I giorni dell'estate
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I giorni dell'estate

  1. 210 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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I giorni dell'estate

Informazioni su questo libro

L'estate volge al termine in California. Jane Marsh, accoccolata davanti all'oceano, ripensa con nostalgia ad altri giorni di fine estate in un remoto villaggio scozzese tra le colline. Vorrebbe tanto tornare a Elvie e, soprattutto, vorrebbe ritrovare l'irrequieto e affascinante Sinclair. Ma a Elvie tutto è cambiato. Jane è costretta a fare i conti con la realtà, divisa tra le sue fantasie d'amore e l'amore vero.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804391180
eBook ISBN
9788852042034

1

Per tutta l’estate il clima era stato pesante, il cielo coperto, il sole velato dalle nebbie marine che dal Pacifico si rovesciavano senza posa sulla costa. Ma poi, in settembre, come spesso avviene in California, le nebbie si erano ritirate verso l’oceano, indugiando al limite dell’orizzonte come una lunga ferita livida e sottile.
Nell’interno, oltre la fascia costiera, le grandi distese di terreno coltivato, cariche di messi, di frutti maturi, grano, carciofi e grosse zucche arancioni si cuocevano al sole. Piccoli agglomerati di case schiacciati dalla calura sonnecchiavano, grigi e polverosi come tarme. La pianura, ricca e fertile, si stendeva verso est fino a toccare le colline della Sierra Nevada, ed era tagliata dalla grande autostrada di Camino Real, che univa, da nord a sud, San Francisco a Los Angeles, brulicante dello scintillio del metallo bollente di milioni di automobili.
Durante i mesi estivi, la spiaggia era rimasta quasi deserta, poiché Reef Point è l’ultima località della baia, e solo di rado meta di gitanti occasionali. Innanzitutto la strada non era asfaltata, era malsicura e assai poco invitante; inoltre La Carmella, una piccola località turistica con graziose strade alberate, un esclusivo country club e impeccabili motel, si trovava appena al di là della punta e, chiunque avesse un po’ di buon senso e qualche dollaro da spendere, si recava laggiù. Soltanto gli avventurosi, quindi, o quelli senza un soldo in tasca, oppure i fanatici del surf, si arrischiavano a percorrere l’ultimo miglio, scivolando e rotolando lungo la carreggiata sporca e maltenuta che portava alla nostra grande baia deserta, spazzata dalle tempeste.
Ma ora, con il bel tempo caldo e gli enormi cavalloni ruggenti che si rovesciavano sulla spiaggia, il posto si riempiva di gente. Macchine di ogni tipo scendevano perigliosamente giù per la collina e andavano a parcheggiare all’ombra dei cedri, scaricando gitanti pronti per il picnic, campeggiatori, patiti del surf e intere famiglie di hippy stufe di stare a San Francisco e dirette al Sud, verso il Nuovo Messico in cerca di sole, come altrettante specie di uccelli migratori. E i weekend portavano gli studenti dell’università di Santa Barbara, nelle loro vecchissime Volkswagen dipinte a fiori, piene di ragazze e cartoni di lattine di birra e sul tetto le coloratissime tavole da surf di Malibu. Si sistemavano a piccoli gruppi lungo tutta la spiaggia, saturando l’aria di voci, di risate e del profumo di olio solare.
E così, dopo settimane e mesi di assoluta tranquillità, improvvisamente ci trovavamo circondati da gente e da attività di ogni specie. Mio padre era completamente assorbito dal suo lavoro, nel tentativo di completare una sceneggiatura entro i termini fissati, ed era in uno stato d’animo impossibile. Senza che lui neppure si avvedesse di me, uscii per andare in spiaggia, portandomi la colazione (hamburger e Coca-Cola), un libro da leggere, un grande asciugamano per mettermi comoda e Rusty.
Rusty era un cane. Il mio cane. Un affarino marrone e lanoso privo di pedigree, ma dotato di grande intelligenza. Quando arrivammo qui per la prima volta, la primavera scorsa, non avevamo un cane e Rusty, dopo averci studiati a lungo, decise di mutare questo stato di cose. Così cominciò a starci attorno. Io lo cacciavo via, papà gli tirava dietro vecchi stivali, ma lui continuava a tornare, senza lasciarsi scoraggiare, per niente offeso, e si metteva a sedere a un paio di metri dal portico posteriore della casa, scodinzolando felice. Una mattina in cui faceva molto caldo, mi lasciai impietosire e gli diedi una ciotola d’acqua fresca da bere. Lui se la lappò fino all’ultima goccia poi tornò a sedersi, sorrise e riprese a scodinzolare. Il giorno seguente gli diedi un osso di prosciutto; lui lo prese educatamente fra i denti, lo ripulì, lo andò a seppellire e dopo cinque minuti era di ritorno. Sorridente. La coda sbatteva rumorosamente.
Mio padre uscì di casa, gli lanciò uno stivale, ma senza molta convinzione. Era semplicemente una dimostrazione formale di forza. Rusty lo sapeva e venne a sedersi un po’ più vicino.
«A chi pensi appartenga?» domandai a mio padre.
«Dio solo lo sa.»
«Lui sembra convinto di appartenere a noi.»
«Ti sbagli» rispose papà. «Lui è convinto che siamo noi ad appartenergli.»
«Non sembra aggressivo e non ha neppure un cattivo odore.»
Papà alzò gli occhi dalla rivista che stava cercando di leggere. «Stai tentando di dirmi che vorresti tenere questo dannato coso?»
«È soltanto che non riesco a capire… non riesco a capire come potremmo liberarci di lui.»
«A meno di sparargli.»
«Oh, no, non lo fare.»
«Sarà pieno di pulci. Ci porterà le pulci in casa.»
«Gli comprerò un collare antipulci.» Papà mi guardò al di sopra degli occhiali. Vidi che stava per mettersi a ridere. Dissi: «Ti prego. Perché no? Mi terrà compagnia quando tu sei via».
Papà disse: «Va bene», così mi infilai un paio di scarpe, feci un fischio al cane e con lui mi avviai su per la collina, fino a La Carmella, dove c’è un veterinario molto alla moda. Aspettai il mio turno in una stanzetta piena di barboncini viziati, gatti siamesi e relativi proprietari e, quando finalmente il veterinario esaminò Rusty, lo dichiarò perfettamente sano, gli fece un’iniezione e mi indicò dove avrei potuto acquistare il collare antipulci. Così pagai il veterinario, andai a comperare il collare e infine ritornammo a casa. Quando entrammo, papà stava ancora leggendo la sua rivista, il cane aspettò educatamente in un angolo che qualcuno gli desse il permesso di sedere e alla fine si accomodò sul vecchio tappeto di fronte al caminetto spento.
Papà domandò: «Come si chiama?», e io risposi: «Rusty», perché una volta avevo posseduto un portapigiama a forma di cane che avevo chiamato “Rusty”, e quello fu il primo nome che mi venne in mente.
Inserirlo in famiglia non fu un problema poiché sembrava ne avesse sempre fatto parte. Ovunque io andassi, Rusty mi seguiva. Adorava la spiaggia ed era spesso intento a dissotterrare splendidi tesori che portava a casa perché noi li ammirassimo. Vecchie bottiglie di plastica che galleggiavano sull’acqua, lunghe strisce ciondolanti di alghe. E qualche volta oggetti che ovviamente non aveva trovato sotto la sabbia. Una scarpa da ginnastica nuova fiammante, un asciugamano da bagno sgargiante e, un giorno, un pallone da spiaggia – in cui aveva affondato i denti – che mio padre dovette ricomprare dopo che io ero riuscita a rintracciare il suo piccolo proprietario in lacrime. A Rusty piaceva immensamente nuotare e insisteva sempre per accompagnarmi e, anche se io nuotavo molto più in fretta di lui e andavo più lontano, lui cercava di starmi alle calcagna. Si poteva pensare che alla fine si sarebbe scoraggiato, ma lui non mollava.
Quel giorno eravamo stati a nuotare, era una domenica. Papà, finito per tempo il suo lavoro, era partito per Los Angeles per consegnare personalmente la sceneggiatura e Rusty e io ci tenevamo compagnia, dentro e fuori dall’acqua per tutta la giornata, raccogliendo conchiglie, giocando con un vecchio bastone trovato sulla battigia. Ma ora l’aria si stava rinfrescando; mi ero rivestita e ci eravamo seduti fianco a fianco, con il sole all’orizzonte che ci accecava, a osservare gli ultimi surfisti. Erano in mare da tutta la giornata, ma pareva non stancarsi mai. In ginocchio sulle loro tavole, si facevano strada fra i cavalloni fino al mare aperto, nell’acqua verde. Lì stavano ad aspettare, pazienti, appollaiati contro la linea dell’orizzonte come tanti cormorani, in attesa che l’onda si gonfiasse, prendesse forma e cominciasse a rompersi. Sceglievano quella giusta e, quando l’acqua cominciava a incresparsi in un lungo orlo bianco di schiuma e si gonfiava tuonando, allora anche loro si muovevano, cavalcando l’ondata possente, meravigliosamente in equilibrio, pieni dell’arroganza fiduciosa della gioventù. Rimanevano sulla cresta dell’onda fino a quando questa si infrangeva sulla sabbia, per poi discendere dalla tavola con disinvoltura, raccoglierla e ritornare di nuovo in mare, perché c’è sempre un’onda più bella che ti aspetta, più grande, più imponente da cavalcare e, quando il sole sta scendendo rapidamente nel mare, non c’è un solo attimo da perdere.
Un ragazzo in particolare aveva catturato la mia attenzione. Era biondo, i capelli tagliati cortissimi, molto abbronzato, i pantaloncini aderenti dello stesso azzurro intenso della sua tavola da surf. Era bravissimo, con uno stile e un’eleganza nei gesti che facevano apparire tutti gli altri goffi dilettanti. Ma ora, mentre lo stavo a guardare, lui sembrò averne abbastanza per quel giorno; cavalcò un’ultima onda, arrivò a terra con grazia impeccabile, staccò i piedi dalla tavola e, gettato uno sguardo al tramonto rosa sul mare, si voltò, raccolse la sua tavola e cominciò a risalire la spiaggia.
Distolsi lo sguardo. Lui venne verso di me, poi deviò di qualche metro, accostandosi al mucchietto di abiti ben ripiegati che lo aspettavano. Lasciò cadere la tavola azzurra e prese in cima al mucchietto una maglietta scolorita da college. Guardai nuovamente verso di lui e, quando la sua testa spuntò dallo scollo della maglietta, i nostri occhi si incontrarono. Sostenni il suo sguardo con fermezza.
Lui parve divertito. «Ciao» disse.
«Salve.»
Lui si sistemò bene addosso la maglietta e poi disse: «Sigaretta?».
«Grazie.»
Si chinò a prendere un pacchetto di Lucky Strike, tirò fuori un accendino da una tasca e venne verso di me. Estrasse dal pacchetto una sigaretta, ne prese una per sé, poi le accese entrambe e, infine, si lasciò cadere al mio fianco, appoggiandosi sui gomiti. Aveva le gambe, il collo e anche i capelli leggermente impolverati di sabbia, begli occhi azzurri e quello sguardo limpido e pulito che ancora si vede nei campus delle università americane.
Disse: «Sei stata seduta qui tutto il pomeriggio. A parte quando eri in acqua».
«Lo so.»
«Perché non sei venuta a fare surf con noi?»
«Non ho una tavola da surf.»
«Dovresti comprartene una.»
«Non ho soldi.»
«Allora potresti fartene prestare una.»
«Non conosco nessuno che potrebbe prestarmi una tavola da surf.»
Il giovanotto corrugò la fronte.
«Sei inglese, vero?»
«Sì.»
«Qui in vacanza?»
«No. Vivo qui.»
«A Reef Point?»
«Sì.» Volsi la testa a indicare la fila di casette di legno scolorite appena visibile al di sopra delle dune sabbiose.
«Come mai vivi qui?»
«Abbiamo affittato una delle casette.»
«Tu e chi?»
«Io e mio padre.»
«Da quanto tempo abiti qui?»
«Da questa primavera.»
«Non passerai qui l’inverno?!»
Più che una domanda era un’affermazione. Nessuno passava l’inverno a Reef Point. Le casette non erano costruite per resistere alle bufere, la strada diventava impraticabile e le linee telefoniche talvolta si interrompevano. Spesso mancava persino la luce.
«Credo di sì. A meno che non si decida di spostarci altrove.» Il ragazzo corrugò di nuovo la fronte. «Siete degli hippy o qualcosa del genere?»
Consapevole del mio aspetto, molto gentilmente non mi risentii per quella domanda.
«No. Ma mio padre scrive sceneggiature per il cinema e cose per la tivù. Ma detesta talmente vivere a Los Angeles che… abbiamo affittato questa casetta.»
Parve incuriosito. «E tu, che cosa fai?»
Presi un pugno di sabbia e poi la lasciai scivolare lentamente fra le dita, granelli grossi e grigi.
«Non molto. Faccio la spesa, vuoto il secchio della spazzatura e tento di tenere la sabbia fuori di casa.»
«Questo è il tuo cane?»
«Sì.»
«Come si chiama?»
«Rusty.»
«Rusty. Ehi, Rusty, amico!» Rusty accolse le sue attenzioni con un cenno della testa che avrebbe fatto onore a un’altezza reale e poi riprese a fissare il mare.
Domandai: «Sei di Santa Barbara?».
«Già.» Ma il giovanotto pareva non avesse alcuna voglia di parlare di sé. «Da quanto tempo vivi negli Stati Uniti? Hai ancora un accento terribilmente britannico.»
Sorrisi cortesemente alla battuta che avevo già sentito tante, tante volte. «Da quando avevo quattordici anni. Sette anni.»
«In California?»
«Un po’ dappertutto. New York. Chicago. San Francisco.»
«Tuo padre è americano?»
«No. Semplicemente gli piace vivere qui. Ci è venuto perché aveva scritto un romanzo che era stato acquistato da una casa cinematografica ed è andato a Hollywood per scrivere lui stesso la sceneggiatura.»
«Davvero? Ho mai sentito parlare di lui? Come si chiama?»
«Rufus Marsh.»
«Vuoi dire Tell as the Morning Annuii. «Mio Dio, l’ho letto dalla prima parola all’ultima quando ero ancora al liceo. Tutta la mia educazione sessuale l’ho tratta da quel libro.» Mi guardò con un int...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Rosamunde Pilcher
  3. I giorni dell'estate
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. Copyright