
- 444 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La tredicesima storia
Informazioni su questo libro
Margaret Lea è una giovane libraia antiquaria che, negli anni trascorsi con il padre tra pagine immortali e volumi sepolti dall'oblio, ha coltivato una quieta passione per le biografie letterarie in cui di tanto in tanto si cimenta. La sua prevedibile esistenza viene sconvolta il giorno in cui Vida Winter, sfuggente e carismatica scrittrice alla fine dei suoi giorni, la incarica di scrivere la sua biografia ufficiale. Margaret parte alla volta dell'isolata magione dell'anziana autrice, nelle campagne dello Yorkshire, e rimane immediatamente stregata dalle vicende della singolare famiglia Angelfield e dalla sorte di un misterioso racconto che Vida Winter non ha mai voluto pubblicare... La tredicesima storia dipana così davanti agli occhi del lettore non solo il tempestoso trascorrere di esistenze avvolte dal segreto, ma anche la complessa, intensissima amicizia tra due donne di differenti generazioni che, dietro la magica finzione del narrare, troveranno l'una nell'altra verità su se stesse a cui mai sarebbero potute arrivare da sole.
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Informazioni
PARTI CENTRALI
Arriva Hester
Avevo lasciato lo Yorkshire nel pieno di novembre; quando tornai, il mese era agli sgoccioli, sul punto di capitolare a dicembre.
Dicembre mi scatena il mal di testa e riduce un appetito già di per sé scarso. Rende le mie letture inquiete. Quel suo buio gelido e umido mi tiene sveglia la notte. C’è un orologio dentro di me che comincia a ticchettare il primo di dicembre scandendo il conto alla rovescia dei giorni, delle ore, dei minuti che mi separano da un certo giorno, la ricorrenza del giorno che ha visto creare e distruggere la mia vita: il mio compleanno. Dicembre non mi piace.
Il clima di quell’anno peggiorò il senso di profezia. La casa era gravata da un cielo opprimente che ci sprofondava tutti in un cupo crepuscolo perenne. Arrivando trovai Judith che correva da una stanza all’altra raccogliendo lampade da scrittoio, lampade normali e lampade da lettura dalle camere degli ospiti mai utilizzate e distribuendole fra la biblioteca, il salotto e le mie stanze. Tutto pur di tenere a bada il grigiore caliginoso appostato in ogni angolo, sotto ogni sedia, nelle pieghe delle tende e nelle crespe delle imbottiture.
Miss Winter non fece domande sulla mia assenza; né mi ragguagliò sull’andamento della malattia anche se, nonostante la brevità della mia assenza, era visibilmente peggiorata. Le pieghe del cachemire che avvolgevano il fisico rimpicciolito ricadevano come fossero vuote, i rubini e gli smeraldi sembravano essersi dilatati sulle dita, tanto le mani erano dimagrite. La sottile linea bianca che prima di partire avevo intravisto nella scriminatura si era allargata; strisciava lungo ogni capello, stemperando i toni metallici in un arancione attutito. Eppure, malgrado la fragilità fisica, sembrava piena di una forza, di un’energia che sopravanzavano l’età e la malattia conferendole grande vigore. Quando mi presentai nella stanza non feci quasi in tempo a sedermi e a tirare fuori il notes, che subito attaccò a parlare, riprendendo la storia da dove l’aveva interrotta, come se fosse sul punto di traboccare e non riuscisse a trattenerla un istante di più.
*
Ora che non c’era più Isabelle, il paese si convinse che bisognava fare qualcosa per le bambine. Avevano tredici anni; non era età in cui abbandonarle a se stesse; non potevano fare a meno di una figura femminile. Non era forse il caso di mandarle a scuola? Ma quale scuola avrebbe accolto due bambine così? Esclusa perciò la scuola, si decise di assumere una governante.
E trovarono la governante. Si chiamava Hester. Hester Barrow. Non era certo un bel nome. Ma del resto lei non era una bella ragazza.
Fu il dottor Maudsley a predisporre tutto. Charlie, chiuso nel suo dolore, non si accorse quasi di quanto stava succedendo, mentre John-the-dig e la tata, che erano solo la servitù, non vennero neppure interpellati. Il dottore si mise in contatto con Mr Lowe, l’avvocato di famiglia, e i due, forti del sostegno del direttore della banca, presero tutti i provvedimenti necessari. Era cosa fatta.
Impotenti, passivi, noi eravamo accomunati dalla curiosità, ciascuno con un misto di emozioni tutto suo. La tata era combattuta. Provava un’istintiva diffidenza nei confronti dell’estranea che stava per invadere il suo territorio, una diffidenza unita al timore di essere colta in fallo, perché svolgeva quell’incarico da anni ed era perfettamente consapevole dei propri limiti. Ma nutriva anche qualche speranza. Sperava che la nuova arrivata inculcasse nelle bambine il senso della disciplina e ripristinasse le buone maniere e l’equilibrio mentale in quella casa. Anzi, era tale il suo desiderio di una vita domestica stabile e regolata che, in previsione dell’arrivo della governante, prese a impartirci ordini come se fossimo tipi da darle retta. Inutile dire che non ce ne accorgemmo nemmeno.
I sentimenti di John-the-dig erano meno discordanti, o meglio, erano totalmente ostili. Non si lasciava coinvolgere nei lunghi vagheggiamenti della tata su come sarebbero cambiate le cose e rifiutava con un silenzio ostinato di incoraggiare l’ottimismo pronto a mettere radici nel cuore di lei. «Se si rivelasse il tipo di persona giusta...» diceva la tata, oppure: «Le cose potrebbero andare decisamente meglio...» ma lui fissava fuori dalla finestra della cucina senza lasciarsi coinvolgere. Quando il dottore gli propose di andare a prendere la governante alla stazione con la carrozza, lui fu veramente sgarbato. «Non ho tempo di scarrozzare una maestrina del cavolo per tutta la contea» replicò, costringendo il dottore a organizzarsi per andarla a prendere lui stesso. Dopo l’episodio nel giardino ornamentale John non era più lo stesso e ora, in prospettiva di quel nuovo cambiamento, stava ore e ore da solo a rimuginare sui timori e le preoccupazioni che si prospettava in futuro. La nuova arrivata significava un nuovo paio d’occhi e un nuovo paio d’orecchie in una casa dove nessuno guardava né ascoltava per davvero da anni. John-the-dig, abituato ai segreti, presagiva guai.
Eravamo tutti demoralizzati, ciascuno a suo modo. Tutti tranne Charlie. Quando giunse il gran giorno, fu l’unico a restare uguale a se stesso. Stava barricato e nascosto, ma ogni tanto la casa era scossa da un boato o da un fragore che tradivano la sua presenza, e noi ci eravamo talmente abituati a quel fracasso da non farci quasi caso. La sua veglia per Isabelle gli aveva fatto perdere la cognizione del tempo e l’arrivo di una governante per lui cambiava ben poco.
Quella mattina eravamo in una stanza del primo piano a bamboleggiarci. In una stanza da letto, per la precisione, se solo si fosse potuto scorgere il letto sotto la pila di ciarpame che si era accumulato, come sempre il ciarpame, nel corso dei decenni. Emmeline staccava con le unghie i fili argentati del ricamo che decorava le tende. Quando riusciva a liberarne uno, lo infilava furtivamente in tasca pronta ad aggiungerlo più tardi alla collezione da gazza ladra che teneva sotto il letto. Ma perse la concentrazione. Stava arrivando qualcuno e, che si rendesse conto o meno di ciò che questo comportava, Emmeline si era lasciata condizionare dal clima di attesa che aleggiava in tutta la casa.
Fu lei la prima a sentire la carrozza. Dalla finestra vedemmo la nuova arrivata smontare, assestare le pieghe della gonna con due colpi decisi dei palmi e dare un’occhiata attorno. Guardò la porta d’ingresso, poi a sinistra, poi a destra e poi – io mi ritrassi di scatto – in alto. Forse ci scambiò per un gioco di luce o per una tenda mossa dal vento che entrava da un vetro rotto. Sta di fatto che non poteva vederci.
Noi, però, vedemmo lei. La fissammo dal nuovo buco che Emmeline aveva praticato nella tenda. Non sapevamo che cosa pensare. Hester era di statura media. Di corporatura media. I capelli non erano biondi né castani. La pelle, dello stesso colore. Soprabito, scarpe, vestito, cappello: tutto della stessa tonalità indefinita. Il viso era privo di qualsiasi tratto peculiare. Eppure stavamo lì a fissarla. La fissammo fino a sentire gli occhi indolenzirsi. Ogni poro di quel viso piccolo e bruttino era illuminato. Qualcosa riluceva in quegli abiti e in quei capelli. Qualcosa si irraggiava da quel bagaglio. Qualcosa proiettava un bagliore intorno alla sua persona, come una lampadina. Qualcosa la rendeva esotica.
Non avevamo idea di che cosa fosse. Non avevamo mai immaginato niente di simile.
In seguito, però, lo scoprimmo.
Hester era pulita. Strofinata, insaponata, sciacquata e tirata a lucido in ogni sua parte.
Non è difficile immaginare l’idea che si fece di Angelfield.
Aveva messo piede in casa da un quarto d’ora quando mandò la tata a chiamarci. Noi facemmo orecchie da mercante, in attesa di vedere che cosa sarebbe successo. E aspettammo. Aspettammo. Non successe niente. Fu quello il primo tiro mancino che ci giocò, ma noi non potevamo saperlo. La nostra abilità nel nasconderci serviva a ben poco se lei non veniva a cercarci. E lei non venne. Restammo a ciondolare per la stanza, sempre più annoiate, poi torturate dalla curiosità che germinava in noi nostro malgrado. Tendevamo l’orecchio a ogni rumore provenisse dal piano di sotto: la voce di John-the-dig, i mobili che venivano spostati, qualche colpo battuto qua e là. Poi tutto tacque. A pranzo ci mandò a chiamare e noi non andammo. Alle sei la tata ci chiamò di nuovo: «Venite a cenare con la nuova governante, bambine». Noi restammo in camera. Non venne nessuno. Si affacciava in noi la sensazione che la nuova arrivata fosse una forza da non sottovalutare.
Più tardi capimmo dai rumori che in casa si preparavano per la notte. Passi lungo le scale, la tata che diceva: «Mi auguro che stia comoda, Miss» e la voce della governante, acciaio nel velluto: «Senz’altro, Mrs Dunne. Grazie per il disturbo».
«Quanto alle bambine, Miss Barrow...»
«Non si preoccupi per loro, Mrs Dunne. Staranno benissimo. Buonanotte.»
E, dopo il cauto trascinarsi di passi della tata giù per le scale, il silenzio.
Venne la notte e tutti si addormentarono. All’infuori di noi. I tentativi della tata di insegnarci che la notte era fatta per dormire erano miseramente falliti al pari di tutte le sue lezioni, e il buio non ci faceva alcuna paura. Accostando l’orecchio alla porta della governante udimmo solo il fievole raspare di un topo sotto le assi del pavimento, così scendemmo nella dispensa al piano di sotto.
La porta non si apriva. Mai in vita nostra avevamo visto usare quella serratura, tradita quella sera da una traccia di olio fresco.
Emmeline, come sempre, aspettava paziente e inespressiva che la porta si aprisse. Sicura che da lì a un attimo avrebbe attinto a pane, burro e prosciutto.
Non era il caso di farsi prendere dal panico. La tasca del grembiule della tata. Lì avremmo trovato la chiave. Lì erano sempre state: chiavi arrugginite e inutilizzate, tenute insieme da un anello, che aprivano le porte, le serrature e gli armadi di tutta la casa con un incalcolabile spreco di tempo per scoprire a quale serratura corrispondessero.
La tasca era vuota.
Emmeline si mosse, chiedendosi vagamente il perché di quel ritardo.
La governante cominciava ad assumere i tratti di una vera minaccia. Ma non era certo quello il sistema per farci cadere in trappola. Saremmo uscite. Potevamo sempre intrufolarci in un cottage e fare uno spuntino.
La maniglia della cucina girò, poi si arrestò. C’era poco da scuotere e tirare: era chiusa con un lucchetto.
C’erano delle assi inchiodate alla finestra rotta del salotto e le persiane della sala da pranzo erano chiuse a dovere. Restava un’ultima possibilità. Infilammo l’ingresso puntando verso la grande porta a due battenti. Emmeline, sconcertata, mi seguiva in punta di piedi. Aveva fame. Cos’era tutto quel trafficare con porte e finestre? Quando sarebbe riuscita a riempirsi finalmente la pancia? Uno strale di luce lunare, tinteggiato d’azzurro dai vetri colorati alle finestre dell’ingresso, bastò a illuminare gli enormi chiavistelli, pesanti e irraggiungibili, che erano stati oliati e fatti scivolare al loro posto in cima alla porta a due battenti.
Eravamo imprigionate.
Emmeline parlò. «Gnam, gnam» disse. Aveva fame. E quando Emmeline aveva fame, Emmeline doveva mangiare. C’era poco da fare. Eravamo nei guai. Il misero cervellino di Emmeline ci mise un bel po’, ma alla fine capì che non era possibile procurarsi il cibo da lei tanto agognato. Negli occhi le comparve uno sguardo attonito, poi aprì la bocca e cacciò un urlo.
Il rumore di quel grido salì le scale, svoltò nel corridoio a sinistra, montò un’altra rampa e si insinuò sotto la porta della camera dove dormiva la nuova governante.
Subito l’accompagnò un altro rumore. Non il passo cieco e trascinato della tata, bensì quello energico e scandito di Hester Barrow. Un tic, tic, tic vivace, senza fretta. Scese una rampa di scale, percorse il corridoio, raggiunse il ballatoio.
Io mi rifugiai nelle pieghe della lunga tenda un attimo prima che comparisse sul pianerottolo. Era mezzanotte. Si fermò in cima alle scale, una figuretta soda, né grassa né magra, piantata su un paio di gambe robuste, quell’espressione calma e decisa a sormontare il tutto. La vestaglia azzurra saldamente legata in vita e i capelli ben pettinati, sembrava che avesse dormito seduta e fosse pronta per un nuovo mattino. I capelli radi stavano appiccicati alla testa, il viso era volgarotto e il naso piccolo e tozzo. Era bruttina, per non dire decisamente brutta, ma su Hester la bruttezza non produceva nemmeno lontanamente l’effetto che aveva su qualsiasi altra donna. Lei attirava gli sguardi.
Emmeline, che fino a un attimo prima aveva singhiozzato per la fame ai piedi delle scale, non appena vide comparire Hester in tutto il suo splendore smise istantaneamente di piangere e rimase a fissarla come pacificata, quasi le fosse comparso davanti un vassoio stracolmo di dolci.
«Che piacere conoscerti» disse Hester scendendo le scale. «Tu chi sei, Adeline o Emmeline?»
Emmeline, la bocca aperta, rimase in silenzio.
«Non importa» disse la governante. «Ti va un po’ di minestra? E dov’è tua sorella? Ne vorrà un po’ anche lei?»
«Gnam» disse Emmeline, non so se stimolata dalla parola minestra o dalla stessa Hester.
Hester si guardò attorno, cercando l’altra gemella. La tenda dovette sembrarle una semplice tenda perché, data una rapida occhiata, rivolse tutta la sua attenzione a Emmeline. «Vieni con me» le disse sorridendo. Sfilò una chiave dalla tasca cerulea. Era di un limpido azzurro argenteo e, lucidata alla perfezione, emanava un allettante luccichio alla luce cilestrina.
Il trucco funzionò. «Luccica» disse Emmeline e, senza sapere cosa fosse né le magie che era capace di operare, seguì quella chiave – e Hester – risalendo i freddi corridoi che conducevano in cucina.
Tra le pieghe della tenda, i miei morsi della fame si trasformarono in rabbia. Hester e quella sua chiave! Emmeline! Ci risiamo, mi dissi, come con la carrozzina: era amore.
Quella fu la prima sera, e Hester l’ebbe vinta.
Il sudiciume della casa non intaccò la nostra immacolata governante come ci si poteva aspettare. Semmai il contrario...
Indice dei contenuti
- Copertina
- La tredicesima storia
- INIZI
- PARTI CENTRALI
- FINALI
- INIZI
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