Ma va da sé: rispetto a Milano, Vittorio Sereni non ha certo legami stretti con il solo stadio di San Siro, al quale pure ha dedicato pagine in prosa, parlando del tempo della grande Inter di Helenio Herrera. Come dimenticare quel suo testo, Il fantasma nerazzurro, sulla partita serale di Coppa dei Campioni nel 1964, nel quale l’autore anticipa, con impressionante coerenza, nella lenta e profondissima maturazione delle sue ragioni, quella stessa poesia che abbiamo letto nel capitolo su San Siro? Eccoci, dunque, quando ci parla dello spettacolo
sbalorditivo della folla compatta attorno a una squadra, sbalorditivo perché in quanti altri casi è dato trovare tanta gente unanime attorno a qualcosa in uno spazio relativamente ristretto, tanto da illuderti che lì si riveli e ti si apra il cuore autentico di un’intera, sterminata città (la partita notturna col Borussia quest’anno – e la muraglia ininterrotta di facce, dentro la quale è come se si sommassero tutte le folle passate di tanti anni di gioco)? Ma il quadro non sarebbe completo se tralasciassi l’istantaneità con cui tutta questa febbre – almeno per quanto mi riguarda – si spegne per far posto a un senso amaro di vacuità e quasi di rimorso non appena le gradinate si svuotano e l’enorme catino ormai silenzioso è l’immagine stessa dello sperpero del tempo.
Ma ricordo la sua prima idea della Traversata di Milano, sbocciata negli ultimi anni della sua vita. Con questo titolo – di cui mi sono impossessato anche con la precisa intenzione di rendergli omaggio – aveva pubblicato dapprima alcuni testi in versi in un annuario della Guanda, ed era un titolo che veniva da quello di un celebre film del 1956, di Autant-Lara, La Traversée de Paris. Ma forse c’era un richiamo anche a Saba: «Ho attraversato tutta la città». Sarebbe poi stato il titolo di un libro di prosa o di prose, di cui Sereni dava anticipazione in una lettera manoscritta riprodotta come introduzione al volumetto Graziano, uscito poco prima della sua scomparsa. È comunque il titolo di una sezione del bellissimo volume La tentazione della prosa, che comprende, tra l’altro, anche un testo importante e già molto noto come L’opzione. In ogni caso un elemento in più per ricordare la milanesità – acquisita, certo, ma anche consapevolmente scelta – di questo grande autore. Il quale, in molti dei suoi caratteri, poetici e personali, è milanese per vocazione e convinzione. In primo luogo per la sua discrezione e per l’orrore della retorica in una poesia dove ci ha raccontato una tragedia storica e personale con la fermezza e la limpidezza di un classico. Parlo ovviamente del Diario d’Algeria. Ma che ha poi saputo coinvolgersi – anche – nel linguaggio e nella dimensione quotidiana del reale, come negli Strumenti umani; e naturalmente senza mai cedere in misura, in gusto. È un maestro che col passare del tempo sempre più incide nella vicenda della nostra poesia contemporanea. Un poeta che è riuscito a esprimere la vitalità (e la valentia) assieme alla grazia in mille modi, anche nell’osservazione di un minimo evento, dell’apparire di una figura femminile cittadina come in questa poesia, legata a una zona a lui ben nota per averci abitato, quella appunto di Porta Venezia, di poco oltre il quadrilatero dell’ex Lazzaretto, via Benedetto Marcello, e
Via Scarlatti
Con non altri che te
è il colloquio.
Non lunga tra due golfi di clamore
va, tutta case, la via;
ma l’apre d’un tratto uno squarcio
ove irrompono sparuti
monelli e forse il sole a primavera.
Adesso dentro lei par sempre sera.
Oltre anche più s’abbuia,
è cenere e fumo la via.
Ma i volti i volti non so dire:
ombra più ombra di fatica e d’ira.
A quella pena irride
uno scatto di tacchi adolescenti,
l’improvviso sgolarsi d’un duetto
d’opera a un accorso capannello.
E qui t’aspetto.
Ecco la muraglia delle case di una via, il rumore della città e quel classico Ma del poeta degli Strumenti, che, sebbene interrompa o modifichi una considerazione, non di meno riesce a cogliere un lampo di energia, una luce di giovinezza, in un contesto di ordinario grigiore urbano, appunto in un semplice «scatto di tacchi adolescenti». Come nella dinamica giovanile del gioco, dello sport che lo affascinava, che si trattasse di una partita di calcio improvvisata («Rinascono la valentia / e la grazia. / Non importa in che forme – una partita / di calcio tra prigionieri: specie quello / laggiù che gioca all’ala»: ricordate?) o dell’Inter vincente degli anni Sessanta, di una partita notturna di Coppa dei Campioni, a San Siro, contro i tedeschi del Borussia:
Placato l’antico fantasma nerazzurro, mettiamoci calmi anche noi a guardare le cose dall’alto mentre un ragazzo che assomiglia a quello che eravamo si beve con gli occhi il suo Suarez o il suo Rivera né più né meno che noi il nostro Meazza trent’anni fa.
Incantevole liquidità della pronuncia sereniana, della sua poesia che trapassa nella prosa e le dà nuova luce.
Certo, del Sereni milanese quante altre cose si potrebbero dire… Per esempio che la presenza della città significa anche un suo più diretto e responsabile coinvolgimento in una realtà concreta con cui fare quotidianamente i conti. E lo si vede, per esempio, in un testo come Una visita in fabbrica, che si impone quale spia di una tensione etica, del bisogno irrinunciabile di un confronto continuo con il contingente. Di qui il suo passaggio da una vagheggiata castità formale di stampo petrarchista, in cui la vitalità potesse ancora esprimersi nella liquida purezza del canto, a un dire più energico ma anche deliberatamente più opacizzato e prosastico, come avviene, anche se per gradi, dagli Strumenti umani a Stella variabile, con le mirabili accensioni di grazia che sappiamo. In ogni caso domina in Sereni il senso problematico dell’esserci e delle cose. Penso, per esempio, tornando più direttamente in tema milanese, a quello che scrive, in prosa, a proposito dello scultore Luigi Broggini e del suo corso Garibaldi: «È incredibile che esista a volte un così gran braccio di mare tra via Scarlatti o via Macchi e corso Garibaldi». Oppure, in un’altra breve prosa degli Immediati dintorni, quando parla del ricordo della Milano anteguerra: «un odore come di scuderie e di ruote gommate di calessi e di vetture trainate da cavalli che si insinuava fin nelle strade del centro e che mi è parso di ritrovare a Parigi la prima volta che ci sono andato».
In una delle sue foto più diffuse, vediamo Vittorio Sereni sorridente, con un libro in mano e i Navigli alle spalle. È giorno, e infatti è proprio di giorno che è consigliabile andare sui Navigli, quando questi dolci luoghi conservano, anche nei primi tratti disseminati di ritrovi e ristoranti, una buona parte della loro naturalezza antica, della loro fisionomia, che per molti rappresenta ancora il volto di Milano. Devo dire che non sono un frequentatore assiduo della zona, della quale mi ha sempre un po’ turbato l’inevitabile incrocio di vero e artificiale che la contraddistingue, quel clima di pittoresco e turistico che diminuisce la verità dei suoi marciapiedi e delle sue botteghe. Ma di giorno c’è respiro, o ce n’è di più, e l’occhio può ancora infilarsi indiscreto in quei portoni, per scorgere bellissimi cortili, o acquietarsi alla vista di quei semplici edifici bassi dai colori lievi, per poi sporgersi a contemplare il verde cupo delle acque. Proprio qui i milanesi di una volta imparavano a nuotare, come mi ha raccontato mio padre. Proprio qui si può avere un’idea della bellezza della Milano antica, quando i Navigli erano ancora tutti alla luce del sole o avvolti nelle nebbie e facevano della nostra città un luogo incantevole. «Una città», come ha scritto Alberto Savinio, che «riposa sull’acqua, e questa è una delle principali ragioni della sua perenne freschezza.»
Camminando lungo il Naviglio Grande, la passeggiata presenta due momenti ben distinti. Il primo è quello più animato e turistico, con luoghi di ristoro e una lieve patina artificiosa. Il secondo, nel quale mi immergo sempre più assorbito, ha una bellezza avara, cosparsa di molte macchie di squallore, che segnalano l’autenticità senza complimenti della periferia più sobria, più dignitosa e classica. Con in più, si capisce, la silenziosa compagnia di quelle acque basse. Qui, in fondo, rispetto a settant’anni fa, cos’è cambiato di importante? Forse solo la fila inguardabile di macchine ai bordi, che rovina tutti i nostri paesaggi urbani senza che ce ne accorgiamo neanche più.
Qualche ciuffo verde, qualche tratto a colori di orribili graffiti, qualche casermone si offrono alla vista, ma all’improvviso mi ritrovo davanti a un’insegna antica, “Latteria”, e sono già pronto a entrare, data l’ora, per farmi due uova al burro. Solo che dentro non c’è un vecchio lattaio con il grembiule bianco padellato, ma un fabbricante di timbri e targhe, che ha conservato l’insegna per quell’amore astratto verso il passato al quale tanto spesso, oggi, ci si aggrappa per sentirsi più esistenti e legittimati. Poco oltre – sono sulla sinistra della Ripa di Porta Ticinese – vedo un’altra insegna curiosa: “Cose Preziose, Antichità e Collezionismo”, e resto qualche minuto davanti a una vetrina con una serie di «Topolino» dei primi anni Sessanta e qualche scolorito soldatino. Osservo anche un impagliatore di sedie e un ciabattino autentico. D’accordo, niente di speciale, ma nel complesso un’atmosfera simpatica e sospesa, con un vago sapore di pigrizia e di paese, che si accentua proseguendo nelle traverse di via Villoresi e via Carlo D’Adda. Dopo il ponte, la strada diventa via Ludovico il Moro. Sul lato opposto, dove il nome è ancora quello di Alzaia Naviglio Grande, prima della Canottieri Olona e della Canottieri Milano, si manifesta l’angolo che a me pare il più bello, quello di San Cristoforo al Naviglio: una delizia improvvisa nella periferia.
In corso San Gottardo
Il “milanese” Stendhal mostrò di apprezzare l’arco di Porta Ticinese, che era allora Porta Marengo, affermando che era «bella, senza essere copiata dall’antico, mentre la Borsa di Parigi sarà soltanto una copia di un tempio greco». Me lo guardo compiaciuto, questo monumento del neoclassicismo milanese, opera del marchese Luigi Cagnola, e mi dirigo verso quello che fu “el borgh”, il borgo di Porta Cicca, appena oltre le mura spagnole, dove arrivavano le merci trasportate via Naviglio, e soprattutto i latticini, tanto che le case del posto (detto anche “el borgh di formagiatt”) avevano cantine e pianterreni chiamati casere. Vado, in parallelo, nella stessa direzione dei Navigli, ai quali si può arrivare passando, a volte, di cortile in cortile. Corso San Gottardo dà un senso di benessere al passante, che si gode la vista di quelle tenere case, basse e gialline. Sono costruzioni, appunto, dai lunghi cortili a budello. Sono labirinti un po’ foschi, che – mi avvertiva mia nonna – erano particolarmente cari ai ladruncoli, i quali passando veloci da un cortile all’altro, e sbucando nella strada parallela, riuscivano a far perdere le loro tracce ai malcapitati sbirri all’inseguimento. Un po’ come Balzac quando scappava in discesa sul retro della sua casa di Passy per seminare gli odiosi e appiccicosi creditori.
Visito veloce (il sacrista sta lavando il pavimento e mi guarda storto) la chiesa di San Gottardo al Corso, con i begli affreschi del Valtorta, e mi rimetto a perlustrare i molti negozi e ancora i cortili. Quelli della Reale Mutua hanno decorosamente rimodernato queste corti antiche e il loro acciottolato. Altri interni presentano invece un’antica fisionomia quasi immutabile, con accoglienti balconi ricolmi di verzura e più austeri alberi secolari, nel centro, a conferire un equilibrio. All’esterno, il susseguirsi di botteghe conserva un’impronta essenzialmente milanese, con l’Erboristeria e la Galleria del Bagno dentro una corte. Vedo soltanto un paio di padelle paraboliche, e qualche sdrucita e smunta bandiera della pace. Mi infilo al famoso numero 18, che porta dall’altra parte, e cioè verso le case che danno sul Naviglio di via Ascanio Sforza, dove abitava un grande milanese: Antonio Porta. Penso al suo volto aperto, alla generosa nobiltà del suo animo, oltre che all’intensa acutezza della sua poesia. Milano dovrebbe ricordarsi di lui più spesso, e con più affetto.
Navigli coperti e scoperti
Parlando di Navigli non si può ignorare la periodica, anche se timida, richiesta di riapertura della Fossa Interna, cioè della prima cerchia, quella che fino agli anni Trenta coincideva con il tracciato delle mura medievali. Certo, doveva essere un delizioso spettacolo, con i suoi ventidue ponti e con le porte che si affacciavano sulle acque: quella di Sant’Ambrogio, quella di Porta Ticinese alle colonne di San Lorenzo, quella che è alla fine di via Manzoni. Milano: splendida città d’acqua, che possiamo ammirare in numerose immagini dell’epoca, e neanche tanto remote, visto che chi ha oggi novant’anni può ancora ricordarsi bene i Navigli. Avevano una larghezza tra gli otto e i dieci metri e i barconi che li percorrevano se ne andavano alla superba velocità di due o tre chilometri l’ora. Per noi, ai nostri ritmi, qualcosa di assolutamente inconcepibile: a passo d’uomo si va veloci più del doppio. Ma non ci è dato sapere come li vedevano e consideravano gli uomini dell’Ottocento o dei primi decenni del secolo scorso. C’è un bellissimo libro di Marco Comolli, La cancellazione dei Navigli, uscito nel 1994, in cui viene ripercorsa la vicenda storica della copertura di questo simbolo di Milano, ancora vivo nella sua parte esterna. Comolli ci fa capire che la presenza dei canali era perfettamente in armonia con un contesto di “affabilità” architettonica che l’idea di modernità aveva inevitabilmente messo in crisi. Verso la fine dell’Ottocento se ne denunciava il carattere anti-igienico, si parlava della facilità con cui il passante incerto, distratto o magari sbronzo ci cadeva dentro, si sottolineava come – e particolarmente dov’era il Tombone di San Marco – fossero numerosi i suicidi, che il Naviglio facilitava, che attirava come un risucchio vertiginoso. Oggi noi guardiamo a quadri e stampe, o anche a immagini fotografiche, con un po’ di magone per quello che Milano è stata e non è più. Pensiamo al pacifico cammino di quelle acque e al lentissimo muoversi dei barconi – che erano serviti, tra l’altro, anche a trasportare il marmo per la costruzione del Duomo avviata alla fine del Trecento –, e poi pensiamo alle osterie sulle rive, alla gente che conversava quietamente o nuotava con gioia. Ma dopo quasi ottocento anni (la costruzione della Fossa Interna risale alla seconda metà del XII secolo) la visione che il milanese aveva dei Navigli era del tutto cambiata. La modernità aveva imposto una diversa prospettiva, un modo di guardare al futuro secondo un’idea di progresso in costante superamento della realtà presente, e quelle povere, deliziose acque lentissime e considerate malsane sembravano ancorate a un preistorico passato da liquidare. I Navigli divennero dunque, tornando ancora a Comolli, «incomprensibili». Proprio per questo, oggi, proporre di scoprirli non ha senso. La fisionomia attuale della città non ha niente a che fare con il sentimento della città stessa, delle case e delle strade, dei commerci e dei ritrovi, che si aveva un tempo, e sarebbe dunque un’operazione di nostalgia sostanzialmente insensata. La cerchia interna fa parte della storia di una città, l’abbiamo sotto di noi, ogni volta che percorriamo la via che li ha coperti. Dobbiamo dunque riappropriarcene come memoria, come cultura di una città.
Ma l’idea di Milano di cui ci ha parlato Marco Comolli va al di là delle sue considerazioni su ciò che sono stati i Navigli, e su ciò che non potrebbero comunque essere più. Il suo occhio di architetto ne aveva ben colto alcuni caratteri essenziali, come appunto quello di aver saputo valorizzare l’architettura minore, nella consapevolezza che «il modo migliore per rendere bella una città era quello di preservare la sua bellezza normale, comune», contro un concetto che ha sempre confuso bellezza con ricchezza e appariscenza. Chi ama davvero la città, le città, sa che per viverle non sono i monumenti e i musei le prime cose da conoscere, ma la fisionomia della realtà quotidiana per come si manifesta nella sua normalità: la qualità di una città è in questo, nella sua normalità quotidiana. I milanesi lo sapevano, e oggi lo sanno di meno. Per questo la città ha in parte smarrito quell’affabilità umana di cui parlava Comolli. Non ha insomma saputo proteggere abbastanza la sua qualità, le sue risorse specifiche.
Tornando ai Navigli, Comolli dice che «la qualità della Milano dei Navigli non stava nei Navigli in sé. […] E neppure era l’importanza architettonic...