La lista nera
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La lista nera

  1. 288 pagine
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La lista nera

Informazioni su questo libro

Tutto ha inizio con una lista di nomi. Non sono nomi qualunque, ma quelli di pericolosi terroristi che minacciano la sicurezza internazionale tanto da dover essere eliminati uno a uno. Solo sette persone nelle segrete stanze di Washington conoscono l¿esistenza della "lista nera", tra queste il presidente degli Stati Uniti.
La minaccia è reale, ma deve rimanere top secret o si scatenerà il panico. Il primo di questi nomi è anche il più temibile: "il Predicatore", un fondamentalista islamico senza scrupoli che ha come unico scopo la distruzione degli infedeli. Incita all'odio attraverso messaggi che diffonde tramite il web e riesce a raccogliere attorno a sé una folla di proseliti che scatenano una serie incontrollabile di eventi mortali. Gli omicidi si moltiplicano, non solo negli Stati Uniti ma anche sul territorio inglese, dove cadono altre vittime. Troppe. Solo un uomo può compiere quella che sembra una missione impossibile: l'ex marine Kit Carson, soprannominato "il Segugio", che viene prontamente incaricato di trovare e uccidere il responsabile di quell'inferno. Kit, però, non sa che faccia abbia il suo nemico, dove si nasconda e quale sia il suo vero nome. Sarà un giovane ed espertissimo hacker a rintracciare per lui le postazioni del Predicatore e dei suoi complici utilizzando solo la tecnologia.
Si scatena così una guerra tra due schieramenti, totalmente diversi tra loro ma con un obiettivo comune: la distruzione dell'avversario. Con La lista nera Frederick Forsyth si riconferma un maestro del genere firmando un thriller che non lascia scampo, in cui attualità e fiction si mescolano grazie a un eccellente lavoro di documentazione che svela i retroscena dei servizi segreti britannici, americani, pachistani e israeliani.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804633631
eBook ISBN
9788852043918

1

Se glielo avessero chiesto, Jerry Dermott si sarebbe messo una mano sul cuore e avrebbe giurato di non aver mai recato intenzionalmente danno ad alcuno e di non meritare la morte. Ma ciò non valse a salvarlo.
Era metà marzo a Boise, nell’Idaho; l’inverno, riluttante, stava allentando la sua morsa. Ma sulle alte vette intorno alla capitale dello Stato c’era la neve, e il vento che scendeva dalle montagne era ancora pungente. I passanti erano imbacuccati nei loro caldi cappotti quando il deputato lasciò la sede dell’assemblea legislativa al 700 di West Jefferson Street.
L’uomo passò dall’entrata principale e scese i gradini che univano l’edificio di arenaria alla strada dove lo aspettava la sua auto. Come sempre cordiale, salutò con un cenno il poliziotto sulle scale accanto all’ingresso sul colonnato e vide che Joe, il suo fedele autista da tanti anni, stava girando intorno alla limousine per aprire lo sportello posteriore. Non si accorse della persona infagottata che si era alzata da una panchina per incamminarsi lungo il marciapiede.
Era avvolta in un lungo soprabito scuro, sbottonato davanti ma tenuto chiuso con le mani infilate dentro. In testa aveva una sorta di zucchetto ricamato, e l’unica stranezza, se qualcuno lo avesse osservato – il che non accadde –, era che sotto il soprabito non portava dei jeans ma una specie di veste bianca. In seguito si sarebbe appurato che si trattava di un dishdasha arabo.
Jerry Dermott era quasi arrivato allo sportello aperto quando si sentì chiamare: “Deputato”. Si voltò. L’ultima cosa che vide su questa terra fu un volto bruno che lo fissava, due occhi come persi nel vuoto, quasi stessero guardando un punto lontano. Il soprabito si aprì e spuntò un fucile a canne mozze prima nascosto sotto la stoffa.
In seguito la polizia avrebbe accertato che le canne avevano sparato contemporaneamente e che il fucile era stato caricato con pallettoni di grosso calibro, e non con i pallini che si usano per la caccia agli uccelli. Il tutto da una distanza di circa tre metri.
Visto che le canne erano molto corte, la rosa dei pallettoni fu piuttosto ampia. Alcuni sfrecciarono accanto al deputato su entrambi i lati e colpirono Joe, facendolo girare e barcollare. Sotto la giacca aveva una pistola, ma essendosi portato le mani al viso non fu in grado di usarla.
Il poliziotto in cima alle scale assistette alla scena, estrasse il suo revolver e scese di corsa. L’assalitore alzò le mani, tenendo il fucile con la destra, e gridò qualcosa. L’agente, non sapendo se la seconda canna avesse sparato, esplose tre colpi. Da poco più di cinque metri, ed essendo un tiratore esperto, non poteva mancarlo.
I proiettili centrarono in pieno petto l’uomo che gridava e lo sbalzarono all’indietro; piombò sul cofano della limousine, rimbalzò, cadde in avanti e morì riverso sul marciapiede. Alcune persone si affacciarono dall’entrata sul colonnato, videro i due corpi a terra, l’autista con le mani insanguinate e il poliziotto che si ergeva sopra l’attentatore impugnando con entrambe le mani la pistola, puntata verso il basso. Corsero dentro a chiamare i soccorsi.
I due cadaveri furono portati all’obitorio mentre Joe venne condotto all’ospedale, dove gli estrassero i tre pallettoni che aveva conficcati in volto. Il deputato era morto con il torace crivellato da oltre venti pallettoni d’acciaio che avevano perforato cuore e polmoni. Stessa sorte per l’assalitore.
Quest’ultimo, denudato sul tavolo dell’obitorio, non poté essere identificato. Non aveva documenti personali e, particolare inconsueto, era completamente glabro, a parte la barba. Ma i giornali della sera pubblicarono la sua foto e due persone si presentarono alla polizia: il preside di un college in periferia lo riconobbe come uno studente di origine giordana e la proprietaria di una pensione come uno dei suoi inquilini.
Gli investigatori passarono al setaccio la stanza dell’attentatore ucciso, prelevando molti libri in arabo e un computer portatile, il cui contenuto fu esaminato nel laboratorio della polizia. Rivelò una cosa che alla centrale di Boise nessuno aveva mai visto. Sull’hard disk vi era una serie di prediche, o sermoni, pronunciati da un individuo con il volto coperto che fissava lo schermo con occhi di brace e parlava in un inglese fluente.
Il messaggio era semplice e brutale. Il Vero Credente doveva seguire un percorso di abbandono dell’eresia per abbracciare la fede musulmana. Doveva, entro i limiti della propria coscienza, senza confidare e avere fiducia in nessuno, convertirsi alla jihad e diventare un autentico e leale soldato di Allah. Quindi doveva individuare un personaggio importante al servizio del Grande Satana e mandarlo all’inferno, poi morire come uno shahid, un martire, e salire nel paradiso di Allah dove avrebbe dimorato in eterno. I sermoni erano una ventina, e tutti diffondevano lo stesso messaggio.
La polizia passò le prove all’ufficio dell’FBI di Boise, il quale inoltrò l’intero dossier al J. Edgar Hoover Building di Washington DC. Al quartier generale del Bureau non rimasero sorpresi. Avevano già sentito parlare del Predicatore.
1968
La signora Lucy Carson entrò in travaglio l’8 novembre e fu subito portata nel reparto di ostetricia dell’ospedale della marina di Camp Pendleton, in California, dove lei e il marito risiedevano. Due giorni dopo nacque il suo primo e unico figlio maschio.
Fu battezzato Christopher come il nonno paterno, ma poiché l’anziano ufficiale della marina americana veniva chiamato Chris, per evitare confusioni il bimbo fu soprannominato Kit, con un riferimento del tutto casuale all’antico pioniere.
Altrettanto fortuita fu la sua data di nascita: 10 novembre, lo stesso giorno della fondazione del corpo dei marine nel 1775.
Il capitano Alvin Carson era di stanza in Vietnam, dove la guerra infuriava e sarebbe continuata con la stessa violenza per altri cinque anni. Ma la sua assegnazione era prossima al termine e così a Natale ottenne una licenza per riunirsi con la moglie e le due figliolette, e per abbracciare il suo primo maschietto.
Rientrò in Vietnam dopo Capodanno, per fare definitivamente ritorno nella grande base dei marine a Pendleton nel 1970. Non fu assegnato ad altra destinazione, e infatti rimase lì per tre anni, durante i quali poté assistere alla crescita di suo figlio.
In quel luogo, lontano dalle giungle micidiali, la coppia condusse una tranquilla esistenza tutta all’interno della base, tra l’alloggio di servizio, l’ufficio del capitano, il club, lo spaccio militare e la chiesa. Carson poté insegnare al figlio a nuotare nel bacino artificiale di Del Mar. In seguito avrebbe ripensato agli anni trascorsi a Pendleton come a un periodo felice.
Il 1973 vide il suo trasferimento a un’altra destinazione per ufficiali “con famiglia”, a Quantico, nell’immediata periferia di Washington. All’epoca il luogo era un’enorme distesa di terra incolta infestata da zanzare e zecche, dove un bambino poteva cacciare scoiattoli e procioni nei boschi.
La famiglia Carson viveva ancora alla base quando Henry Kissinger e il nordvietnamita Le Duc Tho si incontrarono a Parigi per sottoscrivere il trattato internazionale che segnò la fine ufficiale del decennio di stragi chiamato guerra del Vietnam.
L’ormai maggiore Carson tornò per la terza volta in Vietnam, un paese ancora pericoloso dal momento che l’esercito del Nord era pronto a rompere gli accordi invadendo il Sud. Ma Carson fu rimpatriato presto, poco prima della forsennata e caotica fuga dal tetto dell’ambasciata.
In quegli anni suo figlio Kit seguì le normali tappe di un bambino americano: tornei giovanili di baseball, lupetto negli scout e scuola. Nell’estate del 1976 il maggiore Carson e famiglia furono trasferiti in una terza enorme base dei marine: Camp Lejeune, nel North Carolina.
In qualità di comandante in seconda del suo battaglione, il maggiore Carson lavorava fuori dall’Ottavo quartier generale dei marine su “C” Street e viveva con la moglie e i tre figli in uno dei tanti alloggi di servizio per ufficiali. Non si parlava mai di cosa avrebbe fatto da grande il ragazzino. Era nato in seno a due famiglie: i Carson e il corpo dei marine. Si dava per scontato che avrebbe seguito le orme del nonno e del padre alla scuola ufficiali e che avrebbe indossato la divisa.
Dal 1978 al 1981 il maggiore Carson fu assegnato a una destinazione cui da lungo tempo ambiva di essere trasferito, la grande base della marina militare sulla sponda meridionale della Baia di Chesapeake, nella Virginia settentrionale. La famiglia rimase a vivere nella base, il maggiore s’imbarcò come ufficiale sulla Nimitz, l’orgoglio della flotta di portaerei. Fu da quell’osservatorio privilegiato che assistette al fallimento dell’Operazione Eagle Claw, il vano tentativo di liberare i diplomatici americani tenuti in ostaggio all’ambasciata di Teheran da “studenti” agli ordini dell’ayatollah Khomeini.
Il maggiore Carson era sul ponte laterale della Nimitz con un binocolo a lungo raggio e vide gli otto enormi elicotteri Sea Stallion levarsi con un rombo verso la costa per fornire appoggio ai berretti verdi e ai ranger che dovevano prelevare gli ostaggi e condurre in salvo i diplomatici liberati.
Li vide rientrare quasi tutti malconci. Prima i due finiti in avaria sulla costa iraniana perché, sprovvisti di filtri appositi, erano incappati in una tempesta di sabbia. Poi gli altri con a bordo i feriti, dopo che uno degli elicotteri aveva sfondato il parabrezza di un Hercules, trasformandosi in una palla di fuoco. Il ricordo di quell’azione assurda continuò a suscitargli grande amarezza per il resto dei suoi giorni.
Dall’estate del 1981 al 1984 Alvin Carson, ora colonnello, risiedette a Londra con la famiglia in qualità di attaché dei marine presso l’ambasciata di Grosvenor Square. Kit venne iscritto alla scuola americana di St John’s Wood. In seguito il ragazzo ripensò con nostalgia ai tre anni trascorsi nella capitale britannica. Era l’epoca di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, e del loro straordinario sodalizio.
Le Falkland furono invase e liberate. Una settimana prima che i parà inglesi entrassero a Port Stanley, Ronald Reagan fece una visita di Stato a Londra. Charlie Price fu nominato ambasciatore e divenne l’americano più popolare della città. Si organizzarono ricevimenti e balli. La famiglia Carson si mise in fila all’ambasciata e fu presentata alla regina Elisabetta. Il quattordicenne Kit Carson si prese la prima cotta per una ragazza. E il padre compì il suo ventennale nel corpo.
Il colonnello Carson fu promosso al comando del 2° battaglione, 3° reggimento dei marine con il grado di tenente colonnello e la famiglia si trasferì a Kaneohe Bay, nelle Hawaii, un luogo con un clima notevolmente diverso da Londra. L’adolescente cominciò a dedicarsi al surf, allo snorkeling, alle immersioni, alla pesca e alle ragazze, per le quali manifestò un particolare interesse.
Intorno ai sedici anni si rivelò un atleta formidabile, ma i voti scolastici dimostravano che aveva anche un’intelligenza estremamente pronta. Quando un anno dopo il padre fu promosso G3 e tornò nel continente, Kit Carson era un’Aquila scout e una matricola nel corpo di addestramento degli ufficiali della riserva. La congettura di qualche anno prima si stava dimostrando vera; il ragazzo era decisamente avviato a seguire le orme del padre nei ranghi dei marine.
Rientrato negli Stati Uniti, doveva prendere una laurea. Il giovane si iscrisse al college William e Mary di Williamsburg, in Virginia, dove risiedette per quattro anni in un convitto, studiando storia e chimica. Trascorse le tre lunghe vacanze estive frequentando la scuola di paracadutismo, quella per subacquei e la scuola allievi ufficiali di Quantico.
Si laureò a vent’anni, nella primavera del 1989, e ottenne contemporaneamente la mostrina per il grado di sottotenente dei marine. Il padre, ora generale a una stella, e la madre, entrambi gonfi d’orgoglio, presenziarono alla cerimonia.
La sua prima destinazione fu la scuola per giovani ufficiali dove rimase fino a Natale, poi la scuola ufficiali di fanteria fino al marzo del 1990, distinguendosi in varie discipline. Seguì poi la scuola ranger di Fort Benning, in Georgia, e con la mostrina dei ranger fu destinato a Twentynine Palms, in California.
Lì frequentò il centro combattimento terra/aria, noto come “I Pali”, e fu quindi assegnato al 1° battaglione, 7° reggimento nella stessa base. Poi, il 2 agosto 1990, un uomo di nome Saddam Hussein invase il Kuwait. I marine degli Stati Uniti tornarono in guerra e il tenente Kit Carson andò con loro.
1990
Una volta deciso che l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein non poteva essere tollerata, si formò una grande coalizione che si schierò lungo il confine desertico fra Iraq e Arabia Saudita, dal Golfo Persico a est alla frontiera giordana a ovest.
I marine intervennero con un corpo di spedizione agli ordini del generale Walter Bloomer che comprendeva la 1a divisione marine, al comando del generale Mike Myatt. A un gradino piuttosto basso della gerarchia militare c’era il tenente Kit Carson. Le truppe vennero schierate all’estremità orientale del fronte della coalizione, con alla destra solo le azzurre acque del Golfo.
Durante il primo mese, un agosto sorprendentemente caldo, l’attività fu febbrile. Si dovette sbarcare e posizionare lungo il settore l’intera divisione con i mezzi corazzati e l’artiglieria di copertura. Una flotta di navi giunse nel fino ad allora tranquillo scalo petrolifero di Al-Jubail per sbarcare le salmerie necessarie. Solo a settembre Kit Carson sostenne il colloquio per l’affidamento dell’incarico. Affiancò un maggiore veterano dalla lingua affilata, forse scavalcato di grado e per nulla contento di ciò.
Il maggiore Dolan scorse attentamente il dossier del giovane ufficiale. Alla fine vi colse un particolare inconsueto. Alzò lo sguardo.
«Da bambino ha vissuto a Londra?»
«Sissignore.»
«Gente strana.» Il maggiore Dolan terminò di esaminare il fascicolo e lo chiuse.
«Schierata di fianco a noi, a ovest, c’è la 7a brigata corazzata inglese. Si definiscono Topi del deserto. Gente strana, come dicevo. Chiamano topi i propri soldati.»
«Veramente si tratta di gerboa, signore.»
«Di che cosa?»
«Gerboa. Animali del deserto, come i suricati. Gli inglesi assunsero quel soprannome durante la Seconda guerra mondiale, quando combatterono nel deserto libico contro Rommel. Lui era la Volpe del deserto. Il gerboa è più piccolo, ma sfuggente.»
Il maggiore Dolan non rimase affatto colpito.
«Non faccia il saputello con me, tenente. In qualche modo dobbiamo cercare di andare d’accordo con questi Topi del deserto. Proporrò al generale Myatt di inviarla lì come ufficiale di collegamento. Può andare.»
I contingenti della coalizione dovettero trascorrere altri cinque mesi in quel deserto soffocante mentre le forze aeree alleate ottenevano il risultato di “ridimensionare” del cinquanta per cento l’esercito iracheno, cosa che il comandante in capo delle operazioni, generale Norman Schwarzkopf, aveva preteso prima di sferrare l’attacco. Per una parte di quel periodo, dopo essersi presentato a rapporto dal generale inglese Patrick Cordingley, comandante della 7a brigata, Kit Carson fece da ufficiale di collegamento tra le due forze.
Ben pochi soldati americani riuscivano a dimostrare interesse, o empatia, nei confronti della cultura dell’Arabia Saudita. Carson, con la sua naturale curiosità,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La lista nera
  3. RINGRAZIAMENTI
  4. PROLOGO
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. EPILOGO
  21. Copyright