La cosa più strana era quanto era facile morire, quanto era bello e sereno.
La bonaccia aerea aveva colto Maris alla sprovvista. Un istante prima intorno a lei infuriava la tempesta. La pioggia le pungeva gli occhi, le scorreva sulle guance e tintinnava sul metallo argenteo delle ali, e i venti tumultuosi la spingevano qua e là, sbatacchiandola sprezzantemente come se fosse una bambina inesperta. Sotto i supporti delle ali, le sue braccia erano indolenzite per la lotta. Nubi tenebrose oscuravano l’orizzonte, mentre il mare spumeggiava agitato; non c’era terra in vista. Maris imprecava, soffriva e volava.
E poi l’avvilupparono la pace, e la bonaccia, e la morte.
I venti si acquietarono e la pioggia cessò. Il mare smise di gonfiarsi convulsamente. Persino le nubi parvero ritrarsi, fino a quando furono infinitamente lontane. Scese il silenzio, un silenzio strano, come se il tempo si fosse fermato per riprendere fiato.
Nella bonaccia aerea, con le luminose ali spiegate, Maris cominciò a discendere.
Era una discesa lenta e graduale, bellissima, elegante e inevitabile. Senza una brezza che la spingesse o la sollevasse, poteva soltanto avanzare e scendere. Non era una caduta. Pareva non finire mai. In lontananza, poteva scorgere il punto dove avrebbe toccato l’acqua.
Per qualche attimo, gli istinti di volatrice le imposero di lottare. Virò a destra e a sinistra, tentò di bordeggiare, cercò invano una corrente nel cielo immoto. Le ali ampie sei braccia si sollevarono, si abbassarono, e un improvviso raggio di sole pallido brillò sul metallo argenteo. Ma la discesa proseguì.
E poi si sentì calma, calma come l’aria, e il tumulto interiore si acquietò come s’era acquietato il mare. Era la pace profonda della resa, il sollievo della fine della lunga battaglia con i venti. Era sempre stata in loro balia, pensò, non li aveva mai dominati veramente. I venti erano scatenati, e lei era debole, ed era stata una sciocca a sognare che così non fosse. Alzò gli occhi, chiedendosi se avrebbe visto i volatori fantasma che, si diceva, infestavano le bonacce aeree.
Le punte degli stivali sfiorarono l’acqua, e poi il suo corpo infranse lo specchio grigio e levigato dell’oceano. L’impatto dell’acqua fredda la bruciò come una fiamma. Affondò...
E si svegliò, madida e ansimante.
Il silenzio le martellava gli orecchi. Il sudore si asciugò nell’aria fresca. Si mise a sedere, disorientata e cieca. In fondo alla stanza scorse la sottile linea rossa delle braci coperte di cenere, ma erano dalla parte sbagliata del letto, se quello era il Nido, e troppo lontane, se quella era casa sua. L’aria aveva un lieve odore di umidità e di muffa.
L’odore era riconoscibile. Era all’accademia, pensò con sollievo, ad Alidilegno. All’improvviso, tutte le ombre si risolsero e divennero familiari. La tensione l’abbandonò. Adesso Maris era completamente sveglia. Infilò dalla testa una tunica tessuta rozzamente, attraversò la stanza e si accostò al camino, prese uno stoppino dal mucchio e accese una candela.
Nella luce, vide la piccola anfora di pietra accanto al letto basso e sorrise. Era la cosa migliore per scacciare gli incubi.
Sedette a gambe incrociate sul letto, sorseggiando il vino fresco e legnoso, fissando la fiamma guizzante della candela. Il sogno l’aveva turbata. Come tutti i volatori, Maris temeva le bonacce aeree, ma fino a quel momento non aveva mai avuto incubi. E la pace, il senso di resa, di rassegnazione... quello era il peggio. “Sono una volatrice” pensò, e quello non era il sogno di un vero volatore.
Qualcuno bussò alla porta.
«Avanti» disse Maris, posando l’anfora.
Sulla soglia c’era S’Rella, una ragazza esile e bruna, con i capelli tagliati corti, secondo la consuetudine dell’Arcipelago Meridionale. «La colazione è quasi pronta, Maris» disse, con un leggero accento che tradiva la sua origine. «Ma prima, Sena vuole vederti. Nella sua stanza.»
«Grazie» disse Maris con un sorriso. S’Rella le era simpatica, forse più di tutti gli studenti dell’Accademia Alidilegno. L’isola dell’Arcipelago Meridionale dov’era nata S’Rella era lontanissima da Amberly Minore, ma nonostante tutte le differenze, Maris si riconosceva in quella ragazza. S’Rella era minuta ma decisa, e dotata di un coraggio e di un’energia che contraddicevano la sua statura. Per il momento si muoveva ancora sgraziatamente nel cielo, ma era abbastanza ostinata da far sperare in un rapido progresso. Maris lavorava ormai da dieci giorni con il gruppo di aspiranti volatori di Sena, e considerava S’Rella tra i tre o quattro più promettenti.
«Vuoi che aspetti e ti mostri la strada?» chiese la ragazza, quando Maris si alzò dal letto per andare a lavarsi nel catino in fondo alla stanza.
«No» rispose Maris. «Vai a far colazione. Troverò Sena da sola.» Sorrise per addolcire quel commiato, e S’Rella ricambiò il sorriso, timidamente, prima di andarsene.
Qualche minuto dopo, Maris ebbe un ripensamento, mentre procedeva nel lungo corridoio umido alla ricerca della stanzetta di Sena. L’Accademia Alidilegno era un’antica struttura, un’immensa roccia piena di gallerie e grotte, alcune naturali, altre scavate dalla mano dell’uomo. Le camere in basso erano perpetuamente allagate, e persino nelle parti più alte e abitabili molte camere e tutti i corridoi erano privi di finestre, isolati dal sole e dalle stelle. Ovunque regnava l’odore del mare. Anticamente era stata una fortezza, costruita durante la ribellione di Seatooth contro Shotan Grande; poi era rimasta abbandonata fino a quando la terriera di Seatooth non l’aveva offerta ai volatori come sede dell’accademia. Nei sette anni trascorsi da quel giorno, Sena e i suoi allievi l’avevano restaurata in gran parte, ma era ancora troppo facile sbagliare direzione a una svolta e smarrirsi nelle sezioni deserte.
Il tempo passava senza lasciar traccia nei corridoi di Alidilegno. Le torce si consumavano, appese alle pareti, e le lampade esaurivano l’olio, e spesso trascorrevano giorni prima che qualcuno se ne accorgesse. Maris procedette a tentoni in un tratto buio del corridoio, nervosa, un po’ oppressa dal peso della vecchia fortezza. Non le piaceva sentirsi rinchiusa nelle viscere della terra: contrastava con i suoi istinti di volatrice.
Con sollievo, vide davanti a sé un fioco barlume. Un’ultima svolta e si trovò di nuovo in un territorio riconoscibile. A meno che avesse sbagliato completamente strada, la stanza di Sena era la prima a sinistra.
«Maris.» Sena alzò la testa e sorrise. Era seduta su una sedia di vimini e intagliava un blocco di legno dolce con un coltello d’osso. Lo posò e fece cenno a Maris di entrare. «Stavo per chiamare di nuovo S’Rella, per mandarla a cercarti. Ti sei perduta nel nostro labirinto?»
«Quasi» disse Maris, scrollando la testa. «Avrei dovuto portare una lampada. So andare dalla mia camera alla cucina o alla sala comune o all’uscita, ma a parte questo non so destreggiarmi molto bene.»
Sena rise, ma era una risata di cortesia, che mascherava un umore tutt’altro che spensierato. L’insegnante era un’ex volatrice, tre volte più vecchia di Maris, diventata terragnola un decennio prima per il tipo d’incidente più comune che capitasse ai volatori. Solitamente, il vigore e l’entusiasmo mascheravano la sua età, ma quella mattina appariva vecchia e stanca. L’occhio malato, simile a un pezzo di vetro marino lattiginoso, sembrava appesantire la metà sinistra del viso.
«Hai mandato S’Rella da me per una ragione» disse Maris. «Ci sono novità?»
«Ci sono novità» confermò Sena. «E non sono belle. Ho pensato che fosse meglio non parlarne a colazione, prima di averne discusso con te.»
«E dunque?»
«Le isole orientali hanno chiuso la Casa dell’Aria» disse Sena.
Maris sospirò e si abbandonò sulla sedia. Si sentiva improvvisamente stanca. La notizia non era una sorpresa, ma era comunque scoraggiante. «Perché?» chiese. «Avevo parlato con Nord tre mesi fa, quando mi avevano mandato con un messaggio a Lontana Hunderlin. Pensava che l’avrebbero tenuta aperta almeno fino alla prossima gara. Mi aveva detto persino che aveva parecchi allievi promettenti.»
«C’è stato un morto» disse Sena. «Una di quegli allievi promettenti ha commesso un errore e ha urtato una scogliera con l’ala. Nord ha potuto soltanto assistere, impotente, mentre lei precipitava sulle rocce. E purtroppo c’erano anche i genitori della ragazza. Ricchi e influenti... mercanti di Cheslin, proprietari di una dozzina e più di navi. La ragazza stava cercando di farsi bella ai loro occhi. I genitori, naturalmente, si sono rivolti al terriero chiedendo giustizia. Hanno detto che Nord era stato negligente.»
«Ed è vero?» chiese Maris.
Sena scrollò le spalle. «Era un volatore mediocre anche quando aveva le ali, e non credo che come insegnante sia migliore. Era sempre troppo ansioso di fare colpo. E sopravvalutava sempre gli allievi, li lodava troppo. L’anno scorso, nella gara, ne ha presentati nove per le sfide. Hanno fallito tutti, e molti non avrebbero dovuto concorrere. Io ne avevo presentati soltanto tre. La ragazza che è morta, mi hanno detto, era alla Casa dell’Aria da appena un anno. Un anno, Maris! Forse aveva talento, ma era tipico di Nord, lasciare che andasse troppo lontano e troppo presto. Ma ormai non c’è nulla da fare. Tu sai che le accademie sono state una spesa, una spesa inutile, a sentire certi terrieri. A loro bastava un pretesto. Hanno licenziato Nord e hanno chiuso la scuola. Fine. E tutti i ragazzi dell’Arcipelago Orientale possono dire addio ai sogni, e rassegnarsi alla loro sorte.»
«Quindi noi siamo gli ultimi» disse cupamente Maris.
«Siamo gli ultimi» ripeté Sena. «E per quanto tempo? Ieri sera la terriera mi ha mandato un corriere, e io sono salita a ricevere questa bella notizia. Poi abbiamo parlato. Non è soddisfatta di noi, Maris. Dice che per sette anni ci ha dato carne, riscaldamento e monete di ferro, ma in cambio non le abbiamo dato neppure un volatore. È spazientita.»
«Immagino» disse Maris. Conosceva soltanto di fama la terriera di Seatooth, ma le bastava. Seatooth era vicina a Shotan Grande, ma aveva una lunga, fiera storia d’indipendenza. L’attuale terriera era una donna orgogliosa e ambiziosa, risentita perché la sua isola non aveva mai avuto un volatore. Si era battuta per fare di Seatooth la sede dell’accademia d’addestramento per l’Arcipelago Occidentale, e un tempo s’era comportata con munificenza. Ma adesso esigeva qualche risultato. «Non capisce» disse Maris. «Nessuno dei terragnoli capisce, per la verità. Gli Alidilegno si presentano alle competizioni ancora grezzi, per confrontarsi con volatori esperti e figli di volatori nati e cresciuti per le ali. Se ti dessero il tempo...»
«Il tempo, il tempo» disse Sena, con una sfumatura di collera nella voce. «Sì, l’ho detto alla terriera. Mi ha risposto che sette anni dovevano essere sufficienti. Tu, Maris, sei una volatrice. Io lo ero. Noi conosciamo le difficoltà, la necessità di allenarsi per anni e anni, fino a quando le braccia tremano per lo sforzo e le mani si staccano sanguinanti dalle maniglie. Questo i terragnoli non lo sanno. Molti di loro credevano che in poco tempo il cielo si sarebbe popolato di pescatori, ciabattini e vetrai, e sono rimasti male quando è venuta la prima competizione e i volatori e i figli dei volatori hanno sconfitto tutti gli sfidanti terragnoli.
«Allora, almeno, se la prendevano a cuore. Adesso purtroppo sono semplicemente rassegnati. Nei sette anni passati dal tuo consiglio, i sette anni delle accademie, una sola volta un terragnolo ha preso le ali. E le ha perdute un anno dopo, nella competizione successiva. Ormai, credo che la gente dell’isola venga ad assistere alle gare solo per vedere i fratelli che si disputano le ali di famiglia. Le sfide dei miei Alidilegno sono considerate interludi comici, brevi esibizioni di pagliacci per rallegrare l...