Nuovi Argomenti (18)
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Nuovi Argomenti (18)

  1. 250 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Nuovi Argomenti (18)

Informazioni su questo libro

Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Paolo Baratta, Biagio de Giovanni, Tarcisio Tarquini, Lorenzo Pavolini, Andrea Salerno, Fernando Acitelli, Valerio Aiolli, Maria Pia Ammirati, Luigi Anania, Camilla Baresani, Maurizio Braucci, Rocco Carbone, Antonella Cilento, Sergio De Santis, Diego De Silva, Marco Drago, Angelo Ferracuti, Marcello Fois, Tommaso Giartosio, Lisa Ginzburg, Luigi Guarnieri, Luca Guerneri, Joanna Kinowska, Nicola Lagioia, Marco Mantello, Mauro Martini, Melania Mazzucco, Sebastiano Mondadori, Raul Montanari, Giuseppe Montesano, Giulio Mozzi, Sergej Nikitin, Alessandra Orsi, Antonio Pascale, Lorenzo Pavolini, Christian Raimo, Luca Rossomando, Flavio Santi, Pietro Spirito, Elena Stancanelli, Carola Susani, Emanuele Trevi, Dario Voltolini, Antonio Pennacchi, Fabio Biasio, Marilena Degrate, Giorgio Falco, Raffaella Grassi, Pino Imperatore, Vedrana Martinovic, Francesco Memoli, Francesco Paloschi, Corrado Poli, Walter Scancarello, Cinzia Valentini, Piero Pompili, Carola Susani, Mark Strand, Giovanni Ferrara, Nicola Lagioa, Fiornando Gabbrielli, Anthony Hecht, Marco Belpoliti, Flavio Santi, Roberto Galaverni, Mauro Martini, Sebastiano Mondadori, Giuseppe Bertolucci.

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Informazioni

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L’AFFAIRE MORO,
UN’IDEA DI LETTERATURA

Marco Belpoliti

Nell’estate del 1978 Leonardo Sciascia è a Racalmuto, nella sua casa in contrada Noce. Sta scrivendo il libro dedicato al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro. Sono trascorsi solo due mesi dai tragici fatti. Sul suo tavolo c’è il dizionario del Tommaseo, quale frangiflutti nel mareggiare dei ritagli di giornali. Tutti, o quasi, i libri di Sciascia sono stati scritti così: d’estate, direttamente alla macchina per scrivere, in modo rapido, dopo averli pensati e sedimentati nei mesi invernali. L’atto della scrittura è per lui un gesto gioioso, “il piacere di fare un testo”, dice in una nota di Nero su nero: “(e questo piacere è, per un autore, la sola misura di quello che sarà per il lettore e per il critico – ma per il critico che riuscirà a non perdere la condizione di lettore il piacere del testo)”.
La questione del piacere di scrivere (e di leggere) è fondamentale in Sciascia. Lo si capisce dai suoi libri. Gran parte delle opere narrative dello scrittore siciliano nascono da un piacere. Alcune, poche in verità, da qualcosa che piacere non è; e, se non è proprio dispiacere, tuttavia gli assomiglia. L’affaire Moro è uno dei libri del non-piacere. Per quanto sia un libro saggistico, e non proprio un romanzo o un racconto, L’affaire Moro è certamente un’opera letteraria. Anzi, rispetto alle opere strettamente narrative ha qualcosa di più: mentre racconta riflette sulla letteratura stessa, sul suo statuto e il suo significato. Se si deve indicare qual è l’opera che contiene l’idea di letteratura di Leonardo Sciascia, la scelta non potrebbe che cadere sul pamphlet dedicato al sequestro e l’uccisione del leader democristiano. Ne L’affaire Moro l’idea stessa di letteratura di Sciascia è messa alla prova, subisce un inevitabile rodaggio. Ma torniamo ancora per un momento alla questione del «piacere», perché questa è la porta d’ingresso al libro.
Del piacere di scrivere Sciascia parla nelle ultime pagine di Nero su nero, vero e proprio palinsesto della stagione narrativa che va dal 1969 al 1979, il decennio più buio e complesso della storia italiana degli ultimi quarant’anni: le bombe e gli attentati neofascisti, le stragi sui treni, il terrorismo delle Brigate rosse e di Prima linea, l’uccisione di magistrati, uomini politici, il sequestro di Aldo Moro. Sono gli anni del Contesto e di Todo modo, dell’Affaire, della trasformazione di Sciascia da scrittore siciliano in intellettuale controcorrente, da autore di libri sulla mafia a polemista. Nero su nero, libro di elzeviri e scritti aforistici, è il diario in pubblico di Leonardo Sciascia, cui affida le sue amare conclusioni sulla società e la politica italiana, ma anche le riflessioni sul proprio lavoro letterario, sulla propria idea di letteratura.
In un brano di Nero su nero annuncia di aver terminato il pamphlet sul caso Moro. È il 24 agosto 1978. I quattro giorni seguenti li trascorre nella rilettura e correzione del dattiloscritto; lo ritocca, dice, meccanicamente. Nello stesso tempo la sua mente è occupata a svolgere una meditazione sulla letteratura, come se tra la scrittura di quel testo e l’idea di letteratura ci fosse – e c’è – un nesso stringente. È una riflessione che ha i caratteri dell’ansia: “febbrile, come sdoppiata, come dialogata”. Lo stato d’eccitazione è evidente. La notte Sciascia non riesce a prender sonno, forse per la stanchezza eccessiva. Scrive così, e subito si abbandona a una divagazione sul sonno e sui sogni che lo visitano.
Come se si fosse affidato a una sorta di scrittura automatica, immediatamente dopo questa considerazione, Sciascia riflette sul piacere dello scrivere: il libro su Moro, invece di dargli piacere e divertimento, gli ha trasmesso un senso di inquietudine “che sconfinava nell’ossessione”. Forse è l’argomento, o forse è il modo in cui l’ha scritto, fatto sta che ora egli si sente stanco e con l’impazienza di mettersi ad altra scrittura, quasi volesse ritrovare quel “Non faccio nulla senza gioia”, il motto di Montaigne che ha fatto proprio.
Il pensiero sulla letteratura si colloca qui, nello spazio incerto tra il sonno e la veglia, nel momento liminare dell’insonnia: “nell’insonnia, con frammentaria e incandescente perspicuità, mi pareva di essere arrivato a una risposta sulla letteratura, su cosa è la letteratura”. Tuttavia, come le cose pensate o intraviste in quella condizione, la risposta gli è sfuggita: “Ma ora, qui, non so ripeterla”. C’è un buco nella memoria, una falla, qualcosa che manca; per dirla con uno psicanalista francese: qualcosa che “non manca di mancare”.
Il paragone usato da Sciascia è molto bello e si riferisce alla scuola, dove egli è stato non solo allievo, ma anche maestro. È come quando, scrive, si deve ripetere il canto di Dante mandato a memoria e di colpo, imprevedibilmente, ci si intoppa; è un buco nero che “sembra slargarsi a divorare, nonché la memoria di quel canto, la memoria nella sua interezza e nella sua essenza” (e il pensiero non può non correre al capitolo di Se questo è un uomo, Il canto di Ulisse, dove la memoria del deportato Primo Levi fallisce proprio lì, nel buco nero di Auschwitz).
Della meditazione notturna sulla definizione della letteratura restano allo scrittore due soli esempi, su cui gli “pareva di aver verificato il concetto”. Si tratta di due resti, tracce, tratte da una letteratura minore, addirittura minima. Il tutto ha un sapore freudiano. Non si può fare a meno di pensare a una seduta analitica, dove lo scrittore racconta due sogni, e poi fa delle associazioni. Il primo esempio proviene dal Diario di Giambattista Biffi, opera settecentesca da poco ripubblicata. E riguarda due dettagli del libro. Il primo è una coincidenza: Sciascia legge di un incontro tra un personaggio realmente esistente e il Biffi stesso. Il principe di Spaccaforno, è anche uno dei personaggi del Consiglio d’Egitto; inoltre, l’incontro, di cui riferisce Biffi, avviene il 29 agosto 1778. Giusto due secoli esatti dopo Sciascia legge dell’incontro, proprio alla fine del lavoro sull’Affaire Moro. Come sappiamo lo scrittore siciliano dà molta importanza alle coincidenze, a quelle che Jung chiama “sincronie”: la correlazione tra fatti interiori e fatti esteriori che sfugge a nessi causali.
Il secondo è un particolare del testo: la presenza di una donna, cui il Biffi è legato, “donna d’inganni”, dice l’autore. Semplifico, perché sia il riferimento dello scrittore settecentesco sia il commento di Sciascia, non sono proprio chiari e lineari; sono immersi in una atmosfera misteriosa e indefinita, come quella del sogno. Tuttavia la cosa importate è la scoperta che Sciascia fa nel testo che sta leggendo di una “traccia di vita”: “qualcosa di fisico, di tattile, come una efflorescenza, come un’incrostazione”.
L’altro esempio viene da un libro dell’Ottocento che lo scrittore siciliano ha letto un mese prima: Un tour de Sicilie, 1833 del barone Gonzalve de Nervo, il quale racconta in un passo di una apparizione, di un’immagine fugace di giovane donna che intravede attraverso i vetri di una lettiga. È un’apparizione. Ci sarebbe molto da dire su questo doppio riferimento: la donna, l’apparizione, la coincidenza. Sono eventi minimi che riguardano la vita, il rapporto tra lo scrivere e le tracce di vita.
Il tema della scrittura è uno dei temi forti dell’intera opera di Sciascia: la scrittura che consegna la vita alla pagina; la scrittura che imprigiona e fissa; la scrittura che è capace di dare la morte; la scrittura che è in grado di raccontare la morte. “Bianca campagna, nera semenza, l’uomo che la fa sempre la pensa”, recita il proverbio che lo scrittore inserisce dentro il racconto del Giorno della civetta come possibile chiave di lettura.
Il brano di Nero su nero torna di colpo alla domanda iniziale, a quella questione che gli è sfuggita nel dormiveglia (“Pensiero sfuggitomi, scrivo che mi è sfuggito”, dice uno dei Pensieri di Pascal): “E allora: che cosa è la letteratura?” La risposta è una delle più enigmatiche di Sciascia, ma è anche una delle più significative: “Forse è un sistema di ‘oggetti eterni’ che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità. Come dire: un sistema solare”. Per capire quest’affermazione, bisogna tornare all’Affaire Moro, il libro che ha terminato cinque giorni prima.
Che L’affaire Moro sia un testo letterario lo testimoniano diverse cose, anche contro la volontà polemica del suo autore che, nel prière d’insérer, nel segnalibro inserito dentro la prima edizione, sostiene, in forma anonima, che il libro non ha valore letterario, come sostengono due illustri recensori (Eugenio Scalfari e Indro Montanelli), che l’hanno attaccato prima ancora di leggerlo, ma è “soltanto una nuda e dura ricerca della nuda e dura verità”. La prova dell’intento letterario è nel suo inizio. Nel racconto di quella passeggiata, dell’incontro con le lucciole, una delle più belle pagine della letteratura italiana degli ultimi trent’anni.
È un testo carico di riferimenti e citazioni letterarie, tutte implicite (da Foscolo a Manzoni, da Ungaretti a Montale, e poi ancora Pasolini e la prosa d’arte del Novecento), in cui si sente ritornare con prepotenza la passione poetica di Sciascia, il suo iniziale debutto come poeta. Non è solo una questione di stile. Si potrebbe pensare che Sciascia, poiché è uno scrittore, non possa che scrivere come uno scrittore, cioè con uno stile letterario. Il che è vero. Ma si provi a confrontare l’inizio del libro con la sua relazione parlamentare alla commissione sul caso Moro, acclusa nelle edizioni successive al volume. È questo, almeno per le prime pagine, un testo segnato da una scrittura burocratica, sia nell’uso dei termini sia nel ritmo della prosa. Assomiglia a un verbale scolastico, e non a un diario o al racconto di un maestro di scuola.
Anche l’architettura dell’Affaire Moro depone a favore di una sua lettura in chiave letteraria. È, per dirla con Sciascia stesso, un testo “abitabile”. È composto di 20 capitoli, privo di indice, e i capitoli non hanno alcuna numerazione. La loro lunghezza media è intorno alle 6-7 pagine (seguo l’edizione oggi in commercio, edita da Adelphi, lunga 12 pagine in più rispetto alla prima edizione presso Sellerio). I capitoli più lunghi corrispondono a un’argomentazione più ampia e dettagliata: la lettera degli amici di Moro, a lungo chiosata da Sciascia; la lettera di Moro a Taviani; la prima lettera del leader democristiano recapitata a Cossiga; il rapporto tra pietà e tragedia.
Un altro elemento rilevante è la soglia. Se L’affaire Moro è una casa ben abitabile (cioè un libro destinato ai lettori, come ha scritto Sciascia riguardo al tema dell’“abitabilità”), la sua soglia d’ingresso è molto ampia: quattro capitoli. Qui lo scrittore ha radunato le questioni che costituiscono l’antefatto stesso della sua indagine letteraria e linguistica sul caso Moro.
Il primo capitolo presenta Pier Paolo Pasolini, fratello muto, ma anche rêvenant, morto che ritorna. Sciascia vi affronta il problema del rapporto con lui, della “fraternità senza confidenza” che lo legava al poeta e scrittore. Qui Sciascia ci consegna una delle pagine più autobiografiche della sua intera opera. Lo fa per una necessità impellente, che ha riconosciuto altrove, in Nero su nero, quella di misurare la distanza tra lui e Pasolini riguardo al problema dell’omosessualità, e immediatamente la differenza nel giudicare l’Italia contemporanea. Non è una messa a fuoco nitida e chiara. C’è molto non-detto nelle parole dello scrittore siciliano. Ci sono allusioni, ritrosie, pudori, discorsi interrotti. Si percepisce un disagio di fondo, qualcosa d’irrisolto. Una distanza. E tuttavia queste pagine, senza rinunciare a nulla di quella distanza tra Pasolini e se stesso, segnano il passaggio del testimone: da Pasolini a Sciascia. Lo scrittore siciliano riprende il cammino interrotto di Pasolini, dell’autore degli Scritti corsari.
È probabile che per rendere più efficace quest’apertura, per insistere su Pasolini, Sciascia abbia spostato la citazione da Borges, prevista all’inizio del libro (come quella di Gide in Todo modo), alla fine, per non creare un ulteriore effetto di straniamento, oltre che per dare l’idea di un libro che non si chiude, e che, come le indagini dei suoi detective, resta inconcluso, affidato al giudizio stesso del lettore, al suo intuito e alla sua perspicacia. L’affaire Moro si apre ora con la citazione da Elias Canetti, breve e discreta, poi quello splendido e poetico esordio con la passeggiata.
La ripresa del celebre articolo pasoliniano sulle lucciole, ampiamente citato nel testo di Sciascia, ha una funzione che va al di là dell’effetto narrativo e retorico, sebbene resti rigorosamente dentro la letteratura, dentro la sua idea di letteratura, legata a quella di verità. Il passaggio del testimone è tra uno scrittore – Pasolini – e l’altro – Sciascia. Due scrittori, una sola verità, si potrebbe sintetizzare. Quello che Sciascia vuole ereditare – pensa di ereditare – dal poeta e regista, dallo scrittore e polemista, è l’idea di letteratura come continua ricerca della verità. Questa è anche la lettura che egli fornisce di Pasolini. Un Pasolini eretico, ma intimamente legato alla vita, per ragioni opposte e antitetiche rispetto alle proprie ragioni che si giocano tutte su quella parola: “adorabile”. Per Pasolini, scrive Sciascia in modo indiretto, sono adorabili i ragazzini delle borgate (“e come si può adorare ciò che ci strazia?”, si chiede lo scrittore siciliano al riguardo). Per Sciascia è invece adorabile una sola donna e un solo scrittore (Stendhal).
La passeggiata in campagna, la scoperta delle lucciole, è anche una smentita di Pasolini: “Le lucciole che credevi scomparse, cominciano a tornare”. La metafora funziona ugualmente? No, si risponde Sciascia, perché Pasolini si è fermato a metà, non ha raccontato quella che è la realtà di Moro: la solitudine. Dentro il Palazzo descritto da Pasolini, si aggira un uomo solo: Aldo Moro (“in quelle stanze vuote, in quelle stanze già sgomberate”). C’è un altro Palazzo, un “più vasto Palazzo”, scrive. Ed è quello che lui ha cercato di descrivere nel Contesto e in Todo modo, e che ancora tornerà nel Cavaliere e la morte. Moro, alter ego dello stesso Sciascia, è rimasto solo e deve morire. Solitudine e morte sono le due condizioni su cui si arrovella nell’intero pamphlet Sciascia.
Nel secondo capitolo del libro, quasi certamente scritto di getto, senza un piano preordinato, affidandosi all’occasione della scrittura stessa, Sciascia mette a fuoco quello che sarà il metodo della sua indagine. È un metodo che ha già sperimentato altrove, negli Atti relativi alla morte di Raymond Roussell (1971) e nei Pugnalatori (1976), libri non a caso dedicati alla scomparsa e alla morte. Il suo è un metodo “linguistico”, o meglio: si svolge intorno a un “testo”, dentro un “testo”, cioè nello spazio disegnato dalle parole. Usa parole per decifrare altre parole (le parole come tracce che sono rimaste al posto di qualcosa che non c’è più: la letteratura come luogo di apparizione). La distinzione tra “scrittori di parole” e di “scrittori di cose”, che Sciascia trae da Pirandello, vale in un altro senso: Sciascia è nell’Affaire Moro “scrittore di parole”...
Le parole di Moro sono l’oggetto dell’indagine. È questo il tema fondamentale del libro che è letterario perché resta deliberatamente dentro i confini del linguaggio. Non è un’indagine poliziesca. Non può esserlo, perché non ci sono fatti da indagare. Sciascia parla, nel terzo capitolo, quello decisivo per definire il valore letterario dell’intera opera, di “fuga dei fatti”, di “astrarsi dei fatti”. E non è solo per una ragione pedagogica o didattica (anche verso se stesso, prima che nei confronti del lettore) che dispone una propria cronologia dei fatti alla fine del volume, ma perché fatti da indagare non ce ne sono. Il caso Moro si può riassumere così: il leader democristiano è stato sequestrato dalle Brigate rosse, la sua scorta uccisa; egli scrive le lettere dalla prigione, sotto l’occhio delle Br, media con loro, attraverso le parole, sulle parole, e comunica col mondo esterno attraverso le lettere che le Brigate rosse portano a destinazione o fanno ritrovare; la trattativa va avanti; c’è un depistaggio (il Lago della Duchessa, il falso comunicato delle BR); la trattativa fallisce; Moro è ucciso e il suo corpo abbandonato in via Caetani. Tutta la tragedia, come quella greca, avviene nel linguaggio, dentro il linguaggio.
Gran parte dei capitoli del volume, dal quinto al ventesimo, sono dedicati all’esegesi delle lettere del leader democristiano, alla discussione di parole, verbi, sostantivi, espressioni: statista, politicante, gerundio, famiglia. E le citazioni sono tutte o quasi da autori letterari: Borges, Pirandello, Pascal, Tolstoj, Manzoni, Tomasi di Lampedusa, Calderon, Poe, Pasolini, la Novella del Grasso Legnaiuolo, ecc. Moro – scrive al termine di quel secondo capitolo, dedicato al metodo dell’indagine – ha adattato “alla funzione del dire il suo linguaggio del non dire”. (E non è forse questa anche una definizione di se stesso? In Sciascia il mascheramento, il non-detto, il detto del non-detto, la reticenza è altrettanto fondamentale del dire stesso: franco e diretto).
Il capitolo chiave del volume, quello che ci spiega l’idea stessa della letteratura secondo Sciascia, è il terzo. Al lettore frettoloso, interessato a capire cosa lo scrittore pensi di Moro – “il meno implicato di tutti”, secondo la definizione di Pasolini – e del suo sequestro, questo terzo capitolo potrà apparire come una digressione, un vezzo da scrittore. Che bisogno c’è di parlare di Borges quando si deve dire se si è o no a favore della trattativa per la liberazione di Aldo Moro? Certo, questo della salvezza di Moro è uno dei temi del volume. Almeno in apparenza. O almeno, è il tema di cui Sciascia ha più parlato nelle interviste che precedono o seguono la pubblicazione del volume, quello su cui si sono appuntate le accuse dei suoi critici (Scalfari, per esempio). Tuttavia, ciò che Sciascia aveva da dire su Moro l’ha già detto in quelle interviste e dichiarazioni. Il libro non l’ha scritto per questo motivo.
La sua tesi, in definitiva, si può riassumere in una riga soltanto: Moro poteva essere salvato; era quello che lui stesso chiedeva con le lettere; si è disconosciuta questa volontà di Moro; lo si è isolato, in nome della ragion di Stato e lo si è lasciato uccidere. Responsabili della morte di Moro sono le Brigate rosse. Sono loro che l’hanno ucciso materialmente e per questo vanno punite; ma non meno colpevoli sono quelli che hanno lasciato cadere il tenue filo della trattativa, per mille ragioni: calcolo politico, odio verso Moro, falso senso dello Stato, inettitudine, ecc. La tesi “politica” del libro è tutta qui. Sciascia ha forse scritto il libro per argomentare questa tesi? No. A lui interessa un’altra cosa: la letteratura. Semmai è il nesso letteratura/verità che lo ha spinto a occuparsi di Moro.
Il terzo capitolo si apre con la citazione di un racconto di Borges: Pierre Menard, autore del “Chisciotte”. È uno dei testi con cui, dicono i critici, comincia il postmoderno, di cui Borges sarebbe uno dei padri nobili. Pierre Menard riscrive, parola per parola, riga per riga, il romanzo di Cervantes. E riscrivendolo realizza un libro diverso dall’originale. La parodia, il rifacimento, la citazione, il pastiche sono tutti modi della letteratura cosiddetta “postmoderna”. Che questo fosse l’intento di Borges, non è certo, per quanto l’effetto che Finzioni ha avuto nella letteratura occidentale, in Europa e negli Stati Uniti, è stato esattamente quello di aprire un nuovo spazio letterario. Ma Sciascia non legge Borges con una chiave postmoderna. Lo scrittore siciliano non è un emulo di Borges né di Calvino né di Pynchon. È piuttosto uno scrittore moderno, di una modernità settecentesca invece che ottocentesca, è uno scrittoreintellettuale, uno scrittore pamphlettistico.
Ma perché chiamare in causa proprio quel racconto di Borges? Lo spiega subito dopo aver riassunto il racconto. È ancora un’associazione di idee: “Questo racconto, questo apologo, mi si è riacceso n...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nuovi Argomenti (18)
  3. ARGOMENTI
  4. COME LAVORO
  5. E BRAVO SISIFO: RACCONTI PER LA CGIL
  6. SIRENETTA
  7. SCRITTURE
  8. CANTIERE
  9. Copyright