne della sua «Rivoluzione Liberale» invoca il «venir formando una classe politica che abbia chiara coscienza delle sue tradizioni storiche e delle esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato».
Benedetto Croce scrive: «L’amore di patria è un concetto morale. Nel segno della patria i nostri più nobili ideali e i nostri più austeri doveri prendono una forma particolare e a noi più vicina, una forma che rappresenta l’umanità tutta e attraverso alla quale si lavora effettualmente per l’umanità tutta».
In maniera più definita, lo storico Federico Chabod, che fu maestro di Renzo De Felice, puntualizza la categoria culturale e filosofica della nazione: «Dire senso di nazionalità, significa dire senso di individualità storica. Si giunge al principio di nazione in quanto si giunge ad affermare, contro tendenze generalizzatrici e universalizzanti, il principio del particolare, del singolo».3 Chabod ricostruisce il percorso con cui – anche in Italia – si è giunti a definire questo senso d’individualità storica, da Marsilio da Padova a Dante, a Machiavelli, fino al Romanticismo, che afferma la consapevolezza di un’Italia con la sua individualità storica, fatta di tratti non solo etnici e linguistici ma soprattutto di tradizione e di pensiero, «in quanto l’Italia ha un’anima sua, ben diversa dall’anima francese, tedesca, spagnola, ecc., e perciò ha diritto di poter esprimere liberamente “anche” sul terreno politico, oltre che su quello letterario, artistico, musicale, ecc., questa sua anima, questo suo spirito, proprio di lei e di nessun altro popolo».4
L’Italia, come altre nazioni, ha tratti specifici e peculiari, non solo una sua geografia, un suo clima, una sua dislocazione nel Mediterraneo, ma una fisionomia comportamentale del suo popolo, un tratto umano che precede il momento dell’organizzazione dello Stato e rende la nazione un «fatto spirituale».
Nel passaggio dal Medioevo alla modernità, molti popoli europei si svincolano dalla respublica christiana e dall’idea di impero universale per pervenire all’idea nazionale, meglio di tutti la Francia, gli altri attraverso la mediazione della monarchia, come Inghilterra e Spagna. L’Italia si attarda.
Mazzini lega alla patria la nozione di libertà, intesa non solo come indipendenza dallo straniero ma come condizione di vita dei suoi cittadini. «L’Indipendenza è l’emancipazione dalla tirannide straniera e la Libertà è l’emancipazione dalla tirannide domestica; or, finché domestica o straniera voi avete tirannide, come potete aver patria? La patria è la casa dell’Uomo, non dello Schiavo» (Scritti editi e inediti, LXIV, pp. 182-183).
Nel 1861 l’Italia nasce debole, si realizza un sogno delle élite intellettuali e politiche perché finalmente la Penisola è quella poetica del Manzoni «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor», ma nei mesi in cui si consegue l’unità nazionale Massimo d’Azeglio, esponente di primo piano della classe dirigente piemontese, scrive in una lettera privata: «La fusione coi Napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso». Allo stesso viene attribuita la pubblica dichiarazione: «Si è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani».
In realtà, il Risorgimento era stato un fenomeno ristretto alle élite intellettuali e politiche, la maggioranza degli italiani era indifferente all’Italia, preoccupati solo di sopravvivere in un Paese estremamente povero. Il cancelliere von Metternich aveva non solo dichiarato che «l’Italia era un’espressione geografica», ma aveva anche scritto: «In Italia ci si detesta da provincia a provincia, da città a città, da famiglia a famiglia, da individuo a individuo».
Il popolo italiano non esisteva, alle guerre risorgimentali parteciparono alcuni intellettuali volenterosi e animati da sincero spirito patriottico ma che non superarono poche migliaia di persone. Il conte Camillo Benso di Cavour non si era mai dichiarato «patriota» e fautore dell’Italia unita, lo diventerà di fronte agli eventi, per evitare che altre dinastie italiane realizzassero il disegno nazionale e per le favorevoli circostanze che si verranno a determinare. Fra gli intellettuali risorgimentali, alcuni fra i più autorevoli – Gioberti, Rosmini, d’Azeglio – pensano che l’Italia unita debba limitarsi al Piemonte, al Lombardo-Veneto e all’Emilia, lasciando fuori il Centro pontificio e il Regno delle Due Sicilie.
All’indomani dell’Unità si scatena in alcune aree del Sud un’autentica guerra civile, a lungo derubricata dalla storiografia ufficiale sotto la voce Brigantaggio, e che solo di recente sta diventando oggetto di una diversa valutazione storica. Che si trattò di autentica guerra civile lo testimonia la legge Pica, dell’agosto 1863, con la quale governo e Parlamento italiani imposero lo stato d’assedio in una vasta parte del suo territorio, sancendo la sospensione delle garanzie costituzionali, trasferendo il potere giudiziario ai tribunali militari che ordinarono fucilazioni di massa, anche di donne e bambini.
Nel 1861, a unificazione fatta, più del 70 per cento della popolazione italiana risultava essere analfabeta, con punte dell’80 per cento al Sud e del 90 per cento in Sardegna. Dopo un ventennio, nel 1881, si era scesi di appena un 3 per cento, al 67 per cento. Nel 1887 veniva varata la legge Coppino sull’istruzione elementare, ma la situazione migliorava in maniera modesta, perché nel 1891 regioni come la Sicilia e la Puglia avevano ancora il 70 per cento della popolazione analfabeta.
L’ignoranza costituiva un limite enorme allo sviluppo di un sentimento di cittadinanza: chi non sapeva leggere e scrivere, la stragrande maggioranza, era un escluso, estraneo alla lingua comune e alla cultura nazionale.
Negli anni Novanta fu modificata la legge elettorale passando dal diritto di voto, fondato sulla discriminante per censo, a quello basato sull’analfabetismo. Tradotto: votava solo chi sapeva leggere e scrivere. Pur ampliandosi la base elettorale, in cifre significò che su una popolazione nazionale di trenta milioni avevano diritto al voto solo tre milioni di italiani. La storica Simona Colarizi coglie bene il legame negativo tra alfabetizzazione e sviluppo: «La patria è parola ancora vuota di significato per milioni e milioni di sudditi che rimangono impermeabili alla diffusione di una cultura nazionale, anche per ostacoli oggettivi, l’analfabetismo, appunto, e la lingua».5
L’Italia, per chi viveva nelle zone rurali del Sud e non aveva mai posseduto neanche un paio di scarpe, era un’entità astratta. Tra il 1880 e il 1920, circa nove milioni di italiani emigrarono all’estero, soprattutto verso le Americhe, prima verso Brasile e Argentina, poi verso gli Stati Uniti; provenivano soprattutto dalla Campania, dalla Calabria, dalla Sicilia e dalla Puglia, gente disperata, con famiglie in media di dieci figli, che lasciavano senza rimpianti e con poche nostalgie il proprio Paese verso l’incognito, perché qualunque condizione sarebbe stata preferibile a quella delle campagne italiane. È un autentico esodo, quasi un terzo della popolazione dell’epoca, la metà di quella meridionale, che per dimensioni non ha riscontro in altre nazioni europee. Ancora oggi, nelle zone interne della Campania, della Calabria, del Molise, sono visibili paesi rurali abbandonati e rimasti disabitati. Le cifre complessive, valutate dagli studiosi, indicano oltre venti milioni di cittadini italiani emigrati.
L’Italia a cavallo fra Ottocento e Novecento, però, non è solo miseria, è anche una nazione che conquista la modernità, attraverso una industrializzazione a tappe forzate che ne fa una delle economie più importanti dell’Europa. Uno sviluppo destinato a incidere profondamente nella struttura sociale. A partire dal 1896, dopo un periodo postunitario stagnante, si comincia a colmare quel ritardo industriale rispetto a Gran Bretagna, Germania e Francia. Nel 1899 viene fondata la Fiat, impresa simbolo del capitalismo italiano. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento sono nate la Pirelli (1872), la Società Edison (1884), la Breda (1885), la Montecatini (1888), l’Ilva (1905).
Le condizioni di partenza sono di enorme ritardo rispetto al resto d’Europa: nel 1861 in Italia esistevano 2521 km di ferrovie, in Francia 4000 km, in Germania 11 mila km, nel Regno Unito 16.666 km. Nel 1871 in Inghilterra solo il 35 per cento della popolazione lavorava in agricoltura e sarebbe scesa al 25 per cento nel 1910. In Italia nello stesso periodo gli addetti all’agricoltura sono circa il 70 per cento della forza lavoro, quelli all’industria il 21 per cento. Nel 1880, la Gran Bretagna detiene il 30 per cento della produzione industriale mondiale, gli Stati Uniti il 23 per cento, la Germania il 18 per cento, la Francia il 15 per cento, l’Italia appena il 2,4 per cento. Ai primi del Novecento la Gran Bretagna cederà il primato della produzione industriale alla Germania. Nei primi anni di unità il reddito pro capite degli italiani – fatto 100 – ammonta a 220, contro 775 degli inglesi, 650 dei francesi e 550 dei tedeschi.
Il recupero è per certi versi eccezionale, inaspettato. Tuttavia, in quel periodo, il capitalismo italiano assume quei vizi d’origine che ancora oggi pesano nella sua struttura. È a forte vocazione familiare, rivolto al profitto, dove l’elemento familista prevale sull’interesse generale, diverso da quello francese, inglese o tedesco, permeato di una vena nazionale.
Le grandi banche che nascono nello stesso periodo sono decisamente condizionate dal capitale straniero: nel 1894 viene fondata la Banca Commerciale Italiana (Comit), con capitali tedeschi, austriaci e svizzeri, affidata alla direzione di Otto Joel e Federico Weil. Poco dopo, nel 1895, nasce il Credito Italiano, con capitali tedeschi e svizzeri.
Il balzo in avanti dell’economia italiana influenza anche la morfologia del Paese, inizia l’inurbamento con lo sviluppo delle città mentre sul...