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Vita di Gabriele D'Annunzio
Informazioni su questo libro
Una rievocazione avvincente e documentatissima della vicenda umana e letteraria di un personaggio leggendario che l'autore considerava affine per il gusto per la vita e la propensione alla sensualità.
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Informazioni
Vita di Gabriele D’Annunzio
Capitolo I
1863-1874
Il 12 marzo 1863, a Pescara, nella casa di via Manthoné oggi consacrata alla sua memoria, nacque Gabriele D’Annunzio, figlio legittimo di Francesco Paolo Rapagnetta D’Annunzio e di Luisa De Benedictis. Non a bordo del brigantino Irene, come il Poeta fece credere allo Scarfoglio nel 1882 e come scrisse nel 1894 sulla «Revue de Paris», ma sulla terra ferma e venendosi a collocare in una situazione anagrafica che è facile chiarire, dopo molte inesattezze.
Nel 1825 un Camillo Rapagnetta d’illustre famiglia pescarese aveva preso in moglie Rita Olimpia Lolli, avvenente figlia del patriota e cospiratore antiborbonico Ottavio Lolli. L’altra sorella della Rita Olimpia, Anna Giuseppa, era andata sposa fin dal 1822 a un ricchissimo negoziante, Eleuterio Paziente, sessantasettenne, del quale rimase vedova dopo 14 anni di «fedele matrimonio», come afferma Amedeo Rapagnetta, biografo della sua famiglia.
L’anno stesso in cui morì il Paziente, Anna si risposò col facoltoso commerciante Antonio D’Annunzio, pescarese d’origine marchigiana, il quale, cumulando il patrimonio della vedova col suo, ampliò le attività commerciali alle quali si dedicava, facendosi armatore di brigantini e trabaccoli.
Pur passando da un marito stagionatissimo a un robusto trentacinquenne, Anna si mantenne sterile, mentre la sorella Rita si avviava alla sesta gravidanza. Anna propose allora alla sorella di adottare, se maschio, il nascituro promettendo di farlo erede di tutta la sua sostanza famigliare. A secondare il patto, il 20 ottobre 1838 nacque dai coniugi Rapagnetta un figlio, Francesco Paolo, che il 4 dicembre 1851 venne adottato dagli zii D’Annunzio a seguito di decreto emesso dalla Corte Civile dell’Aquila.
Il 3 maggio 1858, a vent’anni, quando Francesco Paolo Rapagnetta adottato D’Annunzio sposò Luisa De Benedictis, si firmò, nell’atto di matrimonio, «Francesco Paolo Rapagnetta D’Annunzio». Da allora, denunziando allo stato civile i figli che gli andavano nascendo, firmando atti pubblici o fornendo i propri dati anagrafici per ricevere onorificenze, Francesco Paolo, più volte sindaco di Pescara e consigliere provinciale, decise di lasciar cadere il suo cognome originario, a suo giudizio inutile se non addirittura ridicolo.
Ottant’anni dopo, nell’anno della morte di Gabriele D’Annunzio, il già nominato Amedeo Rapagnetta, in un opuscolo pubblicato a Lanciano, rivendicò alla sua famiglia l’onore che le derivava «da un sì grande uomo, nelle cui vene fluì il sangue sano e fervido dei Rapagnetta». Non prima, perché, come gli scriveva Camillo Antona-Traversi il 2 luglio 1934, «il Poeta vigila, e non ama si parli di Rapagnetta (...) Badi a non tirarsi addosso i suoi fulmini».
Discendente dal rispettabile casato dei Rapagnetta e adottato dal più stimato e ricco signore d’Abruzzo, Francesco Paolo veniva a trovarsi nelle condizioni più favorevoli per raggiungere una posizione di preminenza nella vita pescarese, nonostante la sua naturale inclinazione alla dissolutezza.
Educato in un collegio di Ortona e tenuto agli studi fino a diciott’anni, venne indirizzato dal padre adottivo alla cura dei cospicui interessi famigliari, ma con scarsi risultati, tanto che Antonio D’Annunzio nel suo testamento lo lasciò erede solo di una metà dei suoi beni, assegnando l’altra metà ai nipoti Gabriele e Antonio. Ma senza riuscire nell’intento di salvare il patrimonio, perché tanto il Poeta come il fratello Antonio delegarono l’amministrazione della loro eredità al padre, che da sperimentato dilapidatore riuscì a lasciarli presto in stato di nullatenenza.
Aitante ma alquanto pingue, bruno, colorito in viso, ampia la fronte, piccoli, neri e sorridenti gli occhi, d’indole irrequieta, don Ciccillo, com’era chiamato comunemente, a vent’anni sposò dunque Luisa De Benedictis, diciannovenne, di un casato signorile di Ortona.
Donna Luisa, entrata «con tutti gli onori» (C. Antona-Traversi) nella casa di via Manthoné, vi subì una sorte che era segnata nel suo volto accigliato e nella sua persona, «troppo gracile e spirituale per l’ardenza del marito». Ebbe cinque figli: nel 1859 Anna che andò sposa al possidente pescarese Nicola De Marinis, nel 1861 Elvira che sposò il farmacista Michele Luise, nel 1863 Gabriele, nel 1865 Ernesta che sposò l’ingegnere Antonino Liberi e nel 1867 Antonio, nel quale culminarono le peggiori qualità paterne, senza il contrappeso della estrosità, della quale parve impossessarsi con la sicurezza di un predestinato, il terzogenito Gabriele. «Non so perché» scriverà il Poeta nel 1913 parlando del padre «io già sapevo che il mio destino era il più forte e che dovevo esigere dai miei prossimi la devozione cieca e l’intero dono.» Quindi anche dalla madre, che santificò nel corso di tutta la sua opera letteraria e venerò dopo morta, ma delle cui pene tenne poco conto in vita, indifferente come fu sempre alle invocazioni del parentado, attivo in ogni tempo a richiedergli denaro e interventi che egli accordava o negava, in una alternativa di fedeltà alle origini e di insopportazione per quelli che in un momento d’irritazione arrivò a chiamare «parenti serpenti».
Sulla vita e sull’opera di D’Annunzio influì, fino ai suoi trent’anni, la presenza del padre, morto nel 1893 e subito dimenticato, e per quasi tutta la vita quella della madre, più discreta ma più insistente e ancora incombente dopo la sua scomparsa, che avvenne nel 1917. Con diversa ma non minore forza agirono su di lui l’ambiente abruzzese, la città e la casa nella quale aprì gli occhi alla vita.
L’Abruzzo era allora agreste e selvaggio, intatto nel suo secolare isolamento: Pescara, un borgo che l’omonima fiumara e un’eredità di rancori paesani divideva dal più grosso comune di Castellammare Adriatico.
Porto dei Vestini, dei Peligni e dei Marrucini nell’antichità e fin da allora oggetto di contese, nel 48-49 dopo Cristo, col nome di Aternum derivatogli dal suo fiume, divenne il punto d’arrivo della via Claudia-Valeria, prosecuzione della Tiburtina che lo congiungeva a Roma. Solo nell’Alto Medioevo il fiume Aternum prese il nome di Piscarius e lo trasmise al borgo che gli sedeva alla foce. Pescara ebbe labile storia durante l’Evo Medio. Dopo la dominazione sveva, angioina e aragonese, nel XV secolo fu infeudata ai D’Avalos. Carlo V vi costruì una fortezza che nel 1566 resistette agli assalti di 105 galee comandate da Pialy pascià. Dagli spagnoli passò agli austriaci alla fine della guerra di successione di Spagna. Poi, a partire dal 1734, quando Carlo III creò il regno delle Due Sicilie, ebbe inizio per Pescara e per l’Abruzzo la dominazione borbonica, contro la quale verso la fine del secolo si batté eroicamente ma inutilmente anche il pescarese Gabriele Manthoné, e che terminò solo l’indomani della spedizione dei Mille.
Quando nel 1860 Pescara passò col resto dell’Abruzzo sotto il regno di Vittorio Emanuele II, era un modesto borgo di 4557 abitanti, che salirono a 7043 nel 1901 e a 9630 nel 1921. Apparteneva alla provincia di Chieti e faceva parte del Collegio elettorale di Ortona, il collegio che nel 1897 mandò Gabriele D’Annunzio alla Camera come suo deputato.
Per far cosa grata al Poeta, il governo fascista cancellò dalla geografia la cittadina vicina e più grande di Castellammare, che con l’adiacente comune di Spoltore fu unita a Pescara, creata nel 1927 capoluogo di provincia. Oggi ha più di centomila abitanti e appare irta di condomini e di mezzi grattacieli alla cui ombra sopravvive, al di là del grande ponte in cemento armato che ha sostituito l’antico ponte in barche, un lembo della vecchia Pescara con quel che rimane, in via Manthoné, della casa natale del Poeta, monumento nazionale per deliberazione governativa del 1927.
La casa è un vecchio palazzotto a due piani di costruzione originariamente settecentesca, con le caratteristiche di una signorile dimora paesana. Ha la facciata sulla via Manthoné che era il corso principale della vecchia Pescara, ma l’entrata sulla via Mercato, ora via delle Caserme, verso i ruderi della fortezza borbonica. Dopo i parziali restauri voluti dal Poeta ed eseguiti dall’architetto del Vittoriale Gian Carlo Maroni, e qualche trasformazione precedente per adattare a botteghe il pianterreno, la casa non corrisponde se non vagamente alle descrizioni dannunziane. Resta, intatta, la camera della madre che il Poeta raccomandò al Maroni di rispettare, ma con pochi mobili e senza suppellettile. Dopo i saccheggi operati dai pescaresi il 25 luglio 1943 e poi dai tedeschi, non è più che un piccolo rarefatto museo, dov’è possibile rinvenire, di ciò che appartenne alla famiglia del Poeta, solo un caldano d’ottone, un inginocchiatoio, un leggio e qualche ritratto.
Possesso avito della famiglia D’Annunzio, fu la Villa del Fuoco, con qualche fondo vicino. Il Poeta vi andò molte volte da fanciullo e vi passò un lungo imeneo con Maria di Gallese. Suo padre vi si ritirò a vivere con l’ultima delle sue amanti. La casa, che era in aperta campagna, a qualche chilometro da Pescara, fu venduta all’asta in seguito al disastro patrimoniale che si palesò alla morte di don Ciccillo. Del possedimento e della villa, che doveva essere ubicata al numero 100 della via Salaria, oggi non vi è più traccia, se non nel nome di un sobborgo di Pescara sorto in quel punto, sopra i rustici edifici e le campagne celebrate nel Trionfo della morte. «Una villa solitaria in mezzo alla campagna vera» con delle «stanze messe molto chic e del vino odoroso e sottile», secondo quanto il Poeta scriveva al Sommaruga nel 1883.
Nato da un difficile parto, ma sanissimo e florido come lui stesso tenne a precisare, Gabriele crebbe vivace e forte sebbene minuto di corpo, in una casa ricca se non sfarzosa, tra stanze affrescate con scene mitologiche e dominate dai ritratti d’un Napoleone a cavallo e d’un Garibaldi avvolto nel poncho. Primo maschio dopo le due femmine che l’avevano preceduto, fu trattato come un piccolo re, idolatrato dal padre e amato teneramente dalla madre, in un fuoco di morbosi affetti, di superstizione e di eccessive tenerezze al quale davano esca, oltre ai genitori, i nonni, le due sorelle Anna ed Elvira, la zia Rosalba e la zia Maria: la «pinzochera», la «penitente domestica in cenere e cilicio» che egli ricordò più volte nei suoi scritti. Ma sopra le smancerie domestiche dominava l’amore orgoglioso e fanatico del padre, che avendone presentito in qualche modo il destino, covava gelosamente il figlio facendone un piccolo oracolo e arrivando per lui a trascurare non solo gli affari che del resto aveva sempre negletto, ma perfino le donne, sulle quali si gettava da sempre senza scelta, passando dalle signore della borghesia alle mogli degli impiegati, dalle contadine alle attricette di passaggio.
L’esempio di quel padre carnale, forte, prepotente e senza freni, che mangiava e beveva gagliardamente, che dormiva «come Polifemo dodici ore filate» (D’Aroma), destava l’ammirazione del giovanissimo Gabriele, ma preparava anche la violenta ostilità che il figlio doveva opporgli più tardi.
La morte dell’amato cavallo Aquilino nella scuderia di casa, il fattore Raffaele Campione con le sue quaglie prigioniere e la canna per rompere i nidi delle rondini, gli urli dei maiali scannati nella corte e il primo sangue che gli sgorgò da una ferita alla mano, gli fecero provare precocemente quello «spasimo dell’orrore» che coltivò tutta la vita come una ricchezza del suo temperamento e che gli suscitò quel potere di «trasfigurazione e di sublimazione», quel sentimento e bisogno del mistero senza dei quali non gli sembrava possibile attingere il suo ideale letterario e poetico.
Amici e idoli della sua infanzia furono il vecchio mendicante Pachiò, «marinaio invalido, a cui una untuosa benda copriva l’occhio destro infermo d’una infermità ributtante», e Cincinnato, un pittoresco deficiente che insieme a Pachiò gli consentiva di far mostra di una bontà e comprensione vagamente principesca verso gli umili e i diseredati.
L’episodio del piccolo Gabriele che si arrampica su un’imposta del poggiolo all’ultimo piano di casa per raggiungere la grondaia e sottrarre a un nido di rondini un ovetto da mostrare alla sorella, come una perla, sul palmo della mano, e il conseguente affannoso salvataggio operato in extremis dalla madre, diventerà, in uno scritto del Poeta, la dimostrazione di quanto egli sapesse sperimentare al vivo ogni moto dell’animo suo e ogni reazione altrui. Il padre, sopraggiunto, che preso da furore vorrebbe batterlo ma poi si china su di lui piangendo, vicino alla moglie che gli asciuga le lacrime pur avendone subìto e subendone continuamente patimento e offesa, gli presentano l’immagine di una unione d’amore ricreata per lui da quei due esseri così diversi che si erano congiunti solo per trasfondersi nella «sua» vita.
Poche le altre cose sicure sulla sua infanzia, oltre le gite in Abruzzo, sulla Maiella e al mare. Tutto il resto è fantasia di biografi. Tra gli amici d’infanzia e i compagni di giochi, sono da ricordare, oltre le sorelle e il fratello Antonio, Antonino Liberi, che poi divenne ingegnere e sposò sua sorella Ernestina, Enrico Seccia, futuro direttore dell’ufficio postale di Pescara e amico di Gabriele fin dai banchi di scuola, i cuginetti e don Filippo De Titta, forse il più importante di tutti anche se maggiore di lui una decina d’anni, poi insegnante a Sant’Eusanio del Sangro e morto nel 1926, che dovette influire non poco sul piccolo Gabriele, se in alcune biografie (Gatti) è presentato come suo «maestro» benché lo fosse solo nel senso che lo aiutò nei primi studi. Ai tre amici Liberi, Seccia e De Titta sono dedicate tre poesie del Primo vere.
Fra le amiche, Linda (Teodolinda), figlia del marchese Carlo Pomàrici di Castrovalve, un ex capitano dell’esercito borbonico. Linda aveva sette anni e secondo la totalità dei biografi fu il suo primo amore. Ma della Pomàrici si innamorò più tardi, a 17 o 18 anni, quando tornando dal collegio le scrisse qualche lettera dove si allude più che altro a sguardi e fuggevoli tocchi di dita, ai quali comunque la ragazza pose rapida fine con una risposta scritta che non lasciava adito a nessuna speranza.
I parenti di parte materna, i De Benedictis di Ortona, favoleggiati dal Poeta nelle pagine delle sue Faville, furono certo di sangue più sottile dei Rapagnetta, dal patriarca della casata, zi’ Mingo o donno Mingo, che vide appena spirato e che gli fornì la prima materia per i suoi futuri «studi sulla morte», allo zio Gaetanino e alla badessa Onufria, monaca e fattucchiera.
Gabriele ebbe qualche primo rudimento d’istruzione in una specie di asilo o scuola privata tenuta dalle sorelle Ermenegilda e Adele Del Gado, due candide bigotte che, pur straziate da lui nella novella Le Vergini dove appaiono come protagoniste di storie erotiche, morirono nel 1914 «liete dell’aureola di gloria che si rifletteva sulla loro testa canuta, di prime maestre e vecchie amiche del Poeta» (Amicucci).
Dopo le Del Gado, Francesco Paolo lo affidò prima al maestro Eliseo Morico e poi al maestro Giovanni Sisti, che gli fece completare le elementari e lo preparò agli esami di ammissione al ginnasio, iniziandolo anche a decisive letture, come quelle dei narratori italiani del ’500.
Il primo novembre 1874, a undici anni e otto mesi, Gabriele entrò al collegio Cicognini di Prato.
Capitolo II
1874-1878
Al momento dell’ingresso di D’Annunzio l’illustre collegio, attivo dal 1699, era passato dai Gesuiti ai secolari iniziando una serie di adattamenti, nel nome e nell’indirizzo educativo, che seguiva l’evoluzione politica della Toscana: Collegio Cicognini nel 1773, Real Collegio Cicognini fino al 1809, Imperial Collegio Cicognini sotto Napoleone, Imperial e Regio Collegio, dopo Napoleone e fino al 1859, poi Regio Istituto Cicognini, Real Collegio Cicognini, Regia Accademia Cicognini, e infine Regio Convitto Cicognini. «Gran seminario laicale istituito per isterilire e inaridire le più fervide semenze» secondo D’Annunzio, che tuttavia molti anni dopo vi inviò i figli Mario e Gabriellino, era in verità un ottimo istituto nel quale per sette anni il futuro vate poté formarsi intellettualmente, temprare il suo carattere esuberante e disciplinare le sue energie dirigendole verso una prima ma decisiva immagine di quella che sarà la sua figura d’uomo e di scrittore.
La scelta del Cicognini, fatta da Francesco Paolo D’Annunzio con rara intuizione e deliberato coraggio sulla scorta delle informazioni del suo amico fiorentino Francesco Coccolini e forse anche sapendo già accolto in quel collegio un altro giovane abruzzese, Lorenzo Incarnati aquilano, fu certamente determinante nel destino di Gabriele.
Col numero 53 di matricola, il Poeta vi cominciò a undici anni una nuova vita che lo staccò violentemente e con dolore dalla famiglia e dall’ambiente dov’era nato e cresciuto. La sua giornata di collegiale era scandita da un orario meticoloso. D’inverno il rullo di tamburo della sveglia si faceva sentire alle 6,30. Alle 7 i convittori andavano in cappella e poi a colazione. Alle 7,30 seguiva un’ora di studio, dopo la quale cominciavano le lezioni che duravano fino alle 12,30 con un breve intervallo alle 10,30 detto «sollievo». Pranzo, ricreazione, scherma e danza li occupavano fino alle 14. Alle 16, dopo altre due ore di lezione, le «cicogne» venivano portate a passeggio. Ore di studio e di ginnastica, cappella e cena seguivano fino alle 20,30. Alle 21 suonava il silenzio. A primavera la levata era anticipata di tre quarti d’ora e in estate di un’ora e un quarto.
A tutto questo il piccolo Gabriele aggiunse altre ore di studio e di lezioni facoltative: violino, tromba e pianoforte, disegno, pittura, francese e tedesco.
Il Cicognini, strutturato come un corpo militare, aveva i suoi effettivi divisi in due compagnie, con capitani, alfieri, sergenti e caporali. Arrivato alla seconda ginnasio, D’Annunzio fu promosso caporale della terza squadra. Vestiva, come gli altri, una divisa con giubba a dolman e relativi brandebourgs, cintura di cuoio lucido e galloni sulle maniche.
Il giorno successivo alla sua entrata in collegio sostenne un esame d’ammissione alla prima ginnasiale davanti a una...
Indice dei contenuti
- Copertina
- di Piero Chiara
- Vita di Gabriele D'Annunzio
- Introduzione di Federico Roncoroni
- Bibliografia della critica
- Nota al testo
- VITA DI GABRIELE D’ANNUNZIO
- Bibliografia
- Ringraziamenti
- Indice dei nomi
- Copyright