Una stanza vasta e luminosa, aperta su una loggia balaustrata che si protende verso l’antica città dei Pelopidi. Il piano della loggia si eleva sul pavimento della stanza per cinque gradini di pietra disposti in forma di piramide tronca, come dinanzi al pronao d’un tempio. Due colonne doriche sorreggono l’architrave. S’intravede pel vano l’Acropoli con le sue venerande mura ciclopiche interrotte dalla Porta dei Leoni. In ciascuna parete laterale della stanza sono due usci che conducono agli appartamenti interni e alla scalinata. Una grande tavola è ingombra di carte, di libri, di statuette, di vasi. Ovunque, lungo le pareti, negli spazii liberi sono adunati calchi di statue, di bassi rilievi, di iscrizioni, di frammenti scultorii: testimonianze d’una vita remota, vestigi d’una bellezza scomparsa. L’adunazione di tutte queste cose bianche dà alla stanza un aspetto chiaro e rigido, quasi sepolcrale, nell’immobilità della luce mattutina.
SCENA PRIMA4
Anna seduta su l’ultimo dei gradini salienti alla loggia, con la testa poggiata al fusto d’una colonna, ascolta in silenzio Bianca Maria che legge. La Nutrice sta seduta su un gradino più basso, ai piedi dell’ascoltatrice, in un’attitudine inerte, come una schiava longanime. Bianca Maria è in piedi, addossata all’altra colonna, vestita d’una specie di tunica semplice e armoniosa come un peplo. Ella, tenendo tra le mani un libro aperto – l’Antigone di Sofocle –, legge con voce lenta e grave, in cui trema a quando a quando un turbamento indefinito che non sfugge all’ascoltante. I segni dell’inquietudine e dell’ansia vanno via via animando l’attenzione di costei.
BIANCA MARIA
leggendo.
«Eros nella pugna invitto,
«Eros, che precipiti le fortune,
«che su le molli gote
«della vergine ti poni in agguato,
«che erri oltremare e per le capanne agresti!
«E nessuno tra gli Immortali può fuggirti
«e nessuno tra gli uomini efimeri, e chi ti ha è furente.
«Tu dei giusti i traviati
«spiriti volgi alla ruina;
«e tu anche a questa lite
«incitasti i consanguinei.
«Vince la chiara lusinga degli occhi d’una sposa
«dilettosa, in contrasto alle grandi leggi.
«Insuperabile irride la dea Afrodita.
«Ed io medesimo già fuor delle leggi
«son tratto, questo vedendo; né ritenere
«più oltre io posso le fonti delle lacrime
«vedendo verso il talamo che tutto sopisce
«avanzarsi questa Antigone.
Antigone.
«Vedete me, o cittadini della terra paterna,
«nell’ultima via
«entrare, l’ultimo splendore
«del sole rimirare,
«e quindi innanzi mai più! Ade, che tutto sopisce, viva mi conduce
«al lido di Acheronte,
«e priva delle nozze.
«Non l’inno nuziale mai
«mi cantò; ché io sposerò Acheronte…»
La lettrice si interrompe, come soffocata. Il libro vacilla nelle sue mani.
ANNA
Siete stanca di leggere, Bianca Maria?
BIANCA MARIA
Forse un poco stanca… Questa primavera moribonda è già così ardente che dà la stanchezza e la soffocazione, come la grande estate… Non la sentite anche voi, Anna?
Ella chiude il libro.
ANNA
Avete chiuso il libro?
BIANCA MARIA
L’ho chiuso.
Una pausa.
ANNA
C’è molta luce nella stanza?
BIANCA MARIA
Sì, molta.
ANNA
C’è il sole su la loggia?
BIANCA MARIA
Già discende per la colonna, sta per toccare la vostra nuca.
ANNA
solleva una mano per toccare la colonna.
Ecco, lo sento. Com’è tiepida la pietra! Mi sembra di toccare una cosa viva… Siete voi nel sole, Bianca Maria? Una volta, quando tenevo contro i raggi i miei occhi morti, con le palpebre aperte, vedevo come un vapore rosso, appena distinto, o di tratto in tratto una scintillazione simile a quella che dànno le selci dure, quasi dolorosa… Ora, più nulla: l’oscurità perfetta.
BIANCA MARIA
E i vostri occhi sono pur sempre belli e puri, Anna; e la mattina sono pieni di freschezza, come se il sonno per loro fosse una rugiada.
ANNA
si copre gli occhi con ambe le palme poggiando i gomiti su le ginocchia.
Ah, il risveglio, ogni mattina, che orrore! Quasi tutte le notti io sogno che ci vedo, sogno che una vista miracolosa m’è venuta nelle pupille… E risvegliarsi sempre nelle tenebre, sempre nel buio… Se vi dicessi la peggiore delle mie tristezze, Bianca Maria! Quasi di tutte le cose io mi ricordo, delle cose già vedute nel tempo della luce: io mi ricordo delle loro forme, dei loro colori, delle più minute loro particolarità; e le loro imagini intere mi sorgono nel buio se appena io le sfiori con le mani. Ma della mia persona io non ho se non un ricordo confuso come d’una defunta. Una grande ombra è caduta su la mia imagine; il tempo l’ha offuscata, come offusca in noi le figure di coloro che sono scomparsi. Il mio viso è vanito per me come il viso dei miei cari sepolti… Ogni sforzo è vano. So bene che il viso ch’io riesco ad evocare finalmente, non è il mio viso. Ah, che tristezza! Di’ tu, nutrice, quante volte io t’ho pregata di condurmi davanti allo specchio. Son rimasta là con la fronte contro il cristallo a ricordarmi, tenuta da non so quale aspettazione insensata… E quante volte anche mi comprimo il viso con le palme – così, come ora – per coglierne l’impronta nella sensibilità delle mie mani. Ah, qualche volta mi sembra veramente di portare impressa nelle mie mani la mia maschera fedele come quella che si ricava col gesso dai cadaveri; ma è una maschera inerte.
Lentamente ella si scopre il viso e protende le palme concave.
Comprendete voi l’atrocità di questa tristezza?
BIANCA MARIA
Come siete bella, Anna!
ANNA
La notte scorsa, ho fatto un sogno strano, indescrivibile. Una vecchiezza improvvisa mi occupava tutte le membra; sentivo su tutta la persona i solchi delle rughe; sentivo i capelli cadermi dal capo a grandi ciocche sul grembo, e le mie dita vi s’impigliavano come in matasse disciolte; le mie gengive si vuotavano e le mie labbra v’aderivano molli; e tutto in me diventava informe e miserabile. Io diventavo simile a una vecchia mendicante che m’è nella memoria: a una povera idiota ch’io vedevo tutti i giorni – quando ero ancóra nella mia casa e mia madre era ancóra viva – tutti i giorni davanti al cancello del giardino… Te ne ricordi tu, nutrice? Si chiamava la Simona; e balbettava sempre una stessa canzone sperando di farmi sorridere… Che strano sogno! E pure risponde a un sentimento penoso ch’io ho del mio essere, qualche volta, se odo scorrere la vita… Nel silenzio e nel...