
- 300 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Nuovi Argomenti (17)
Informazioni su questo libro
Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Giuliano Amato, Giancarlo M.G. Scoditti, James Hamilton-Paterson, Antonella Anedda, Elena Švarc, Marco Mantello, Silvio Chen, Roberto Amato, Bruno Zanin, Doriana Leondeff, Alberto Asor, Alfonso Berardinelli, Arnaldo Colasanti, Andrea Gareffi, Roberto Carnero, Paola Frandini, Elisabetta Rasy, Andrea Cortellessa.
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Informazioni

UN’ITALIA DI RACCONTI
Alberto Asor Rosa
Racconti di un secolo, storia di un paese: così recita il titolo della prefazione di Enzo Siciliano ai tre imponenti volumi di Racconti italiani del Novecento da lui curati (Milano, Mondadori, 2001). I racconti sono tanti: quasi trecento (duecentonovantotto, per la precisione). E siccome ogni autore è presente con un solo racconto, tanti sono i racconti tanti gli autori selezionati: moltissimi anche questi, dunque. Prevale il criterio “rappresentativo” su quello “selettivo”; questi non sono, nelle intenzioni del curatore, i migliori racconti italiani del Novecento, destinati sempre a reggere ad un giudizio assoluto; sono – effettivamente i racconti italiani del Novecento, in una loro massima estensività (sempre, ovviamente, nei limiti antologici del genere). Fedele alla sua impostazione, Siciliano non ha dato un rilievo minore alla “storia di un paese” che alla specifica, caratteristica “forma” del “racconto italiano” nel corso di questo secolo, ammesso che ce ne sia una, cosa che è già materia di discussione, come cercherò di dire meglio più avanti.
Qualche cenno sulla struttura dell’opera ne chiarirà meglio l’impostazione. Entrano nei tre volumi i racconti di quegli scrittori che avevano quarant’anni (l’età della presumibile “maturità” letteraria ed umana, secondo Siciliano) nel 1900 e i racconti degli scrittori che ne avevano quaranta nel 2000. Si susseguono grosso modo cinque generazioni di autori (intese in senso più letterario che biografico), con una loro abbastanza precisa caratterizzazione psicologica e culturale, – e questo è già di per sé un dato interessante. La distribuzione della materia nei tre volumi è equilibrata ed equanime. Il primo, forse il più denso e corposo anche quantitativamente, inizia con un autore (F. De Roberto), nato nel 1860 e si chiude con un autore (R. Bilenchi), nato nei 1909 (ma il primo racconto antologizzato è del 1890); si sviluppa dunque lungo un percorso anagrafico di circa mezzo secolo e comprende centodieci autori. Il secondo inizia con un autore (M. Tobino) nato nel gennaio del 1910 e si conclude con un autore (C. Garboli) nato nel 1928; occupa uno spazio di diciotto anni e comprende novantasei autori. Il terzo inizia con un autore (L. Davì) nato nel 1929 e si conclude con un autore (G. Mozzi) nato nel giugno del 1960; si sviluppa lungo trent’anni e comprende novantadue autori.
Come si può facilmente constatare, l’addensamento dei testi s’infittisce molto nel secondo volume. L’impressione non è fallace: in esso sono raccolti autori e racconti che si collocano tra la fine degli anni ’30 e, in larga maggioranza, gli anni ’60 e ’70. Una stagione ricchissima per la narrativa italiana durante la quale si dispiega in gran parte la produzione della generazione di scrittori nati negli anni ’20, una delle più rappresentative del secolo (Sciascia, Rea, Zanzotto, Meneghello, Fenoglio, Pasolini, Lagorio, La Capria, Manganelli, Bianciardi, del Buono, Testori, Calvino, Volponi, Ottieri, d’Eramo, Camilleri, Arpino, Malerba, Sanvitale).
Questi giochi di ricostruzione storico-anagrafici, resi possibili, anzi stimolati dagli straordinari apparati curati da Luca Baranelli, devono arrestarsi di fronte ad alcune insuperabili difficoltà strutturali. Ad esempio: siccome l’andamento dei racconti in volume segue, appunto, quello delle date di nascita dei rispettivi autori, la successione dei racconti non può essere sempre nello stesso modo ordinatamente cronologica. Alla conclusione del secondo volume, ad esempio, al racconto La liberazione di Carlo Bernari, che è del 1965, segue il racconto Anna e Bruno di Romano Bilenchi, che è del 1938. Mi pare l’inconveniente più grave alla lettura, ma è probabile che qualsiasi altro criterio ordinativo avrebbe prodotto inconvenienti di altra natura.
Qualche osservazione sul “paese Italia”, esplicitamente chiamato in causa da Siciliano nella sua prefazione. L’Italia, che emerge da questa vasta raccolta di narrazioni, e un paese in cui l’elemento periferico predomina su qualsiasi tentativo di centralizzazione, culturale, psicologica, antropologica, politica e, con un rilievo in questo caso dominante, letteraria. L’Italia, che i nostri racconti ci evidenziano, è ancora l’Italia delle molte ltalie, a cui l’unità politica non ha dato in realtà il robusto orientamento omogeneizzante, che allora qualcuno s’aspettava. Siciliano lo dice efficacemente nel ritratto premesso al racconto di Pirandello: “I grandi della letteratura italiana del Novecento nascono periferici, geograficamente, intellettualmente, ai centri di vita culturale della penisola, – la Firenze delle riviste anni Dieci, la Roma della ‘Ronda’, di nuovo la Firenze dell’ermetismo. Ma già Pirandello, come Svevo, è periferico...”(I, 73).
In questa perifericità tutta italiana occupa poi un posto rilevante l’aspetto contadino, anzi ancestrale, atavico, del nostro paese, fino ad anni molto vicini a noi. I racconti “rusticani” sono molti e testimoniano la persistenza di uno sguardo che invece di volgersi verso l’alto o intorno, si volge in basso, verso le nude profondità della “terra vergine” (la citazione dannunziana non è fuori luogo, pensando ad un racconto, peraltro orribile, come Bestiame). Niente però di allegro, di liberatorio, di panico. Al contrario: proprio attraverso il “paese”, il “borgo”, la “periferia”, il “quartiere”, emerge una Italia dolente, ripiegata su se stessa, scarsamente identitaria, alla continua ricerca, si direbbe, delle proprie radici e di una propria ragion d’essere.
Veniamo al problema e alle tematiche del “racconto”. Siciliano ne discorre a lungo nella sua Prefazione. Un punto di partenza potrebbe per lui esser rappresentato, in modo particolare nella tradizione narrativa italiana, dalla distinzione fra “novella” e “racconto”, – se però intanto si sapesse con una certa esattezza che cos’è “novella”. Già questa è una difficoltà non irrilevante. Nel Decameron la novella più lunga è più lunga venticinque volte della novella più breve: sarebbe una bella impresa farle rientrare tutt’e due, senza una serie di specificazioni e intermediazioni, nel medesimo “genere”. Per me la differenza tra “novellare” e “raccontare” non sta nella lunghezza ma nella diversa “tessitura” della narrazione e nel diverso “ritmo”, che assume lo svolgimento degli eventi. “Novellare” corrisponde ad una vocazione affabulatoria che può contare su tempi lunghi e sulla massima disponibilità percettiva del lettore (il quale è sì un “lettore”, ma un lettore dietro il quale s’intravvedono ancora la fisionomia e l’atteggiamento di un “ascoltatore”). “Raccontare” è invece il modo di narrare che ubbidisce ai tempi e alle aspettative di una lettura continuamente in movimento e fortemente problematizzata (per esempio, a chi si racconta non si sa più con esattezza e l’autore deve inventarselo, immaginarselo, di volta in volta molto più di quanto non facesse il novellatore). La diversità della tessitura sintattica, linguistica e stilistica è dunque in ambedue i casi in stretto rapporto alla diversità della tessitura comunicazionale (cioè: dietro le diverse operazioni letterarie e ricettive ci sono due diverse comunità di lettori, che sono anche, e questo sarebbe bene non dimenticarlo, — comunità di parlanti, ma nel primo caso con una forza e un’identità molto più forti e percepibili).
Ora, il “racconto moderno” nasce tra ’700 e ’800 a livello europeo: il rapporto con il mondo moderno gli è necessariamente consustanziale e questo, per un verso, lo accomuna, o almeno lo affianca al romanzo, di cui rappresenta il “fratello minore”, l’embrione, il potenziale nucleo germinativo, ma per un altro verso ne fa una forma specifica, altamente caratterizzata ed autonoma, del modo di rappresentarsi, – lucido, sintetico, incisivo, – del mondo moderno. In ragione delle considerazioni già avanzate, esso costituisce un genere molto meno canonizzato e più oscillante della novella, lungo tutta la gamma possibile, dimensionale e strutturale, delle forme narrative, che varino dal “racconto breve” al “racconto lungo” al “romanzo breve”, e dal “racconto saggio” al “racconto autobiografico” al “racconto fiction” al “racconto fantastico” e “surreale”. Nella raccolta di Siciliano tutte queste forme sono rappresentate e in più, forse, rispetto alla contemporanea evoluzione delle esperienze narrative europee, perdurano segni consistenti della “tradizione novellistica”. Non a caso la più imponente raccolta di racconti italiani del Novecento, quella di cui è autore Luigi Pirandello, s’intitola alla maniera antica Novelle per un anno.
Tenendo conto di tutto questo, Siciliano ha praticato una grande estensione dei criteri. Per esempio: nella raccolta sono inseriti addirittura dei libri intieri, come Via de magazzini di Vasco Pratolini (settanta pagine fitte dell’edizione mondadoriana) e raccontini brevissimi, quasi aforismi, come quelli di Giuseppe Lisi; racconti di “eventi”, come Il rosario di De Roberto e fiction psicanalitiche, come La scomparsa del corpo di Antonio Porta. Poteva fare diversamente? Evidentemente no, se intendeva mantener fede a quel grado alto di “rappresentatività”, da cui dichiaratamente ha preso le mosse. Il risultato è un galleria sfaccetta e rutilante di eventi, forme, tensioni e possibilità, una quantità di finestre aperte sull’identità italiana del secolo passato: identità, come dicevo, mobile e incerta, e perciò più bisognosa di altre di molteplici rappresentazioni. La “forma” del “genere” è difficilmente definibile. Ma l’esemplificazione delle “possibilità” ricchissima.
In questa estrema pluralità e diversità di scelte una direzione di movimento tuttavia s’intravvede. Si potrebbe dire che il racconto italiano del Novecento va da un massimo di particolarità e di determinatezza ad un massimo d’indeterminazione. Alla fine del secolo, a conclusione del lungo percorso, l’Italia marginale, periferica, provinciale non c’è più, ma, – sarei tentato di dire, – non c’è più l’Italia. O meglio: c’è un paese spettrale, sbiadito, dai contorni sempre più incerti, quale si potrebbe cogliere in un gioco estremamente rifratto di specchi (Mari, Affinati, Albinati, Lodoli, Palandri, Picca, Tamaro, Baricco, Fortunato); oppure, al contrario, un paese di così immediata e diretta percezione visiva e quasi sensoriale che il surplus di realtà che ci viene offerto diventa anch’esso una forma di astrazione, una sorta di geroglifico violento campito su di un muro o sulla fiancata di un metrò (Pennacchi, De Luca, soprattutto Carraro). Salvo rare eccezioni (per esempio van Straten, che guarda di più all’indietro), stilisticamente parlando, predomina una sorta di affabulazione autoreferenziale continua che narra solo di quei fatti che stanno già dentro un flusso di coscienza, se tale si può definire, – quella dello scrittore, quella del personaggio che dice io o quella di un qualsiasi altro personaggio, magari marginale, – non importa quale, insomma, purché sia una rappresentazione tutta interiore e altamente artificiale, tutto il contrario, per tornare all’inizio, di una vera “rappresentazione di eventi”. L’Italia non c’è più perché è sparita, – o perché i nostri narratori non la vedono più, – o perché, vedendola, preferiscono non vederla? Dalla risposta a queste domande, dipende la valutazione di ciò che sta accadendo. Ma sicuramente qualcosa sta accadendo. E noi restiamo in attesa.
FORMA E IDENTITÀ
DEL RACCONTO ITALIANO
Alfonso Berardinelli
Tutte le antologie, come ogni strumento di lavoro e ogni oggetto rituale, contengono una buona dose di dogmaticità. È proprio questa naturale dogmaticità delle antologie che, in una cultura fondata sulla critica, scatena le critiche. Delle scelte di questa o quella antologia si può discutere all’infinito. Io invece, almeno per il momento, sono tentato piuttosto di accettare comodamente (e forse proficuamente) il dogma e di usare l’antologia di Enzo Siciliano Racconti italiani del Novecento (Meridiani Mondadori 2001) come se fosse assolutamente rappresentativa ed esauriente. Faccio l’ipotesi, cioè, che quelli e solo quelli siano i racconti importanti e da rileggere del nostro Novecento. E cercherò di ricavarne alcune considerazioni molto (forse troppo) generali. Che tra l’altro si fondano sulla lettura o rilettura solo di una parte dei testi antologizzati in tre grossi volumi, quasi seimila pagine.
Parto dal saggio introduttivo di Siciliano. Che si apre con una definizione della novella italiana (e toscana) classica per distinguerla dal racconto, il quale nasce o dovrebbe nascere all’interno di una dimensione nuova del narrare creata dal romanzo moderno. Nel racconto, scrive Siciliano, conta “la luce accecante dell’accadere”, del puro accadere, conta “la manifestazione segreta dell’esistere”: il racconto “appartiene a una fase più tarda dello sviluppo dei ceti borghesi [...] Alberto Moravia sostenne che la differenza fra racconto e romanzo nasceva dall’essere il racconto risultato di una ‘intuizione’ (mentre il romanzo sarebbe il risultato d’una sintesi di sentimento e ragione all’interno di una movimentata struttura) [...] La questione per lui era di pura differenza strutturale, – e, secondo i modelli maupassantiani o cecoviani, il racconto è votato a cogliere un trasparente dato esistenziale di là da qualsiasi concetto” (p. XI).
Così Siciliano. Che una pagina dopo introduce l’altro contrasto, tipicamente italiano e novecentesco, fra lo “scrivere bene” dei prosatori d’arte e lo “scrivere male” dei narratori veri e propri. È noto infatti che accusati di scrivere male o di non avere una lingua letterariamente pregevole sono proprio i maggiori narratori del Novecento italiano: Svevo, Pirandello e Moravia (tre autori non a caso poco amati da un critico come Gianfranco Contini, più sensibile alla qualità della prosa che all’invenzione strutturale propriamente narrativa).
Un ultimo punto preliminare che ricavo ancora da Siciliano: “Questa polarità fra prosa e romanzo riflette un conflitto di natura sociale, e di valori, fra due diversi strati di un medesimo ceto intellettuale [...] un ceto dove si sono suturate negli anni media e piccola borghesia”. In conclusione: “La polarità sta fra chi pensa che il narrare comporti una responsabilità conoscitiva e morale e chi no, e chi ne fa semplice succo di degustazione letteraria” (p. XV).
Formulato così il contrasto è assolutamente netto. Siciliano allude al fatto che una letteratura che si nutra di sola morale letteraria risulta moralmente denutrita e soprattutto finisce per soffrire (come è avvenuto in Italia) di impotenza narrativa.
Se parlassimo del romanzo italiano e del suo non felice destino, tutto sarebbe un po’ più chiaro. Il contrasto (e la differenza) appare in piena luce quando mettiamo a confronto due critici come Debenedetti (che cerca romanzo e personaggio in cui specchiarsi) e Contini (che analizza-degusta lirici e prosatori d’arte). Qui però si parla di racconti e non di romanzi. E il racconto non solo è parente stretto della novella, ma (anche nella modernità) convive con essa, mentre sul versante opposto confina con la prosa d’arte e la saggistica, da cui peraltro deve distinguersi. Dal romanzo inoltre gli viene, con l’Ottocento, un nuovo senso della temporalità, della quotidianità e dell’accadere. Il groviglio di questioni come si vede è notevole. Vediamo intanto come giocano e interagiscono fra loro a) il piano formale e stilistico e b) quello morale e sociale. Il problema può essere velocemente formulato così: Di che cosa prevalentemente (ossessivamente) parlano i racconti italiani del Novecento e in quali forme altrettanto prevalenti.
Per cominciare a rispondere, cerchiamo qual è la soluzione tematico-formale dominante e poi vediamo di che tipo sono le eccezioni.
La mia prima impressione di lettore è che nel racconto italiano novecentesco a dominare sono la stravaganza, la bizzarria, la vicenda paradossale, il tipo insolito e strano, il caso sorprendente. Questo si manifesta in vari modi. Attraverso l’umorismo pietoso-creaturale di Svevo (dove si ride invece di commuoversi), attraverso l’aggressività deformante e acidamente satirica di Pirandello, attrav...
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