Basta piangere!
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Basta piangere!

Storie di un'Italia che non si lamentava

  1. 144 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Basta piangere!

Storie di un'Italia che non si lamentava

Informazioni su questo libro

«Non ho nessuna nostalgia del tempo perduto. Non era meglio allora. È meglio adesso. L'Italia in cui siamo cresciuti era più povera, più inquinata, più violenta, più maschilista di quella di oggi. C'erano nubi tossiche come a Seveso, il terrorismo, i sequestri. Era un Paese più semplice, senza tv a colori, computer, videogiochi. Però il futuro non era un problema; era un'opportunità.» Aldo Cazzullo racconta ai ragazzi di oggi la storia della sua generazione e quella dei padri e dei nonni, «che non hanno trovato tutto facile; anzi, hanno superato prove che oggi non riusciamo neanche a immaginare. Hanno combattuto guerre, abbattuto dittature, ricostruito macerie. Hanno fatto di ogni piccola gioia un'assoluta felicità anche per conto dei commilitoni caduti nelle trincee di ghiaccio o nel deserto. Mia bisnonna sposò un uomo che non aveva mai visto: non era la persona giusta con cui lamentarmi per le prime pene d¿amore. Mio nonno fece la Grande Guerra e vide i suoi amici morire di tifo: non potevo lamentarmi con lui per il morbillo. L¿altro nonno da bambino faceva a piedi 15 chilometri per andare al lavoro perché non aveva i soldi per la corriera: come lamentarmi se non mi compravano il motorino?». I nati negli anni Sessanta non hanno vissuto la guerra e la fame; ma sapevano che c¿erano state. Hanno assorbito l¿energia di un Paese che andava verso il più anziché verso il meno. Hanno letto il libro Cuore, i romanzi di Salgari, Pinocchio, i classici. Non hanno avuto le opportunità dell¿era digitale, scrivevano lettere e non mail o sms, ma proprio per questo hanno conosciuto il tempo in cui le parole avevano un valore. Basta piangere! rievoca personaggi, canzoni, film, libri e oggetti di un'Italia che si accontentava di poco: Yanez e Orzowei, il mago Silvan e le piste per le biglie, i Giochi senza frontiere e la Febbre del sabato sera, i miti dello sport e della musica, le mode effimere e i cambiamenti profondi. Attraverso il racconto degli ultimi decenni, Aldo Cazzullo ricostruisce l'inizio della crisi e il modo in cui se ne può uscire: i quarantenni, anziché beccarsi come i capponi di Renzo, si uniscano per cambiare il Paese. E i ragazzi smettano di piagnucolare per qualcosa che ancora non conoscono e che dipende soprattutto da loro: il futuro.

Domande frequenti

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II

Vedrai che sarà femmina

Al cinema si entrava a film iniziato. Non importa se dopo dieci minuti o a metà del secondo tempo. Costava meno (molte cassiere facevano lo sconto a chi arrivava in ritardo). E il cinema non era solo un posto dove andare a vedere un film. Era il posto dove si appartavano le coppiette. Dove gli omosessuali si incontravano o cercavano di sedurre i giovani militari (che al cinema entravano gratis). Dove i giovani studenti o le famiglie capitavano quasi per caso, magari perché aveva iniziato a piovere. I grandi fumavano. I piccoli ottenevano una volta all’anno di andare a vedere il loro film (non facevano più di un cartone animato all’anno). Alla fine non si era obbligati a uscire come ora, anzi si aspettava che il film ricominciasse, fino a quando non si riconoscevano immagini già viste, dialoghi già sentiti. La frase-chiave era: «Siamo arrivati qui».
I cinema italiani erano scomodi, con i sedili di legno spesso freddi, ma bellissimi. Enormi, con i fregi liberty, le cariatidi che sostenevano la volta come quelle dell’Eretteo, la galleria che costava più della platea perché ti metteva all’altezza degli occhi delle attrici. Oggi gli storici cinema italiani sono quasi tutti chiusi. Sono diventati bingo, centri commerciali, ristoranti di catena, sale per le slot-machine. I pochi sopravvissuti sono frazionati in tante piccole sale, dove si va solo per vedere il film che interessa. Non ne ho mai vista una piena.
Al cinema, durante la settimana, davano i classici. In tv non c’erano quasi mai film. Non esistevano videoregistratori né oggetti ormai estinti come le videocassette o superati come i dvd. Non c’erano i computer, figurarsi Internet. Non c’era insomma modo di ritrovare i vecchi, grandi film. Così si andava a vederli al cinema, dal lunedì al giovedì (nei weekend davano le prime visioni).
Scoprivamo così le pellicole che avevano emozionato i nostri genitori, in particolare quelle sulla seconda guerra mondiale: Il ponte sul fiume Kwai con il suo motivetto irresistibile, La battaglia delle Midway con i generali giapponesi cattivissimi. Ma la vera iniziazione al cinema fu 2001 Odissea nello spazio. Avevo dodici anni e quell’opera meravigliosa di fantascienza e insieme di filosofia mi colpì nel profondo. Lo scimmione che al suono dei tamburi del Così parlò Zarathustra di Strauss – tun tun tun tun tun tun… ta tan! – impara a usare l’osso come un’arma, l’osso che diventa astronave, il monolito che accende la scintilla dell’intelligenza, il folle volo nel cosmo sino alla morte e alla rinascita, al cadavere e all’embrione… Non ci dormii per più notti.
Quando mio figlio Francesco ha compiuto dodici anni, come prova iniziatica l’ho sottoposto alla visione di 2001 Odissea nello spazio. L’ha trovato noiosissimo. È arrivato in fondo solo per rispetto filiale.
In effetti, rivisto per l’ennesima volta, il capolavoro di Kubrick resta meraviglioso ma denota una certa lentezza. Il cinema è l’arte del nostro tempo ma – diceva Monicelli – è arte minore: a differenza della pittura di Michelangelo e Caravaggio, il cinema invecchia, e i remake stroncati dai critici come profanazioni sono sovente migliori degli originali. E poi oggi i ragazzi sono abituati al ritmo frammentato dei videogame e di YouTube. Non riescono a concentrarsi su tempi lunghi. Faticano a seguire per intero anche una partita di calcio, che dura 90 minuti; immaginarsi un film di quasi tre ore. Capolavori come Piccolo grande uomo, che a noi sembrarono, e sono, un fuoco di fila di trovate, per loro diventano un mattone che non finisce mai. Senza considerare che una parte del fascino di 2001 Odissea nello spazio era nella data, che indicava un’età prossima ventura. Per i nostri figli il 2001 è già passato, su Marte non siamo andati e forse non andremo, e se mai ci andremo sarà inutile.
Ringrazio comunque di aver vissuto l’infanzia in un tempo dilatato, lento, lungo, in cui ci si poteva prendere il lusso gratuito di fantasticare o di annoiarsi. E ringrazio di aver visto per la prima volta 2001 Odissea nello spazio là dove andrebbero visti tutti i film: al cinema. (Comunque, quando Rossana ha compiuto dodici anni, ha avuto l’accortezza di far sparire il cd del grande Kubrick, che ora non si trova più.)
La nostra memoria è divisa in due. Non tra ricordi belli e ricordi brutti. C’è la memoria, diretta e indiretta, degli anni Sessanta. E quella dura e viva degli anni Settanta. Paradossalmente, la prima, la più antica, è a colori, e la seconda, la più recente, è in bianco e nero.
Sono a colori le polaroid della nostra infanzia, che spesso ci facevano gli occhi rossi tipo vampiri. I giocattoli (siamo stati la prima generazione ad averli di plastica, quasi sempre rossa, e non di legno). I vasini da notte, azzurri o rosa. I vestiti della mamma, che suggeriva di scrivere, nei temi su di lei, «mia mamma veste in modo sobrio» ma aveva certi bellissimi cappotti rossi. I gelati venduti dal carretto d’estate (il gelataio d’inverno diventava caldarrostaio; anche perché allora nessuno mangiava gelati d’inverno). E le crostate comprate in pasticceria la domenica, la massima ricercatezza gastronomica che ci concedessimo: torna in mente non solo il colore della crostata, ma soprattutto quello della carta, sinonimo di festa e allegria, quasi sempre rosso.
Gli anni Sessanta, per chi è nato verso la metà del decennio, sono un periodo che non abbiamo vissuto, ma assorbito. Ci è rimasta dentro un’energia, un senso di ottimismo, un’idea di crescita. Non di grandezza; di fiducia. Si sentiva nitida l’eco delle privazioni della guerra e delle restrizioni del dopoguerra, quando si mangiava carne una volta alla settimana e non per salutismo, i treni avevano la terza classe e la società era già «low cost» senza saperlo. La nostra non era né l’Italia «alquanto piccola ma del tutto seria» sognata da Beppe Fenoglio e dai migliori uomini della Resistenza, né quella smargiassa e maledetta del Sorpasso di Gassman e Trintignant. Non era un paese penitenziale ma neppure godereccio. Il simbolo erano gli autogrill che scavalcano l’Autosole, con le scritte ovviamente rosse, e i cuochi con il cappello che affettavano giganteschi tacchini, come in certi quadri barocchi celebranti l’abbondanza dopo la carestia. Un’era che ebbe il suo culmine nella notte dello sbarco sulla luna (domenica 20 luglio 1969), e in quella di Italia-Germania 4 a 3 (mercoledì 17 giugno 1970).
Allora non potevamo capirlo, ma battere i tedeschi, e in quel modo, rappresentava un riscatto per una generazione che in guerra era andata al rimorchio dei nazisti, li aveva combattuti quando avevano invaso la patria, e ora si accontentava di rifocillarli quando scendevano in vacanza in Romagna o sulle Langhe, consultando guide che indicavano i villaggi da evitare, dove sentire parlare tedesco rievocava paure e furori.
La conquista americana della luna fu celebrata con grande tripudio dalla tv di Stato. L’Italia anticomunista respirò di sollievo: i russi erano stati preceduti, quindi sconfitti. Tito Stagno divenne una star, quasi fosse sbarcato lui. Di Michael Collins, il pilota dell’Apollo 11, si fece notare con orgoglio che era nato a Roma. Soprattutto, l’impresa parve l’inizio di una nuova era della storia umana, come lo sbarco di Cristoforo Colombo in America aveva chiuso il Medioevo per aprire l’età moderna. Per anni Hollywood prosperò su guerre stellari, incontri ravvicinati del terzo tipo ed extraterresti con il telefonino per chiamare casa. Anche «Oggi» e «Gente» si riempirono di foto scattate da sonde dai nomi immaginifici – Pioneer, Voyager… – che ci rivelarono una verità poco entusiasmante: i marziani sono in realtà microrganismi; il cosmo è immenso, ma vuoto, o comunque troppo grande per noi. Trent’anni dopo Colombo, c’era già in America un impero europeo, che commetteva orrendi genocidi ma cambiava la storia. Trent’anni dopo l’Apollo 11, non soltanto le previsioni del grande Kubrick non si sono verificate, ma si comincia a pensare che la conquista dello spazio sia un ramo secco dell’evoluzione, un binario morto della storia. Allo stesso modo, la grande espansione degli anni Sessanta avrebbe creato aspettative in parte illusorie: la pace sociale e il relativo benessere non erano acquisiti per sempre, la scala che aveva fatto salire contadini e operai verso il ceto medio poteva essere percorsa anche nel verso opposto. Allora però non lo sapevamo.
I miei primi ricordi pubblici, di cose accadute non solo a me ma a tutti, sono però in bianco e nero. Anche perché la conquista della luna e Italia-Germania 4 a 3 le ho dimenticate. Ho letto articoli ben scritti di Alessandro Baricco, che è del ’58, e di Massimo Gramellini, che è del ’60, e raccontano di televisori sbirciati da dietro la porta, pigiami, piedi nudi sul pavimento freddo. Io sono del ’66: troppo piccolo. Ho solo assorbito i ricordi di mio padre, che – anticomunista e appassionato di calcio – fu entusiasta di entrambi gli avvenimenti.
Il mio primo ricordo pubblico, invece, è Monaco 1972. La foto dell’uomo incappucciato alla finestra. Il sangue sulle Olimpiadi. Oltretutto i miei genitori erano in Germania. I nonni mi assicurarono che avevano lasciato Monaco: dopo aver seguito i Giochi per qualche giorno erano partiti per Berlino, attraversando il territorio della Ddr in un’unica tirata sotto la pioggia. Era vero, ma diventava comunque difficile dormire all’idea di papà e mamma alle prese con i fedayn palestinesi e con i maldestri servizi di sicurezza tedeschi. Cominciai a guardare le Olimpiadi. Trepidai per il dressage dei fratelli D’Inzeo, fieri reazionari che per giunta si fermarono al bronzo nel concorso a squadre. E cominciai a seguire la guerra tra arabi e israeliani.
L’anno dopo la guerra ci arrivò in casa. All’alba del 6 ottobre 1973 – nono giorno del mese di Ramadan del 1393 per i musulmani, giorno dello Yom Kippur del 5734 per gli ebrei – le truppe egiziane e siriane mossero dal canale di Suez e dal Golan contro l’esercito israeliano, cogliendolo di sorpresa. Ero sulla Lancia Fulvia bianca di nonno Aldo, sulle Langhe, e alla radio le notizie della guerra che sarebbe stata chiamata appunto del Kippur interrompevano di continuo le trasmissioni. Sullo sfondo della voce dello speaker si sentivano le cannonate. Pareva incredibile, ma gli israeliani stavano perdendo. Il nonno, convinto filoatlantico, era incredulo e un po’ preoccupato. Non che gli fossero antipatici gli arabi, anzi Sadat sembrava meno spaccone e più serio del suo predecessore Nasser; ma da quella guerra non sarebbe arrivato nulla di buono. Infatti, quando le sorti si capovolsero e la terza armata egiziana fu accerchiata nel Sinai da Sharon, Mosca minacciò l’attacco nucleare, Washington riuscì a fermare Israele, e gli arabi scatenarono contro l’Occidente la guerra del petrolio.
Il prezzo della benzina si impennò. Un garzone del nonno disse, con aria grave e definitiva: «Finiranno per portare il gasolio a 500 lire al litro e la benzina a mille». Cominciò l’austerity. Targhe alterne. Domeniche a piedi. Coprifuoco al cinema e a teatro. Programmi tv accorciati: alle 10 di sera televisori e luci spente.
Non oso immaginare cosa accadrebbe se succedesse ora: una rivoluzione, o almeno una depressione collettiva, accompagnata da imponenti proteste. Come si può limitare così la libertà? Come si fa a stare senza tv?
A dire il vero, la nostra vita allora non cambiò per nulla. La televisione era molto meno importante di adesso. I politici contavano di più (non c’erano ancora la burocrazia europea e la finanza globale), ma in tv non andavano quasi mai. Si leggevano i libri degli scrittori, non dei personaggi televisivi. La sera si giocava a carte e si raccontavano storie; oppure si taceva, ognuno chiuso nei suoi pensieri. La frenesia da gioco elettronico o da social network era sconosciuta. I ritmi erano più lenti, i tempi spesso vuoti; e nelle serate estive si facevano talora infiniti. Era ancora la società dell’immaginazione, della fantasia e della noia, o che almeno sapeva immaginare, fantasticare, annoiarsi, e anche accontentarsi di sorprese davvero minimali: ogni tanto, mentre in tv davano i Giochi senza frontiere, bizzarra competizione tra città europee condotta da due arzilli vecchietti svizzeri, nelle serate di vena il nonno spariva senza dire niente e tornava con l’anguria o il gelato. L’auto era già un fenomeno di massa, ma fu possibile farne a meno. Si lavorò di fantasia. I tifosi delle squadre di provincia seguirono le trasferte in bicicletta. Si videro i primi pattini a rotelle. Insomma, non ci si lamentò più di tanto.
Erano in bianco e nero anche le immagini delle disgrazie altrui. I bambini del Biafra – un pezzo di Nigeria che aveva ottenuto un’effimera indipendenza pagata con la guerra e la fame – avevano corpi scheletrici e pance enormi. Ci spiegarono che erano gonfie, non piene. Biafra rimase a lungo sinonimo di carestia, penuria, miseria. Per i nonni, una specie di memento, un ricordo di qualcosa che loro avevano vissuto e che i loro nipoti non avrebbero dovuto vivere mai.
Gli americani persero la guerra del Vietnam. Elicotteri salivano in cielo dal tetto dell’ambasciata Usa a Saigon, con i collaborazionisti letteralmente aggrappati, in fuga dai plotoni d’esecuzione dei vietcong vincitori. Altri superstiti fuggirono in barca: i boat-people. Gli americani ricchi adottarono i piccoli vietnamiti, e Paolo Villaggio scrisse che lo facevano come si adotta un cucciolo pechinese al canile.
Ora sappiamo che al comunismo restavano appena quindici anni di vita. Ma all’epoca sembrava che la guerra fredda la stessero vincendo i comunisti. Crollavano le dittature di destra che avevano congelato la storia in Grecia, Portogallo, Spagna. «Lisbona è caduta» scriveva ironicamente Villaggio, che giocava a calarsi nella testa del piccoloborghese nostalgico dell’ordine antico. «Il Portogallo di Salazar era l’ultimo paradiso. I contadini legati all’aratro lavoravano ventisei ore al giorno lungo le dolci rive del Tago … Soltanto la Spagna resiste, con il suo magnifico e indomito Caudillo.» «Que duro es esto» mormorava il Caudillo nei giorni in cui i parenti e gli approfittatori lo tenevano in vita artificialmente, per guadagnare qualche ora utile a rubare e mettersi in salvo. «È morto Franco. Un porco in meno» scrissero in Italia sui muri.
Gli americani non avevano solo perso la prima guerra della loro storia. Si erano divisi al loro interno. Marines contro hippies. Crani rasati contro capelloni («ma è un uomo o una donna?» chiedevano i nonni davanti alle immagini dei cantanti rock, senza ironia). Berretti verdi contro Hair. John Wayne contro Jane Fonda. L’America guerrafondaia, denunciata dallo stesso Eisenhower nel suo ultimo discorso da presidente, faceva paura. L’America oscura che arrivava ad assassinare il suo stesso presidente sfuggiva alla nostra comprensione. Ma l’America senza nerbo della droga e dei figli dei fiori inquietava ancora di più. La superpotenza che ci aveva salvati dal fascismo ora rischiava, agli occhi della provincia e della piccola borghesia, di corrompere la gioventù e di consegnarla al comunismo.
I rossi vincevano non soltanto in Asia e in Africa, dove erano sbarcati i cubani, dall’Angola alla Somalia. Avanzavano anche da noi. La vittoria del no al referendum contro il divorzio fu vista come la resa, inevitabile ma definitiva, alla modernità; il che non era necessariamente un bene. L’Italia è un paese moderno titolò «La Stampa»; ma nella provincia piemontese si leggeva di più la democristianissima «Gazzetta del Popolo». E destò turbamento la canzone in cui Domenico Modugno – oggi rivalutato come geniale innovatore, che però a noi pareva francamente un vecchio trombone – piangeva al telefono con una bambina ignara di essere sua figlia, che tentava invano di far venire alla cornetta la crudele madre separata.
Il vero choc, però, fu la grande vittoria del Pci nella primavera del 1975. Tutte le metropoli, da Torino a Napoli, cadevano nelle mani dei comunisti. Cominciò una lunga campagna elettorale, in vista del voto anticipato del 20 giugno 1976. Enrico Berlinguer compariva in tv con il suo volto gotico, lungo e serio, per tracciare una croce sul temuto simbolo della falce e del martello. Gli altri capi del Pci erano quasi tutti piemontesi, ma questo non rassicurava i nonni, anzi: erano piemontesi diversi da noi, contadini, piccoli commercianti, cattolici, irregolari. Loro erano militari, operai, marxisti, inquadrati: insomma, torinesi. Compreso il più spiritoso, Pajetta. C’era un solo comunista che piacesse alla piccola borghesia di provincia, per il tratto anglosassone, la cortesia, la moderazione. Ricordo come fosse ora mia madre sospirare: «Ah, se tutti i loro fossero come Napolitano…».
I comunisti non mangiavano i bambini, ma portavano via la roba. L’anticomunismo era innanzitutto la difesa dei frutti del proprio lavoro. Quasi nessuno era democristiano, quasi tutti votavano Dc per ripararsi dietro lo scudo crociato. Sia nonno Aldo sia nonno Lorenzo avevano comprato un piccolo appartamento al mare. Entrambi – come accadeva spesso tra consuoceri – nello stesso paese ligure, Loano. Berlinguer era il comunista che veniva a portarci via la seconda casa. Forse per lo stesso motivo cominciai a guardarlo con simpatia: non ne potevo più di passare l’estate a Loano, e segretamente speravo che i comunisti venissero a portarci via la seconda casa.
In vacanza si riproduceva la vita che si faceva in città. Si mangiava sempre in casa. Le donne cucinavano tutto il giorno. Durante l’inverno, ad Alba, la nonna, la zia, la mamma e la domestica preparavano un menu fisso, come al ristorante. Ogni giorno e ogni pasto aveva le sue pietanze prestabilite. Mangiavamo carne tutti i giorni – tranne il venerdì –, perché da garzone il nonno era diventato macellaio in proprio. Ovviamente non bistecca e filetto, che erano per i clienti. Il martedì la fettina impanata. Il mercoledì lo spezzatino. Il giovedì le scaloppine. Venerdì, pesce: polenta e merluzzo, oppure le tinche pescate dai cugini che custodivano la diga sul Tanaro. Il sabato, bollito con la salsa verde, la salsa rubra, la tartara e la senape. La domenica, arrosto. La sera si facevano zuppe, brodi, ma anche la cioccolata calda e il caffelatte, in cui però si inzuppava il pane. Oppure si preparava il minestrone, di verdure o di trippa, con i ceci. Strepitosi i formaggi, prodotti dai contadini poveri dell’Alta Langa, come la tuma di Murazzano. Gli adulti apprezzavano molto il bruss, una crema invecchiata, non proprio con i vermi ma quasi, da servire con la cugnà, una marmellata di mele cotogne; per i bambini c’erano certe creme tipo mascarpone, a metà tra il salato e il dolce. Vino sempre in tavola, sfuso, nel pintone: non aveva un buon profumo, macchiava le tovaglie in modo pressoché indelebile; ne ero disgustato. Il regime alimentare era insomma folle, iperproteico e ipercalorico, pensato per gente che si svegliava col buio e lavorava tutto il giorno, spesso al freddo: il nonno e i suoi garzoni, che mangiavano con noi, persone di famiglia a tutti gli effetti. Ma un simile menu, per quanto pantagruelico, è in realtà riduttivo.
Nelle cucine della mia infanzia c’era sempre almeno una pentola sul fuoco, a ogni ora del giorno. Spesso era un sugo che sfrigolava tipo lava vulcanica, in cui tutti prima o poi finivano per intingere un pezzetto di pane, dopo aver guardato di soppiatto a destra e a sinistra. A settembre, poi, quando arrivavano le verdure e la frutta dell’estate, cucine e dispense diventavano l’antro di Vulcano. Nonna Rosina, che abitava in campagna, dove teneva polli e conigli, metteva sul fuoco i calderoni in una radura, tipo sabba delle streghe. Nonna Rina, la moglie del macellaio, si arrangiava nella sua enorme cucina o sul terrazzo, dove si cuocevano peperoni, pomodori, melanzane, rape, zucchine, mele, pere, pesche, albicocche, per farne conserve e marmellate.
La domenica le donne si alzavano all’alba per cucinare. Innalzavano montagne di farina in cui rompevano uova a decine, per poi impastare a lungo e ricavare le tagliatelle o la pasta ripiena – ovviamente di carne –: ravioli, cappelletti, agnolotti «del plin», chiusi con un pizzicotto. Oppure preparavano lunghe listarelle a base di patate e farina, che venivano tagliate con il coltello per fare gli gnocchi. Sconosciuti gli spaghetti e in genere la pasta di grano duro, tranne la pastina un po’ tristanzuola per il brodo.
Il lunedì, che nelle diete moderne è il giorno di purificazione, per noi era il giorno della macellazione. D’inverno il nonno rientrava dal mattatoio con il sangue dei vitelli ancora caldo, con cui si preparava il sanguinaccio o si condivano le lasagne. Ma il clou era quando arrivavano «gli argentini».
«Gli argentini» erano una coppia di anziani emigranti, che prima di cercare fortuna oltreoceano avevano ceduto la macelleria al nonno, e una volta all’anno tornavano a casa. Allora nonno Aldo, che aveva per loro un aff...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Basta piangere!
  3. Dello stesso autore
  4. I. Basta piangere!
  5. II. Vedrai che sarà femmina
  6. III. L’ultima volta che siamo stati felici
  7. IV. La lunga crisi
  8. V. Quarantenni di tutta Italia unitevi
  9. VI. La rivoluzione è già cominciata
  10. Copyright