Se domani farà bel tempo
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Se domani farà bel tempo

  1. 308 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Se domani farà bel tempo

Informazioni su questo libro

Si chiama Leonardo, ma per tutti è Leon. Ventisette anni, scuole svizzere, master alla Bocconi, una famiglia importante, una madre pesante, un padre assente. Case sparse in posti mai casuali: St Moritz, Bellagio, Portofino, Ibiza. Beve come una spugna, tira di coca, naturalmente non lavora, sopravvive nella sua gabbia dorata e ha una ragazza-bene che lo ama da troppo tempo, Anita, e lo lascia nelle prime pagine di questo romanzo. È il primo grande no nella vita di Leon, e lui reagisce istintivamente decidendo di trascorrere alcuni giorni nella campagna toscana, ospite della Fattoria del Colle, alla vigilia di quella che si preannuncia una grande vendemmia. Scettico - ma soprattutto viziato - Leon si confronta con una realtà di cui non si era mai reso conto. Basterà a redimersi?
Con Se domani farà bel tempo Luca Bianchini ci racconta il jet set di oggi, mettendo in evidenza con ironia e cinismo tutti i tic e le debolezze di un rampollo speciale: bello, dannato e dannatamente sensibile, vittima e carnefice della sua stessa vita.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804579847
eBook ISBN
9788852041884

1

Se proprio devi morire, è meglio farlo guidando una Cadillac Eldorado.
Mia madre me lo ripete ogni giorno. Peccato che noi non abbiamo mai avuto una Cadillac. A casa nostra abbiamo distrutto solo Mercedes, le migliori, due Porsche, una Lamborghini Diablo, un’Aston Martin e il mio Maggiolino, tre volte. Ah, naturalmente anche la Panda per il personale di servizio, quando la prendevo di nascosto prima di avere la patente. Mia madre vuole che i camerieri abbiano sempre un’auto riconoscibile, e ha scelto il Pandino perché crede che metta loro allegria.
Come avrete capito, siamo una famiglia che ama la velocità, le belle macchine e le buone maniere. La capofamiglia, in particolare: potrebbe scrivere un saggio sul cenno con cui a tavola rifiuta da bere, anche se è un gesto che non compie quasi mai. E il modo in cui si asciuga la bocca prima di sorseggiare il suo Chevalier-Montrachet? Impeccabile e insopportabile, come è lei la maggior parte del tempo.
Ma non l’ho mai odiata quanto quella mattina, quando spalancò la porta di camera mia e mi trovò con la sigaretta accesa e gli occhi spenti. Ero veramente sotto, sottissimo, e lei riuscì a farmi solo un’unica, drammatica domanda:
– Ti hanno di nuovo ritirato la patente?
Non le interessava la risposta – in cuor suo forse sapeva che era una domanda del cazzo – ma in quel momento aveva una fremente priorità: l’open day a scuola di Maria Lorena, la mia sorellina-sorellastra. Sette anni e mezzo, erre moscia come la mia, apparecchio colorato, un’ammirazione proibita per le Winx, una chiara inattitudine per la danza classica e tendenza a parlare di soldi come quel tirchio di suo padre. Però, in fondo, ho sempre voluto bene alla mia Lola, e le avevo promesso che sarei andato a vederla al suo ultimo giorno all’International School. Lei e i compagni avevano fatto con le loro manine oggetti che sarebbero stati battuti all’asta fra i genitori. Profitti in beneficenza per la costruzione di una scuola in Africa, sai che novità.
Era una mattina di giugno senza sole, con grandi nuvole che intasavano il cielo di Milano come il traffico cittadino. Io avevo un solo, grande desiderio: essere investito da una macchina appena uscito di casa, magari una Cadillac Eldorado. Quella sì che sarebbe stata una morte grandiosa. Poi vedere mia madre che mi scorge dalla finestra con il gessetto bianco intorno, e mi piange per un attimo da lì, prima di pensare a quale cappello mettersi per il funerale. E poi cosa scrivere sui biglietti di ringraziamento? E come dare l’annuncio ai giornali per fare sapere che “non fiori, ma opere di bene alla Rockefeller Foundation”? Uh, quanti problemi se muoio, per una madre come la mia.
Anita mi aveva lasciato quella mattina. Dopo tre anni, due mesi, sette giorni e una manciata di ore, forse sei. E sentivo che non sarebbe più tornata indietro. Me n’ero accorto dal modo in cui aveva chiuso la porta, senza un attimo d’indecisione, senza nervosismi, senza nessun cedimento delle gambe. Un colpo secco e stop, il passato alle spalle.
Aveva trovato un sasso nel bagno, la sera prima. Era andata su tutte le furie, delusa e alterata come ogni volta che una discussione si ripete – quando si litiga spesso, si litiga sempre con le stesse dinamiche, con le medesime pause – e mi aveva supplicato di lasciarlo lì, quel sasso, almeno per un giorno.
Non c’ero riuscito. Non ci sarei mai riuscito.
Al mattino, dopo una notte insonne per entrambi, aveva fatto un’inutile doccia di riflessione, si era preparata per andare a catalogare i suoi Pistoletto da Sotheby’s e mi aveva detto:
– Non siamo più uguali, Leon.
Io ero troppo fatto per capire, prima che per dire qualcosa, e le avevo risposto “’fanculo-tu-e-i-tuoi-quadri” senza conoscere il significato di quella sequenza. Avevo un gran mal di testa per starmi a sentire, e soprattutto per ascoltare il suo addio senza lacrime. Ma quando un paio d’ore dopo ho rivisto la foto farsi più nitida, ho capito che Anita non sarebbe più tornata sui suoi passi. Ed è stato lì che gli Stones hanno iniziato a cantare Angie nella mia testa. Ed è stato lì che mia madre ha fatto irruzione in stanza con il fottutissimo open day di Lola.
– Per l’asta dei ragazzi ci raggiunge anche Pierandrea, perciò vedi di ricomporti che tra poco passa a prenderci Amedeo. Quindi, anche se non hai la patente, non importa.
– …
– E ricordati la camicia.
Ventisette anni. Ventisette anni a sentire “ricordati-la-camicia” e non sapere mai come ribattere. Mi guardai allo specchio cercando di ricompormi. Le regole, innanzitutto le regole. Le regole che mi avevano tramandato, quelle che mi avevano schiacciato. Le regole che mi avevano permesso fino a quel giorno di non lavorare.
Vivere era il mio lavoro, ed era un lavoro che non mi piaceva più di tanto. Soprattutto quella mattina di giugno – maledetto giugno, che dio ti fulmini e ti trasformi in un novembre piovoso che nemmeno l’Irlanda – in cui a tutto avrei voluto pensare tranne che vedere mia madre a un’asta delle scuole elementari. Conoscete punizione peggiore per uno che è appena stato lasciato dalla donna più bella di Milano? A parte restare bloccati in ascensore con un portavoce del Vaticano, intendo. Ma alla fine la camicia la misi. Una camicia di Caraceni con le mie belle iniziali ricamate tono su tono: LSD. Leonardo Sala Dugnani. Leon per gli amici (con l’accento sulla “o”, alla francese).
Un ragazzo smarrito davanti a se stesso, questo ero, ma ancora in grado di ammettere il proprio sex appeal. Ora, non perché sia io, ma non si può proprio dire che sono un brutto ragazzo: ho occhi chiari, un naso appena deviato, capelli corti e scuri che taglio da solo, quasi a scodella, due fossette che m’illuminano il sorriso, un fisico tonico e tre tatuaggi. Fossi una donna, cederei subito al mio fascino, insomma. A meno che scoprissi il significato del mio tatuaggio preferito, una specie di simbolo orientale che per anni ho creduto volesse dire “lunga vita felice”. In realtà, una volta un cinese mi rivelò che significava “nuvolette di drago a tremila lire”.
Ancora adesso non riesco a farmene una ragione.

2

Uscii da via Borgonuovo senza che nessuna macchina m’investisse.
Neppure una delle limousine che a volte si dirigono verso il quartier generale di Armani, un po’ di portoni più in là. Niente, sembrava che quel giorno ci fosse il blocco del traffico e tutti se ne andassero a piedi per rispetto del pianeta. A esclusione di Amedeo, naturalmente, il compagno di mia madre, che merita pochissima della mia attenzione, ma una cosa va detta: se lui è arrivato a rovinare la vita di mamma – la tratta male, non la porta mai fuori a cena e per l’anniversario le ha regalato un puzzle – la colpa è di mio fratello Pierandrea. Pier, per tutti noi. È stato lui l’artefice del loro nobilissimo sentimento. Fresco di laurea in giurisprudenza a Londra con master annesso, mia madre aveva pensato bene di piazzarlo a Milano contattando il suo primo, storico fidanzato: Amedeo Bellasi, uno degli architetti più quotati in città, con tanto di cattedra all’università e studio affermato a Parigi.
Mi rendo conto che la logica, in quella chiamata di mia madre, non c’era. A parte la sua logica personale di donna piacente, ricca e possibilista. Pur di piazzarsi nel talamo di mammà, con un paio di chiamate l’astuto Amedeo piazzò Pier nel quartier generale dello studio legale De Mendris, diventato famoso per la difesa delle vittime di Tangentopoli.
Sembro anni Ottanta a parlare così, eh? Ma nessuno a Milano è più anni Ottanta di me. Io sono proprio il figlio malato di quegli anni “sani”, e non lo dico né con vanto né con vittimismo. La mia esistenza è una pura constatazione. Ma torniamo a mio fratello, alla sua carriera da avvocatino perfetto e al mio patrigno che prima sistema lui e poi si sistema pure lui. L’unico a rimetterci sono stato io, povera stella.
E così mi ritrovai nell’auto di quest’uomo pieno di lardo e di sé, incapace persino di guidare la sua Mercedes che gli fa i massaggi al popò, perché guidatori si nasce, e c’è una distinzione insindacabile tra chi sa stare al volante e chi no, figa.
Mia madre era nella sua versione daily chic, come se fosse dovuta andare a rilanciare un Pinturicchio, e non una coccinella di terracotta.
La testa mi faceva male, il cuore era troppo dolorante perché lo avvertissi. In realtà, mi sentivo ancora fuso. La sera prima avevo finito un mostro di barella da solo. Un grammo netto. Probabilmente, però, le iniziali sulla mia camicia sarebbero bastate a rassicurare tutti – ma come fai a essere rassicurante se hai ricamato “LSD”? – e la nuova sede dell’International era pronta ad accoglierci con quell’accento British che l’aveva resa una delle scuole più ambite di Milano.
A me, durante le elementari e le medie, aveva fatto letteralmente schifo, troppe regole per i miei gusti, e poi erano regole piene di “please”. Ma per mia sorella Lola – bambina socialmente integrabile – quello era l’istituto migliore della città. Lo si vedeva mentre mostrava a me, a Pier, a mia madre e a suo padre il banco lindo, la biblioteca, la palestra – che in realtà usava poco visto che era piuttosto grassoccia, o meglio “tabeuf”, come dicevamo a casa – l’internet room e l’immancabile theatre, dove famiglie perbene erano pronte a mostrare la loro magnanimità davanti ai propri discendenti. Le opere erano tutte visibili su un grande tavolo di cristallo, che qualche rampollino delle medie fotografava per l’“Annual School Magazine”.
Non perché fosse della mia sorellina, ma la sua coccinella di terracotta credo fosse una delle opere più brutte fra quelle esposte. Era davvero tremenda: neppure la tonalità del rosso riusciva a essere convincente. Ma come si fa a sette anni e mezzo a parlare già con la erre moscia e non essere capaci di fare una coccinella di terracotta? Mi domandai come si poteva tradurre “coccinella di terracotta” in inglese, glielo volevo proprio chiedere alla saputella.
Fatto sta che quell’oggetto tremendo fu battuto all’asta per – udite udite – milleduecentocinquanta euro. E non fu mia madre ad alzare la mano per ultima, bensì Claire De Silva, una sua vecchia conoscente del liceo e madre di Elsa, inseparabile compagna-amica obbligata di Lola. Una donna capace di andare a Manhattan per farsi iniettare del collagene sotto la pianta dei piedi e poter quindi stare sui tacchi di Jimmy Choo. Risultato? Più passava il tempo, più sembrava troia.
Dio, che scena riprovevole, anche se io c’ero in mezzo, eccome se c’ero. E applaudivo ogni volta che un’opera veniva aggiudicata e si aggiungeva qualche mattone per la scuola in Africa. Nonostante la mia testa non sentisse e i miei occhi non vedessero. Il mio sorriso sembrava cieco e finto, come forse quello di altri, ma era la recita di fine anno e a chi non è toccata una volta nella vita? Mio fratello Pier era ancora più bravo di me, dentro il suo gessato estivo con le solite scarpe imperfette e i capelli lunghi e brutti, pieni di fon.
– Vedi Anita stasera?
Che domanda è? Chiedimi come sta, chiedimi dov’è o se ha deciso di dare una festa, ma non chiedermi se vedo Anita stasera, fratello mio bello, la vedi la mia faccia, cazzo?
– Perché?
– Ho sentito che discutevate ieri, in camera… Non ho capito cosa aveva da urlare in bagno perché Lamento ringhiava. Cosa ti eri scordato in giro?
– Un sasso. Avevo dimenticato un sasso.
– Hai lasciato un pezzo di coca in bagno? Ma sei fuori? E se entrava mamma?
– Mamma non entra mai nel mio bagno. È troppo lontano da camera sua… Poi dice che le fa schifo lavarsi le mani con l’Uomo Ragno che la fissa. Però me lo sono proprio dimenticato, figa. Anita mi ha detto di lasciarlo dov’era, che avrebbe voluto trovarlo lì il giorno dopo.
– ’Sta troia… E tu te lo sarai pippato subito, giusto?
– No, ho cercato di resistere un’oretta… poi, appena ti ho sentito uscire, ho deciso di fare serata da solo. Ho comprato una bottiglia di Havana, sono passato in corso Venezia a prendermi un film e mi sono spaccato così.
– Era buona, almeno?
– Ottima. Il Duca è sempre una garanzia. Anche se dopo una bottiglia di Havana stamattina ero una merda. E adesso come faccio a riprendermi Anita?
– Il casino è che è una ragazza “alla pari”, e ’sta scena l’ha già fatta troppe volte.
Per quanto fossimo diversi, io e mio fratello avevamo nei confronti della cocaina lo stesso, incondizionato amore. E soprattutto avevamo un identico modo di classificare le ragazze. Per noi, l’universo femminile era piuttosto semplice, perché dividevamo le donne in tre categorie: le ragazze “essere”, le ragazze “avere” e le ragazze “alla pari”.
Per ogni categoria applicavamo tecniche di abbordaggio differenti, indipendentemente dal fatto che volessimo farcele solo per una notte o per tutta la vita.
Le ragazze “essere” sono le più cerebrali. Svengono davanti ai complimenti, amano essere coccolate e godono quando alla domanda “a cosa stai pensando?” rispondi “al tuo profumo.” Questo tipo di ragazze le porto a cena all’Amour in via Solferino, a lume di candela, dove sul piatto faccio trovare poesie di Emily Dickinson. Me le schiaccio la seconda volta che ci esco, dopo un bell’SMS mandato a fine serata, davanti al quale si devono sciogliere per forza: “Notte. LSD”.
Le ragazze “avere”, invece, non le conquisti con le parole, ma con un Cartier. Però mai al primo appuntamento, altrimenti si sentono troie e scatta immediatamente il senso di colpa. Alla domanda “a cosa pensi?” devi rispondere “ti stavo immaginando in rosso… rosso Valentino”. Per non sbagliare, le porti solo da Nobu, aggiungendo una minitrousse di Dior senza pacchetto. Te le fai la sera stessa invitandole in terrazza, anche se è inverno funziona sempre.
E infine ci sono le ragazze “alla pari”. Sono quelle del nostro stesso livello sociale. So che è un’espressione brutta da usare – mia madre non la tollera esattamente come non tollera le parole “proletario”, “cellulite” e “saldi” –, ma questa è la realtà e io sono stufo di sentirmi in colpa per la montagna di soldi che la mia famiglia ha accumulato da generazioni. Cosa ci possiamo fare noi? Perché dovremmo regalarli? E, soprattutto, perché dovremmo sudarceli se li abbiamo già?
Vabbè, è un discorso che non si può liquidare in poche righe, specialmente quando sto per rivelare come si conquistano le ragazze “alla pari”. Sono ovviamente le più complicate, perché devi riuscire a sorprenderle. E allora lì il Nobu non basta più, quelle le devi portare da Buddakan a New York e io mi rompo il cazzo, quindi cerco d’ingegnarmi con la fantasia.
Le ragazze con cui ho più successo sono le finto-comuniste: quelle che si sentono in colpa a essere mil...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Luca Bianchini
  3. Se domani farà bel tempo
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. 40
  44. Ringraziamenti
  45. Copyright