Controcorrente
eBook - ePub

Controcorrente

Joris-Karl Huysmans, Fabrizio Ascari

  1. 304 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Controcorrente

Joris-Karl Huysmans, Fabrizio Ascari

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Pubblicato in Francia nel 1884, Controcorrente (noto anche come A ritroso) ha segnato in profondità l'immaginario culturale europeo, influenzando la visione dell'arte e della vita, tra gli altri, di Oscar Wilde, Gabriele D'Annunzio e Marcel Proust. Considerato il manifesto, o meglio, la bibbia del decadentismo, il romanzo segue le vicende del protagonista, Jean Floressas des Esseintes, impegnato a sconfiggere la Natura attraverso l'Artificio. La figura di des Esseintes, a sua volta modellata su quella reale del conte Robert de Montesquiou, divenne il prototipo di tutti gli esteti e i dandy di fine secolo. Romanzo atipico, con un solo personaggio, privo di dialogo e delle tradizionali soluzioni narrative, Controcorrente si dispiega in un universo di eccentricità, stravaganze, follie, inquietudini, deliri, descritto con un linguaggio prezioso, sfolgorante di inusuali metafore; una scrittura nella quale ogni singola parola, scelta con l'accuratezza e l'amore per la rarità tipici del collezionista, scintilla e luccica, in una perfetta corrispondenza tra lingua e personaggio.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852043789

1

Trascorsero più di due mesi prima che des Esseintes potesse immergersi nel silenzioso riposo della sua casa di Fontenay; acquisti di ogni sorta lo obbligavano a girare ancora per Parigi, a percorrere la città da un capo all’altro.
Eppure in quante ricerche si era impegnato, in quante riflessioni si era sprofondato prima di affidare il suo nuovo alloggio ai tappezzieri!
Da parecchio ormai era esperto di colori: ne conosceva la sincerità e gli inganni. In passato, quando usava ricevere donne in casa, aveva arredato un salottino dove, tra mobiletti intagliati nel pallido canforo del Giappone, sotto una specie di tenda di satin indiano rosa, le carni si coloravano dolcemente alla luce artificiosa che la stoffa lasciava filtrare.
Quella stanza, dove specchi contrapposti riflettevano all’infinito una fuga di salottini rosa, era stata celebre tra le ragazze, tutte compiaciute di tuffare le loro nudità in quel tiepido bagno carnicino, profumato dall’aroma di menta che esalava dal legno del mobilio.
Ma, anche tralasciando i vantaggi di quell’atmosfera artefatta che sembrava trasfondere sangue nuovo sotto le pelli sfiorite e sciupate dall’abitudine al belletto e dalle notti di voluttà, egli assaporava per conto suo, in quell’ambiente pervaso di languore, esultanze particolari, piaceri suscitati e acuiti, in certo qual modo, dal ricordo dei mali passati, delle noie superate.
Così, in odio e spregio della propria infanzia, aveva appeso al soffitto della stanza una gabbietta di fili d’argento in cui era rinchiuso un grillo che cantava come quelli tra le ceneri dei caminetti del castello di Lourps. Quando ascoltava quel verso tante volte udito, tutto il disagio delle serate mute a casa di sua madre, tutta la solitudine di una giovinezza dolente e repressa, gli si affollavano nella memoria, e allora, ai sussulti della donna che accarezzava macchinalmente e le cui parole o il cui riso dissolvevano la sua visione, riportandolo bruscamente sulla terra, nella realtà, nel salottino, gli si alzava nell’anima un tumulto, un bisogno di vendicarsi delle tristezze patite, una voglia pazza di infangare ricordi di famiglia con azioni turpi, un desiderio furioso di ansimare su cuscini di carne, di esaurire fino in fondo le più travolgenti e le più aspre follie dei sensi.
Altre volte ancora, quando la malinconia l’opprimeva, quando nelle piovose giornate di autunno si sentiva assalire dall’avversione per le strade, per la propria casa, per il cielo di fango giallastro, per le nubi di asfalto, si rifugiava in quella cameretta, scuoteva leggermente la gabbia e la guardava riflettersi all’infinito nel gioco degli specchi, finché gli occhi inebriati non avessero l’impressione che la prigione dell’insetto fosse ferma e che invece fosse tutto il salottino a ondeggiare e a ruotare, diffondendo per casa un valzer roseo.
Poi, nel periodo in cui aveva giudicato necessario distinguersi, des Esseintes aveva anche ideato arredamenti fastosamente bizzarri, dividendo per esempio il salone in una serie di nicchie le cui diverse tappezzerie potevano accordarsi per una sottile analogia, per una vaga sintonia di tinte allegre o cupe, delicate o chiassose, con il carattere delle opere latine o francesi che amava. Si accomodava allora nella nicchia la cui decorazione gli sembrava corrispondesse meglio all’essenza stessa dell’opera che il capriccio del momento gli faceva leggere.
Infine, aveva fatto allestire una sala dall’alto soffitto per il ricevimento dei fornitori. Questi, una volta entrati, si sedevano gli uni accanto agli altri su stalli di chiesa ad ascoltare lui che, da una cattedra, teneva un sermone sul dandysmo, raccomandando caldamente ai suoi calzolai e ai suoi sarti di conformarsi, nel modo più assoluto, alle sue direttive in fatto di modelli e di taglio e minacciandoli di scomunica pecuniaria se non avessero seguito alla lettera le istruzioni contenute nelle sue epistole monitorie e nelle sue bolle.
Si era guadagnato la reputazione di originale e l’aveva rafforzata indossando abiti di velluto bianco, panciotti di aurifrigia, infilando nello scollo della camicia, a guisa di cravatta, un mazzolino di violette di Parma, offrendo ai letterati cene di grande risonanza come quella, per esempio, di ispirazione settecentesca in cui, per celebrare la più futile delle disavventure, aveva imbandito un banchetto funebre.
Nella sala da pranzo parata a lutto, aperta sul giardino che era stato trasformato, per l’occasione, con i vialetti cosparsi di polvere di carbone, la piccola vasca circondata da un parapetto di basalto e riempita d’inchiostro e le aiuole piantate a pini e cipressi, la cena era stata servita su una tovaglia nera, adorna di cestini di viole e di scabiose e illuminata da torciere da cui s’innalzavano lingue di fuoco verdastre e da candelabri su cui ardevano ceri.
Mentre un’orchestra nascosta suonava marce funebri, i convitati erano stati serviti da negre nude che portavano babbucce e calze di tessuto argentato cosparso di lacrime.
Su piatti bordati di nero avevano mangiato zuppa di tartaruga, pane di segale russa, olive mature di Turchia, caviale, bottarga di cefalo, sanguinacci affumicati di Francoforte, selvaggina affogata in salse color della liquerizia e del lucido da scarpe, passato di tartufi, creme ambrate al cioccolato, budini, pesche noci, gelatina di succo d’uva, more e visciole; in bicchieri scuri avevano bevuto i vini della Limagne e del Roussillon, di Tenedo, di Valdepeñas e di Porto; dopo il caffè e il nocino, avevano gustato kwas, porter e stout.
I biglietti d’invito alla cena, che commemorava la virilità momentaneamente defunta del padrone di casa, somigliavano ad annunci mortuari.
Ma tali stravaganze, di cui un tempo andava fiero, avevano finito con lo stancarlo; adesso disdegnava quelle ostentazioni puerili e sorpassate, quell’abbigliamento eccentrico, quegli ornamenti domestici bizzarri. Pensava semplicemente a crearsi, per il proprio piacere personale e non più per la sorpresa altrui, un interno confortevole ma non per questo privo di ricercatezza, a foggiarsi su misura un ambiente singolare e tranquillo, adatto alle esigenze della sua futura solitudine.
Quando la casa di Fontenay che un architetto aveva ristrutturato secondo i suoi desideri e i suoi progetti fu pronta, quando restò soltanto da deciderne l’arredamento e la decorazione, passò di nuovo in rassegna con la massima cura la gamma dei colori e delle sfumature.
Voleva dei colori che risaltassero alla luce artificiale delle lampade; poco gli importava che a quella del giorno apparissero scialbi o sgargianti, poiché viveva quasi solo di notte, pensando che a casa propria si sta meglio, più soli, e che lo spirito si affina e brilla veramente soltanto quando viene a contatto con l’ombra. Trovava anche un godimento particolare nel rimanere in una camera molto illuminata, la sola sveglia e animata tra tante case immerse nelle tenebre e nel sonno; una sorta di godimento in cui entrava forse una punta di vanità, quella soddisfazione specialissima provata da chi lavora fino a tardi nel momento in cui, scostando le tende delle finestre, si accorge che all’intorno tutto è spento, tutto è muto, tutto è morto.
Lentamente scelse le tinte, a una a una.
Il blu, alla luce delle candele, assume una tonalità verdastra; se è scuro come il cobalto e l’indaco, diventa nero; se è chiaro, vira al grigio; se è limpido e tenue come una turchese, sbiadisce e si fa algido.
A meno dunque di unirlo come complementare a un altro colore, non era certo il caso di farne la nota dominante di una stanza.
D’altro canto, i grigi ferro si scuriscono ancor di più e si appesantiscono; i grigi perla perdono il loro azzurro e si tramutano in un bianco sporco; i bruni si spengono e si raffreddano; quanto ai verdi scuri, come il verde imperatore e il verde mirto, si comportano al pari dei blu carichi e si fondono con i neri; restavano dunque i verdi più pallidi, come il verde pavone, i cinabri e le lacche, ma allora la luce ne dissolve l’azzurro e mantiene soltanto il loro giallo che, a sua volta, conserva una tonalità falsa, un carattere torbido.
Neanche da considerare i toni del salmone, del granoturco e i rosa, la cui effeminatezza sarebbe andata contro i propositi di isolamento; infine, da escludere i violetti che si snaturano; la sera, riaffiora solo il rosso, e che rosso! un rosso vischioso, un vinaccia ignobile; gli sembrava del resto del tutto inutile ricorrere a tale colore quando, ingerendo una certa dose di santonina, si vede tutto violetto, e pertanto è facile cambiare, senza metterci mano, la tinta delle proprie tappezzerie.
Scartati questi colori, non ne restavano che tre: il rosso, l’arancione, il giallo.
A tutti preferiva l’arancione, confermando così con il proprio esempio la verità di una teoria che a suo avviso era di un’esattezza quasi matematica: cioè che esiste un’armonia tra la natura sensuale di un vero artista e il colore che appare più speciale e più vivo ai suoi occhi.
Trascurando infatti la gente comune le cui retine grossolane non percepiscono né la cadenza tipica di ciascun colore né il fascino misterioso delle loro gradazioni e delle loro sfumature; trascurando anche gli occhi dei borghesi, insensibili allo sfarzo e all’impeto delle tinte forti e vibranti; limitandosi allora agli individui dalle pupille raffinate, rese esperte dalla letteratura e dall’arte, gli sembrava certo che l’occhio di chi tra loro sogna l’ideale, cerca illusioni, pretende veli nei tramonti, di solito è blandito dal blu e dai suoi derivati, quali il malva, il lilla, il grigio perla, purché tuttavia restino tenui e non superino il limite oltre il quale perdono in personalità e si trasformano in violetti puri, in grigi decisi.
Invece, gli individui brutali come ussari, i pletorici, i bei sanguigni, i maschi ben piantati che sdegnano i preliminari e le storie a puntate e vanno diritti al sodo perdendo subito la testa, prediligono per lo più le tonalità squillanti dei gialli e dei rossi, la violenza chiassosa dei vermigli e dei cromi che li accecano e li inebriano.
Infine, gli occhi delle persone gracili e nervose il cui appetito sensuale ricerca cibi insaporiti da affumicature e da salamoie, gli occhi di chi è sovreccitato e consunto preferiscono quasi sempre questo colore irritante e malaticcio, dagli splendori fittizi, dalle febbri acide: l’arancione.
La scelta di des Esseintes non poteva dunque dar adito al minimo dubbio; ma si presentavano ancora incontestabili difficoltà. Se il rosso e il giallo si esaltano alla luce, non si può sempre dire altrettanto del loro composto, l’arancione, che si infiamma e si tramuta spesso in rosso nasturzio, in rosso fuoco.
Alla luce delle candele ne studiò tutte le sfumature, scoprendone una che gli parve non dovesse essere soggetta a squilibri e deludere le sue aspettative; al termine di questi esperimenti, cercò di non usare, nei limiti del possibile, almeno per il suo studio, stoffe e tappeti orientali, che erano insopportabili e ordinari da quando i bottegai arricchiti se li procuravano a prezzi ribassati nei negozi di articoli alla moda.
Alla fine decise di far rivestire le pareti con materiali usati per rilegare i libri: marocchino a grana grossa schiacciata e cuoio del Capo lucidato dalle grandi lastre di acciaio di una potente pressa.
Una volta completato il rivestimento, fece dipingere le bordure e gli alti zoccoli di indaco scuro, di un indaco laccato simile a quello usato dai carrozzieri per i pannelli delle vetture, e il soffitto, leggermente incurvato, tappezzato anch’esso di marocchino, dischiuse, come un immenso lucernario incastonato nel suo cuoio aranciato, un cerchio di firmamento di seta blu Savoia, nel cui centro ascendevano ad ali spiegate alcuni serafini d’argento, ricamati un tempo dalla confraternita dei tessitori di Colonia per un’antica cappa.
Di sera, a lavori ultimati, tutto cio si armonizzò, si temperò, si assestò: le parti di legno fissarono il loro blu, sostenuto e quasi riscaldato dagli arancioni che rimasero anch’essi inalterati, sorretti e in certo qual modo attizzati dal soffio incalzante dei blu.
Quanto ai mobili, des Esseintes non dovette compiere lunghe ricerche poiché l’unico lusso della stanza doveva essere costituito da libri e fiori rari; riservandosi di ornare, in un secondo tempo, le pareti nude con qualche disegno o qualche quadro, si limitò ad addossare alla maggior parte della loro superficie librerie di ebano, a disseminare il parquet di pelli di belve e di manti di volpi azzurre, a sistemare accanto a un massiccio tavolo quattrocentesco da cambiavalute profonde poltrone a orecchioni e un vecchio leggio da cappella, di ferro battuto, uno di quelli su cui il diacono posava un tempo l’antifonario e che ora sorreggeva uno dei pesanti in folio del Glossarium mediae et infimae latinitatis di Du Cange.
Le finestre, i cui vetri venati di screpolature, bluastri, cosparsi di fondi di bottiglia dalle gobbe picchiettate d’oro, intercettavano la vista della campagna e lasciavano filtrare soltanto una luce irreale, si rivestirono a loro volta di tendaggi ricavati da vecchie stole, il cui oro scuro e quasi brunito si spegneva nella trama di un rosso languente.
Infine, sul caminetto tappezzato anch’esso con la sontuosa stoffa appartenuta a una dalmatica fiorentina, tra due ostensori in stile bizantino di rame dorato, provenienti dall’antica Abbaye-au-Bois di Bièvre, venne collocata una meravigliosa cartagloria, a tre scomparti lavorati come un pizzo, che racchiudeva sotto il vetro della cornice tre componimenti poetici di Baudelaire, ricopiati su un’autentica pergamena con stupendi caratteri da messale e splendide miniature: a destra e a sinistra, i sonetti intitolati La morte degli amanti e Il nemico; al centro, il poemetto in prosa Any where out of the world: In qualsiasi luogo fuori del mondo.

2

Dopo la vendita delle sue proprietà, des Esseintes tenne i due vecchi domestici che avevano curato sua madre e assolto al tempo stesso le funzioni di amministratori e di portinai del castello di Lourps, rimasto disabitato e vuoto fino all’epoca in cui era stato messo all’asta.
Fece venire a Fontenay questa coppia abituata al trantran di chi assiste un malato, a una regolarità da infermieri che somministrano ogni ora cucchiai di pozioni e di tisane, a un rigido silenzio da monaci di clausura, senza contatti con l’esterno, in stanze dalle finestre e dalle porte chiuse.
Il marito fu incaricato delle pulizie e della spesa, la moglie della cucina. Des Esseintes assegnò loro il primo piano, li obbligò a calzare spesse pantofole di feltro, fece mettere delle controporte davanti alle porte ben oliate e ricoprire i pavimenti delle loro stanze con alti tappeti in modo da non udire alcun rumore di passi sopra la propria testa.
Si accordò con loro anche sul senso di certe suonerie, determinò il significato degli squilli di campanello a seconda del numero, della brevità, della lunghezza; indicò il punto preciso della scrivania su cui dovevano posare mensilmente, mentre lui dormiva, il libro dei conti; insomma, fece in modo di non essere costretto troppo spesso a vederli o a parlare con loro.
Però, siccome la donna doveva talvolta uscire dalla casa per raggiungere la legnaia, volle che la sua sagoma, quando passava davanti ai vetri delle sue finestre, non gli offendesse la vista, e le fece confezionare un abito di faglia fiamminga, con cuffia bianca e largo cappuccio nero calato sulla fronte, come ne portano ancora, a Gand, le donne del beghinaggio. L’ombra di quel copricapo, quando gli fluttuava davanti al crepuscolo, gli dava la sensazione di trovarsi in un chiostro, gli ricordava quei silenti e devoti villaggi, quei quartieri morti, relegati e sepolti in un angolo di città vivace e attiva.
Stabilì anche rigidamente gli orari dei pasti, che del resto erano poco elaborati e piuttosto frugali poiché la debolezza del suo stomaco non gli consentiva più di ingerire cibi sofisticati o pesanti.
D’inverno, alle cinque, subito dopo il tramonto, consumava una leggera colazione con due uova alla coque, alcune fette di pane biscottato e del tè; poi cenava verso le undici; durante la notte, beveva caffè, talvolta tè e vino; verso le cinque del mattino, prima di coricarsi, piluccava uno spuntino.
Prendeva questi pasti, il cui menù veniva fissato secondo un ordine immutabile a ogni inizio di stagione, a una tavola collocata al centro di una stanzetta separata dal suo studio da un corridoio imbottito, ermeticamente chiuso, che non lasciava filtrare né odori né rumori in nessuno dei due ambienti cui serviva di collegamento.
Questa saletta da pranzo somigliava alla cabina di una nave con il soffitto a volta, provvisto di travi a semicerchio, i tramezzi e il pavimento di pino americano, la finestrella aperta nella boiserie come un oblò in una murata.
Al modo delle scatole giapponesi che entrano le une nelle altre, questa stanza era inserita in una stanza più grande che costituiva la vera sala da pranzo progettata dall’architetto.
In essa la luce entrava da due finestre: l’una, adesso invisibile, nascosta dal tramezzo, che però era abbassabile a volontà mediante un meccanismo a molla per consentire di cambiare l’aria che da questa apertura poteva allora circolare attorno alla scatola di pino americano e penetrarvi; l’altra, visibile, perché posta proprio in corrispondenza dell’oblò praticato nella boiserie, ma inutilizzabile; infatti, un grande acquario occupava tutto lo spazio compreso tra l’oblò e la vera finestra aperta nella vera paret...

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Huysmans, J.-K., & Ascari, F. (2013). Controcorrente ([edition unavailable]). Mondadori. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3300389 (Original work published 2013)

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Huysmans, Joris-Karl, and Fabrizio Ascari. (2013) 2013. Controcorrente. [Edition unavailable]. Mondadori. https://www.perlego.com/book/3300389.

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Huysmans, J.-K. and Ascari, F. (2013) Controcorrente. [edition unavailable]. Mondadori. Available at: https://www.perlego.com/book/3300389 (Accessed: 14 June 2024).

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Huysmans, Joris-Karl, and Fabrizio Ascari. Controcorrente. [edition unavailable]. Mondadori, 2013. Web. 14 June 2024.