Il cappotto di astrakan
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Il cappotto di astrakan

  1. 182 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il cappotto di astrakan

Informazioni su questo libro

Un personaggio inconsueto lascia la vita di provincia sulle rive del lago nativo per avventurarsi a Parigi. Le inquietudini, le aspirazioni, i giochi e gli amori del grande scrittore in una pagina naturale per ritmo e misura.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
Print ISBN
9788804469063
eBook ISBN
9788852043406

Il cappotto di astrakan

I

Verso la fine d’aprile del millenovecentocinquanta, non avendo trovato dalle mie parti e non pensando di trovare neppure in altri luoghi vicini, o per dir meglio in Italia, il terreno favorevole alla nuova vita che durante la guerra mi ero proposta per il caso che ne fossi scampato, pensai di portarmi a Parigi, senza programmi di alcun genere e solo per viverci qualche mese. Chissà, mi dicevo, che non abbia a cogliervi il bandolo di un avvio e magari a trovarvi la mia fortuna.
Andare a Parigi era a quell’epoca, ed è stato sempre, come darsi a un mestiere, a una professione o a un corso di studi. Vivere in quella gran città voleva dire imparare, capire il mondo, fiutare il vento. L’avervi passato qualche anno e magari soltanto qualche mese, poteva dare gloria per tutta la vita anche a un tipo qualunque, solo che avesse saputo raccontare le sue gesta, immancabili, perché nessuno poteva vivere a Parigi senza capitare dentro casi e vicende degne di venir raccontate.
A Parigi avevo già avuto occasione di metter piede una ventina d’anni avanti, ma solo per pochi giorni, funestati da un guaio che mi costrinse a lasciar la città, della quale non avevo potuto vedere che una stazione, la gare de Lyon, e poche strade.
Da Lione, dove mi ero stancato di vivere alla giornata, non mi parve giusto tornare in Italia senza aver visto quella che, al dire di molti, era la capitale del mondo. Progettai quindi di dedicare a Parigi almeno una settimana e di profittarne per far visita a un mio amico e conterraneo del quale avevo appreso casualmente l’arresto e l’imprigionamento alla Santé.
Mi era sembrata perfetta opera di misericordia corporale andare a prestar soccorso o almeno conforto a quell’infelice, ma poco mancò che non mi prendessero per un suo complice o gregario e non mi associassero alla sua sorte, che fu miseranda, perché scampò per miracolo alla deportazione nella Guiana ma non al reclusorio, nel quale stazionò molti anni.
Quattro o cinque giorni in tutto ero rimasto a Parigi, passati in gran parte negli uffici di un commissariato di polizia del secondo arrondissement, in rue Thorel e nella camera di sicurezza di quel bel posto, che aveva tuttavia un nome augurale: Bonne-Nouvelle. Il tempo necessario per chiarire la mia posizione, che era la più limpida del mondo: avevo lavorato qualche mese a Nizza come esattore di affitti per un grosso proprietario di case popolari, poi non sentendomela più di far scale con una borsa al collo, avevo prestato opera di fattorino in un’agenzia giornalistica dalla quale venni presto licenziato per eccesso di personale. Da Nizza ero passato a Lione, dove non mi bisognò cercar lavoro, perché il giorno stesso del mio arrivo incontrai per strada un compaesano o quasi, il cuoco Angelo Morandi, chef all’Hôtel Carlton, che mi assicurò il vettovagliamento giornaliero per tutto il tempo che fossi rimasto in quella città.
Ogni sera verso le nove accedevo da una porta di servizio alle cucine del Carlton, infilavo una giacchetta bianca da sguattero e mi sedevo a un tavolo dietro una colonna, dove il Morandi mi passava casseruole mezze piene e piatti di portata quasi intatti. Sceglievo qua e là, mi servivo e mangiavo a sazietà. Prima di andar via prendevo uno di quei lunghi pani francesi detti baguettes, lo tagliavo a metà spessore, lo riempivo di pâté, fette di arrosto, formaggio, jambon e quant’altro capitava, poi me ne andavo con sottobraccio il pane imbottito di un intero pasto per il giorno dopo.
Capitava qualche volta che il direttore venisse in cucina a dare ordini per qualche pranzo speciale dell’indomani. In quei casi mi alzavo e girando intorno alla colonna mi mettevo a una macchina per lucidare i coltelli, della quale azionavo a mano la ruota feltrata, passando tra la ruota e un disco ugualmente feltrato i coltelli che prendevo da una cesta sempre piena.
Durante il giorno passeggiavo lungo il Rodano e la Saona, sostavo sui ponti e per lo più giocavo a biliardo in un caffè del quartiere Croix-Rousse con fannulloni e figli di famiglia ai quali mi riusciva di carpire, ora di sera, qualche decina di franchi per le mie piccole spese.
Sarei potuto rimanere a Lione per anni, o almeno finché il Morandi era chef al Carlton. Per dormire, avevo una stanza ammobiliata a due letti in società con uno studente che pagava il misero affitto anche per me, in cambio di metà della mia baguette carica di saporite pietanze. Gli portavo talvolta una pernice o un piccione farcito, avvolti in carta oleata, oppure una salsiccia. Tutta roba fredda, con la quale lo studente si nutriva rabbiosamente, a grandi bocconi, ingozzandosi e digerendo male, come si vedeva dalla sua faccia coperta di brufoli fino alla radice dei capelli. Era un giovane di provincia, figlio di esercenti, di Paladru, modesto borgo vicino a un lago del quale parlava come di un paradiso perduto e dove andava un paio di volte al mese portandosi dietro la biancheria sporca da far lavare in casa. Si chiamava Adolphe e a quest’ora sarà notaio o avvocato a Paladru e forse a Chambéry, se ha fatto strada nella sua professione.
Una sera Adolphe tornò in camera con un giornale e me lo gettò sul letto dicendomi:
«Guarda cosa fanno quelli del tuo paese.»
Lessi che un mio conterraneo, proprio del mio paese, era stato arrestato a Parigi con altri due italiani per furto con scasso. I tre avevano forzato, di notte, la porta d’un negozio di tabacchi, dal quale erano passati in un’oreficeria adiacente praticando un buco nel muro divisorio. Benché carichi di catenelle e di orologi, ripassando per la tabaccheria vollero servirsi di sigarette. I gendarmi, incontrandoli con degli scatoloni sottobraccio, li fermarono e li portarono al posto di polizia dove i tre non finirono più di cavar roba rubata d’indosso.
L’arrestato era un giovane di buona famiglia, che pensavo al paese e che doveva invece essersi mosso, anche lui attirato dalla Francia e in particolare da Parigi. Come me, aveva sentito decantare la gran città dal Rapazzini e da altri nostri amici anziani che ci avevano vissuto.
Appena arrivai a Parigi credetti bene andarlo a visitare in carcere e vedere poi la città, ma la mia richiesta all’autorità giudiziaria destò dei sospetti e fu vero miracolo se, grazie alle dichiarazioni del mio principale di Nizza e del cuoco Morandi, e dopo una razione di pedate e di schiaffoni che mi fu somministrata paternamente da un gendarme, fui rilasciato, con l’ingiunzione di lasciare Parigi entro quarantotto ore e la Francia entro sette giorni.
La Ville lumière in quei frangenti mi era apparsa come l’anticamera d’una prigione, e non mi parve vero lasciarmela alle spalle, per tornare a Lione, raccogliere i miei pochi effetti e poi restituirmi al paese e alla compagnia del mio solito caffè, con ben poco da raccontare, anzi convinto che fosse meglio tacere sulle mie vicende parigine.
Da allora, tra guerre e altri guai erano passati quasi vent’anni: quanti bastavano per dimenticare quella mala accoglienza e per farmi un’altra idea di Parigi, che doveva essere, a quanto avevo letto in certi libri, un paradiso dell’arte e delle lettere e soprattutto una specie di città libera, dove ognuno poteva andare e venire a suo piacimento, fare l’artista, il poeta o il gabbamondo, anche con pochi mezzi, se era vero, come pareva, che Parigi doveva venir considerata la capitale della buona vita ma anche della bohème, cioè della vita povera, possibile a chiunque, emigrati, esuli, senza patria e addirittura latitanti o clandestini, con denari oppure senza. Non erano vissuti, dei pittori, in un casamento di rue de Vaugirard, la Ruche, simile a un lazzaretto o ai Granili di Napoli? E altri, tra i quali Picasso, in un lavatoio di rue Ravignan?
Certo non erano più i tempi del pittore Soffici, che arrivato a Parigi nel 1900, aveva conosciuto di persona Picasso, Degas, Modigliani, Matisse, Apollinaire. Non era più neppure il tempo tra le due guerre, durante il quale De Chirico, Tozzi, Severini o De Pisis avevano fatto a Parigi la loro stagionatura. Del resto non andavo in Francia sulle tracce di quei nomi dei quali avevo allora scarsa nozione, ma dietro le parole del Rapazzini, del Códega, del Malingamba e di altri del mio paese che vi avevano trafficato, anche senza far fortuna, arricchendosi di una cognizione del mondo e di un’esperienza che non si poteva fare altrove.
Per me, che subito dopo la guerra avevo cominciato a far buoni affari, non era impossibile mettere insieme quanto occorreva per una simile impresa. Andare a Parigi e rimanerci qualche mese era questione soltanto di montare un bel giorno in treno a Gallarate, dove passava l’Orient-Express, e scendere alla gare de Lyon.
Avrei rivisto, traversando la Svizzera, la vallata del Rodano, Sierre, Sion e Granges-Lens, il villaggio nelle cui vicinanze avevo vissuto due mesi nel 1944, al Campo disciplinare per internati dove ero finito in seguito ad un errore e dal quale infatti fui liberato con le scuse o quasi del Governo federale.
Il Campo era stato aperto sul greto del Rodano ed era una specie di dipendenza del Reclusorio federale di Crête-Longue.
Per la mia buona condotta mi era stato consentito di allontanarmi dalle baracche nelle ore di riposo, fino alla riva del Rodano, che lambiva il nostro Campo. Ci andavo ogni giorno e mi sedevo sopra un frangi-onde a guardar passare sull’altra riva i treni pieni di gente ai finestrini.
Su uno di quei treni, sarei passato ora con la valigia sopra la rete e un bel cappello in testa, libero e padrone di fermarmi in qualunque posto o di passar via, indifferente alle piccole stazioni e perfino a quella di Losanna, che pure avrebbe potuto dirmi molto se mi fossi lasciato prendere dai ricordi.
Ma che cos’è più il passato, triste o lieto, per un uomo giovane che si mette a far nuovi passi nel mondo? Sarei transitato senza alcuna emozione per quei luoghi, dove avevo lasciato sudore e anche sangue, perché un giorno ero stato ferito di coltello alla schiena da un alsaziano durante una rissa. Si lavorava al nivelage, cioè a spianare e pulire un terreno cosparso di pietre e sabbia durante le antiche piene del Rodano, e le risse erano quasi giornaliere tra gli elementi eterogenei di quel Campo.
Stando al finestrino, tra Visp e Sion, avrei forse fatto in tempo a riconoscere il villaggio, il ponte sul fiume e il piccolo Hôtel Suisse, davanti alla stazione, dove ero entrato a bere un bicchiere di Apfelmost la mattina che mi avevano liberato dal Campo, con in tasca il foglio di via per Mendrisio, in Canton Ticino.
Chi l’avrebbe mai detto, quando seminudo spalavo sabbia o correvo sui decauville, che di lì a qualche anno sarei passato sull’altra riva del fiume come un signore, diretto a Parigi e con le carte in regola?
Fu certamente questo bisogno di rivincita a decidermi, perché da un giorno all’altro mi trovai sul piede di partenza.

II

Quando uscii sul piazzale alla gare de Lyon, presi un taxi e mi feci portare sul boulevard du Montparnasse, il campo di battaglia del Rapazzini, che al caffè, quando raccontava la sua vita a Parigi, nominava quel celebre viale come una sua proprietà.
Scesi dal taxi davanti alla gare Montparnasse e cominciai a guardarmi attorno in cerca di un alberghetto. Ne trovai uno in un casamento di rue de l’Arrivée. Dal padrone, o tenutario, che stava seduto in maniche di camicia e con un mezzo sigaro in bocca dentro una cabina vetrata ai piedi della scala, mi fu assegnata per pochi franchi una stanzetta triangolare all’ultimo piano, con la finestra che guardava sui binari.
La stazione con la sua tettoia, rue de l’Arrivée, rue du Départ, il piazzale e il lungo serpente del boulevard erano sotto di me, ormai a portata di mano.
Ne cominciai subito la ricognizione, dentro un raggio che comprendeva il cimitero di Montparnasse e aveva per limiti rue de Vaugirard e boulevard Saint-Michel, dove mangiavo due volte al giorno in piccoli ristoranti nascosti nelle più scure traverse.
Parigi mi andava a genio e me ne accorsi subito, tanto che decisi di restarci fin che avessi avuto denaro, cominciando con l’impormi qualche economia per resistervi più a lungo. La prima cosa da fare era cercare una camera ammobiliata.
La vedova Lenormand, davanti alla quale mi presentai su indicazione di una lattaia, abitava in rue de Fleurus, poco lontano da Montparnasse, sul lato destro di boulevard Raspail, verso il Luxembourg. Il suo appartamento era al primo piano d’una casa grigia, con le persiane marce e scolorite, senza nessun balconcino e una scala che prendeva la sua scarsa luce da un lucernaio annerito dalla fuliggine. Per la scala saliva dalle cantine, o scendeva dalle soffitte, l’odore delle introvabili dejezioni dei gatti, numerosi in tutta la strada e attivissimi di notte, quando andavano e venivano tuffandosi dentro e fuori dalla cancellata del Luxembourg.
Quando la vedova mi aprì e sentì la mia richiesta, mi disse che non aveva mai affittato camere in vita sua e non intendeva affittarne. Ma per urbanità, per curiosità o per qualche altro motivo, mi fece entrare e mi indicò una poltrona dentro un salotto pieno di ninnoli, di tappetini coi fiocchetti, di pizzi, fiori finti, ritratti e altre cianfrusaglie. Sedette davanti a me, con la finestra alle spalle per vedermi in piena luce e ribadì che pur disponendo di una camera non intendeva affittarla, perché fortunatamente viveva del suo e non aveva bisogno di quel triste mestiere per vivere.
Era una donna sui sessantacinque anni, grassa e un po’ elefantesca nei movimenti, con un enorme viso senza sopracciglia nel quale si sperdevano due grossi occhi glauchi. Sotto un naso grasso e curvo, tutto bucherellato dai pori della pelle dilatati oltre misura, alcuni grossi peli dorati che avrebbe potuto radere o strappare e che invece tollerava, erano il segno d’un certo suo compiacimento nell’apparire donna forte di carattere, collaudata dalla vita e ormai priva di affetti ma senza rimpianti, come dev’essere chi è solo al mondo e non ha da aspettarsi che una fine pulita e decorosa. In testa portava un berretto basco piegato su di un’orecchia. Intorno al collo aveva un foulard bianco fermato da una spilla. Indossava una camicetta grigia con due taschini e una gonna color bleu come il basco. Ai piedi aveva degli stivaletti sopra i quali calzava un paio di galosce. Pensai d’averla sorpresa mentre stava per uscire e guardandole i piedi dissi che fuori non pioveva.
«Pioverà» rispose.
Non obbiettai e chiesi se non conoscesse qualche signora, nei dintorni, disposta ad affittare una camera.
Per capire se ero degno di una casa e di una signora che doveva esserle venuta in mente, m’interrogò a fondo. Volle sapere chi ero, donde venivo, perché ero a Parigi, se ero scapolo o ammogliato, quanti anni avevo e per quanto tempo mi occorreva la camera. Quando ebbe tutte le risposte desiderate, si concentrò prendendo in mano la giogaia di carne e pelle che aveva sotto il mento, poi allargò le gambe sotto la gonna spessa come una coperta, batté una manata sul ginocchio destro e guardandomi in faccia disse:
«Puah! L’affittacamere! Eppure mi ci fate pensare. Sono sola, ho una casa grande, niente da fare. Un buon giovane, che non rincasasse tardi la sera, che non portasse nessuno in casa, intendo nessuno, neppure un amico, forse lo terrei.»
Si alzò e mi fece segno di seguirla. Le andai dietro, in un odore di vaniglia che emanava dalle sue vesti, fino in fondo a un corridoio, dove aprì una porta e m’introdusse in una camera che pareva fatta apposta per me, con un lettino bianco in un angolo, due grandi librerie con gli scaffali sovraccarichi di bei volumi rilegati, un tavolino presso la finestra, una poltrona, un divanetto di mezza misura, due sedie, due grandi armadi, uno dei quali con lo specchio, e un bel tappeto sul pavimento.
«La toilette è qui fuori ed è indipendente» disse indicandomi una...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Piero Chiara
  3. Il cappotto di astrakan
  4. Introduzione di Marco Forti
  5. Cronologia
  6. Bibliografia critica essenziale
  7. Nota al testo di Mauro Novelli
  8. IL CAPPOTTO DI ASTRAKAN
  9. Copyright