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L’idea venne al commissario la domenica mattina, un po’ prima delle nove, mentre andava in ufficio a piedi. Aveva già bevuto due caffè, ma la sua mente restava torpida, sfocata. Appena sveglio s’era messo a raccogliere, come dopo una festa finita male, i cocci sparsi dell’inchiesta, e camminando continuava a prenderli e lasciarli ricadere uno dopo l’altro, perduto nella loro spenta equivalenza. Niente gli diceva niente.
A dargli un aiuto nel suo solito modo negativo e circonlocutorio fu forse la città, spopolata e sprangata come in attesa dei barbari. Ma i barbari erano i cittadini stessi, dilagati verso i loro miraggi festivi; e la sistematica disciplina di strade e piazze deserte filtrò forse fino al commissario e, combinandosi col suo umore, gli accese dentro un senso, una fioca concessione, di affinità. Altre città regalavano al primo venuto splendori e incantamenti, esaltanti proiezioni verso il passato o l’avvenire, febbrili pulsazioni, squisiti stimoli e diversivi; altre ancora offrivano riparo, consolazione, convivialità immediate. Ma per chi, come lui, preferiva vivere senza montarsi la testa, Torino, doveva riconoscerlo, era tagliata e squadrata su misura. A nessuno, qui, era consentito farsi illusioni: ci si ritrovava sempre, secondo la feroce immagine dei nativi, al pian dii babi, al livello dei rospi. Si ripeté più volte la frase, con una specie di acre compiacimento: sapere, e mai dimenticare, di essere al pian dii babi; nient’altro, in fondo, pretendeva da te la città, che poi, una volta fatta la burbera tara del creato, stabilito il peso netto tuo e dell’universo, ti spalancava, se volevi profittarne, i suoi infiniti, deliranti spacchi prospettici. Così doveva vivere il Campi, divaricato consapevolmente tra buon senso e una lampeggiante demenza, tra le abnormi frontiere della Fiat e del Cottolengo; così, senza dubbio, viveva (se non era il Campi) l’assassino del Garrone e del Riviera, i quali a loro volta così erano, inconsapevolmente, vissuti.
In questo modo si formò, forse, l’idea; che non era nemmeno un’idea, e non certo un’illuminazione, ma l’accettazione, con una scrollata di spalle, di un vago suggerimento, una scelta spicciola. Tanto valeva, si disse il commissario facendo dietrofront, cominciare di lì.
La casa aveva, come mille altre a Torino, il probo decoro dei poveri vestiti per una cerimonia, dei sudditi meno abbienti e più fedeli schierati lungo un immenso viale da parata, ad attendere il corteo regale. Ma nessun corteo (era questo l’amaro segreto della città?) veniva mai, sarebbe mai venuto, il percorso era stato modificato all’ultimo momento, il cocchio, le piume, le fanfare, sarebbero sempre passati laggiù, oltre quei tetti, dietro quello spigolo. Dal balcone centrale di ogni piano, in corrispondenza del portone, sporgeva il sostegno arrugginito per esporre la bandiera nei giorni delle feste nazionali; e di tra le sbarre di tutte le ringhiere premevano rigogliosi e anonimi fogliami. Accanto al portone c’era un piccolo caffè con le sedie fuori, gemello del caffè di corso Belgio, e il commissario entrò, si fece dare dieci gettoni per telefonare a Novara, e infilato il primo cercò sull’elenco il numero di Anna Carla e telefonò invece a lei.
Una voce femminile con accento straniero (la bambinaia, probabilmente) gli disse di aspettare un momento, e dopo un momento lei venne all’apparecchio e gli chiese subito, ansiosamente, se c’era qualcosa di nuovo.
— Non ancora, — disse il commissario, — dobbiamo ancora controllare diversi particolari. E volevo appunto chiederle un’informazione: lei sa per caso se il Garrone e... — si fermò, cogliendo un’occhiata obliqua della donna intenta a sciacquare dei bicchieri dietro il banco — ... se l’architetto e quello... studioso quello che era con voi ieri mattina al Balùn...
— Il Bonetto? — disse lei.
— Sì, ecco. Sa se si conoscevano bene? Se erano amici?
— Non ho proprio idea. Può darsi, ma purtroppo io col Bonetto non ho mai avuto...
— Sì, capisco.
— Mi dispiace. Era importante?
— No, solo un’idea. — Lasciò passare due secondi. — Lei è in casa tutto il giorno?
— No, vado con Massimo a villa Campi, per colazione.
— Nel Monferrato?
— No, solo in collina. I suoi sono fuori, mio marito ha da fare tutto il giorno, e Massimo... be’, è piuttosto giù di corda, non gli andava di starsene tutta la domenica da solo, chiuso in casa. Pensavamo di avvertirla...
— Bene. Nel caso, chiamerò lì.
— C’è qualche speranza che oggi si risolva tutto? Le confesso che sia Massimo che io siamo piuttosto...
— Sì, me l’immagino, — interruppe il commissario, accorgendosi della propria bruschezza. — Ma oggi è domenica, e questo complica notevolmente le cose, per noi.
— Ho capito, — disse lei, con uguale bruschezza. — Comunque, sa dove trovarci.
Si salutarono su questa nota fredda, come se, pensò il commissario mentre saliva le scale della vecchia casa senza ascensore, la telefonata non fosse stata che un pretesto per “controllarla”, così trasparente da riuscire offensivo; e riflettendoci bene, lui stesso non era sicuro che non fosse stata davvero un pretesto. Ma di che genere? Era anche lui “giù di corda” e aveva voluto consolarsi col suono di quella voce? O invece qualche occulto, minimo ingranaggio era scattato in lui durante la notte, durante il sonno, e cominciava ora a trasmettere i primi, infallibili impulsi di sospetto? Il commissario, che non aveva molta pazienza con l’inconscio come strumento di lavoro, premette il campanello del quinto piano con superflua perentorietà.
Il cuore dell’americanista Bonetto saltò fino all’imbocco del palato, restò lì in bilico per una frazione di secondo, poi ricadde di schianto al suo posto. Chi poteva suonare a un’ora simile, di domenica mattina? Soltanto suo padre e sua madre, che per qualche ragione erano tornati dal paese in anticipo e nel cui letto matrimoniale, di noce scolpito a frutti e fiori, l’americanista Bonetto aveva passato la notte. Un balzo a piedi giunti, una corsa ad afferrare i pantaloni che la sera prima aveva fatto volare tre metri lontano: per terra, sotto il loro mucchio informe, scoprì un vasto reggiseno traforato.
— Giudafaus! — sacramentò sottovoce l’americanista Bonetto.
Tirò su l’indumento, lo guardò con astiosa disperazione: le due coppette sarebbero andate giuste giuste a un cammello. E lei di là, in bagno da mezz’ora. Cosa cribbio stava combinando? Se fosse stata già pronta e vestita, avrebbe potuto aiutarlo a rifare il letto in un baleno (ammesso che sapesse rifare un letto), precipitarsi nel suo studio, prendere un libro in mano, passare per una normale visitatrice, una vecchia amica americana appena sbarcata a Torino senza preavviso. I suoi, gente alla buona, poco sofisticata, l’avrebbero accolta con timidezza ma senza sospetto, sua madre si sarebbe piazzata subito in cucina a preparare la...
Il campanello suonò di nuovo, insistente, minaccioso.
— Damn! — imprecò l’americanista Bonetto, infilandosi convulsamente i pantaloni. — Damn! Damn!
Raddrizzò con vana furia un cuscino, e ci trovò sotto le mutandine (chiamale “ine”) di lei. Allora si fermò del tutto, bloccato da un nodo di panico e rimorso. Non se lo meritavano, con tutti i sacrifici che avevano fatto per farlo studiare; no, un dolore così non gliel’avrebbe mai dovuto dare. Okay, erano conservativi, erano pieni di pregiudizi, e per loro, il letto matrimoniale aveva delle connotazioni esagerate, quasi sacre. Ma arrivare da Piossasco e trovare la propria privacy, la propria intimità, profanata a quel modo... Come li avrebbe affrontati? Come avrebbe retto al “Oh, mipovradona!” di sua madre, allo sguardo genato di suo padre, che non poteva più prenderlo a cinghiate?
Lasciò ricadere le mutandine come una foglia d’autunno, e in quell’attimo capì di essersi fatto venire il magone per niente, uno stress inutile. Non erano loro. Loro avevano le chiavi, sarebbero entrati senza suonare. E la sua solita immaginazione...
Leggero, alato, senza neanche infilarsi i mocassini, andò in anticamera. Chi diavolo poteva essere, allora? Chi si permetteva di suonare con quell’insistenza sfacciata, e per di più la domenica mattina?
Un telegramma.
Del Marpioli.
Il quale, debitamente informato dal giovane Darbesio circa la conferenza di venerdì, gli mandava ora un qualche messaggio, o di codarda piaggeria, o di grossolano dispetto. In entrambi i casi, il godimento era assicurato.
L’americanista Bonetto spalancò impaziente la porta e si trovò di fronte non un uomo, ma una scritta luminosa che si accendeva e spegneva nel buio del pianerottolo: POLICE, diceva, POLICE, POLICE...
Indietreggiò come abbagliato, e il poliziotto di ieri, quello coi baffi, venne avanti.
— Buongiorno, professore, — disse. — Scusi se la disturbo a quest’ora, ma mi sono trovato a passare per caso di qui, e ho pensato di salire un momento. Speravo proprio di trovarla in casa.
Per caso, eh?, pensò l’americanista Bonetto dietro un sorriso del più bel verde. La sfacciataggine, l’improntitudine. C’era venuto apposta, per sorprenderlo, per coglierlo sul piede sbagliato, per intimidirlo, il dannato sbirro. Erano uguali in tutto il mondo, i dannati pigs. E questo, con la sua aria melliflua, l’aveva già messo in stato d’inferiorità, lasciando cadere derisivamente lo sguardo sulla sua canottiera sudata, sui suoi piedi nudi che emergevano dal fondo dei pantaloni sbottonati...
Da quello sguardo, e dalle torbide, semiesplorate correnti che, come tutti, l’americanista Bonetto ospitava dentro di sé, si destò il vento infrequente ma terribile della verità. Nulla gli resisteva. Efflorescenze, bambage, virgulti e foglie ornamentali, così come rami e scorze faticosamente elaborate negli anni, tutto cadeva sotto il suo soffio: in un istante, non restava che il tronco, un mero, spoglio, sperduto moncherino, intollerabile da contemplare. Due, tre volte all’anno, quel vento di tenebra veniva a schiacciare contro se stesso l’americanista Bonetto, che chinò la testa e articolò:
— Prego, si accomodi.
Nessuno – vide con scarnificante chiarezza – nessuno avrebbe alzato un dito per lui, non ci sarebbe stata nessuna lettera ai giornali, nessuna raccolta di firme, nessuna sollevazione internazionale, nessuna eco, nessun interesse. E questo perché lui era un nessuno: un poveraccio qualunque, implicato in una faccenda brutta e qualunque, dalla quale era meglio tenersi lontani. Così sarebbe andata, in realtà: foto formato tessera in cronaca, pianti di genitori e parenti, spese di avvocati, acidi pettegolezzi di studenti e colleghi... Sarebbe stato Marpioli a godere, a tener banco, simulando dolorosa costernazione, ipocrita incredulità. Ma come? Bonetto? Ma cosa mi dite? Ma è impossibile! Per me è innocente! Bisogna fare qualcosa!
E nessuno avrebbe fatto niente, nessuno si sarebbe sbilanciato, compromesso, sarebbero rimasti tutti quanti alla finestra. Innocente, sì, ma si poteva mai sapere? Dove c’è fumo c’è fuoco... E anche dopo, anche quando la polizia l’avesse rilasciato, l’ombra del sospetto l’avrebbe accompagnato per sempre, seguito dovunque... Bonetto: quello del Balùn. Bonetto? Ah, quello che era stato arrestato per quel delitto...
— L’ho disturbata, — disse il poliziotto, — perché volevo controllare un piccolo dettaglio, se lei ha un momento di tempo.
Piccolo dettaglio le balle! L’americanista Bonetto si accorse che in bocca gli si era accumulata una quantità inverosimile di saliva. La mandò giù con fatica.
— Ma senz’altro, — riuscì a dire, — senz’altro. Se vogliamo andare nel mio studio...
Lo fece sedere nell’unica poltrona, gli cercò un portacenere farfugliando qualcosa sulla fretta, sul telegramma, sulla camicia che non s’era infilato, ma che, se il commissario permetteva...
— Non stia a disturbarsi, professore, è questione di poco, — disse l’altro con un sorriso volpino. — È colpa mia, del resto. Ma lei sa che purtroppo ci tocca spesso passar sopra alla buona creanza, nel nostro lavoro.
La buona creanza delle SS. Perché era chiaro che...