
- 384 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Nuovi argomenti (28)
Informazioni su questo libro
Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Emanuele Trevi, David Markson, Marco Mantello, Massimiliano Parente, Daniele Boccardi, Alessio Caliandro, Giovanni Heidemberg, Francesco Macrì, Giordano Meacci, Francesca Vitale, Marco Giovenale, Flavio Santi, Giuseppe Genna, Mario Benedetti, Marco Mancassola, Pier Antonio Tanzola, Alfredo Panetta, Gian Mario Villalta, Carlo Carabba, Mauro Martini, Mario Desiati, Claudia Ruggeri, Andrea Gareffi, Leonardo Colombati, Paolo Vanelli, Sebastiano Leotta, Vittorino Curci, Daniela Marcheschi, Alessandro Piperno.
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Informazioni

RAME SULLE BENDE
Mario Benedetti
Sfarzo 1
Perú
Lamine e piastre. Dischi d’oro.
Spilloni e pendagli, uccelli e nuvole.
Il cranio con i denti di quarzo rosa.
La falsa testa, di stoffa fine e piume.
Cristallo di rocca, topazi, venuti dal mare.
Conchiglie, sulle tombe, venute dal mare.
Le turchesi negli occhi aperti degli idoli.
Rame sulle bende e i corpi delle mummie.
Dalla resina nera delle pupille a mandorla
pendono traforati smeraldi di lacrime.
Sfarzo 2
Vernissage. Rue de Beaux-Arts, Parigi.
Sfolgoranti i colori di Sebastian Matta.
Toni del rosso, del blu, del brunito.
Deflagrato, L’oroscopo del giardino.
Christie’s. Fine costumes.
In azzurro e oro, a righe, di raso,
l’abito con blu, rosa, and gold flowers.
Di seta azzurra ricamato di seta rosa.
Atelier. Parigi, Rue de Verneuil.
Acciaio ossidato. Liberty, Molto Fuoco.
Poltrone e divani, lampade.
Stoffe rosse e blu, chemiluminescenti.
Sfarzo 3
Vaso di fiori. Fiori in vaso bianco.
Reuven Rubin, Mané-Katz. Oli su tela.
Stella alpina, stella alpina del padre.
Vegetale fantastico acquerellato, sec. XVII.
Timo violetto, timo rosa delicato. Suffrutici.
Ventagli. Seta e paillettes su tulle.
Spicastri, stecche in avorio e madreperla.
Carta acquerellata, stampata, a palmette.
Smalti 1
Impasto vitreo colorato su metallo. L’oro,
l’argento, il bronzo, il rame. Gli alveoli.
A sbalzo. O placche. Mille celle,
e incastonati cammei, perle, coralli,
l’Altare.
Finimenti. Lamine d’oro, traforate in turchese.
Foglia. Turchese nel blu, le nervature d’oro.
Milano. Madrid. Cividale del Friuli.
Incavato oro. Sabbia, potassio, piombo,
e ossidi.
Smalti 2
Guarnizioni, cinture, else di spada,
scettri, armature, elmi, amuleti.
Medaglioni, orecchini, anelli, collane,
calici, acquamanili, piatti, monete.
Protesi, scintillanti.
Smalti 3
Il corpo, colato in vetroresina,
si muove lentissimamente.
Dove? Sembra fisso, vuoti i movimenti.
E’ là? Si muove, un poco sempre.
Tra irrealtà e lacrime.
Supernove 1
Candida rosa, fiore maturo,
la mente sospesa dal corpo si disnoda.
Grande Nube. Bianca, fucsia. Bianchi
innumeri frammenti nel nero.
Corte celeste, moltitudine volante
di banco in banco, di foglia in foglia.
Aurea fiamma degli spiriti assolti.
Eco di luce che non da sé è vera.
Supernove 2
Stella in esplosione. Anelli
concentrici. Cede
la vista, cede la memoria…
sicut oculus videns excellentissimum sensibile.
Oh, …come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova…
eco di luce che non da sé è vera.
IL VENTISETTESIMO ANNO
Un racconto di formazione
Marco Mancassola
Prologo
Un giorno, nel novembre del novantasette, mentre tornavo in macchina con un compagno di corso da una lezione su Jung, e una pioggia semi-ghiacciata iniziava a rigare il parabrezza, e l’asfalto bagnato rifletteva un doppio quasi perfetto dei palazzi e degli alberi sul ciglio della strada, e i lampioni iniziavano ad accendersi in quell’aria grigiastra dei pomeriggi invernali (quando si avvicina l’ora delle biblioteche che chiudono, delle soste serali negli ipermercati, dei lenti rientri e dei riscaldamenti alzati), da una strada laterale sbucò un’altra macchina. Forse, per poco meno di un secondo, avemmo il tempo di frenare. Con uno sguardo incredulo vidi la testa del guidatore girata dall’altra parte, il muso della macchina avanzare, le gocce di pioggia illuminarsi in prossimità dei suoi fari, mentre il mio compagno sterzava inutilmente a sinistra. Poi lo schianto sul muso ci fece ruotare e mentre mi aggrappavo al cruscotto, ancora sospeso nello stupore, pensavo che doveva pur esserci un modo di non farmi male. Il colpo successivo ci prese sul fianco, dalla mia parte, e provocò un rumore di lattina schiacciata. L’istante seguente stavo sollevando la testa, col senso di caldo sul mento per il sangue che grondava dal naso, e l’impressione di non avere più bocca, quasi fosse stata letteralmente asportata. Forse in realtà era passato del tempo, perché oltre il parabrezza vedevo il traffico fermo e un paio di persone, in piedi davanti alla macchina, sbirciare dentro l’abitacolo. Attraverso le incrinature e la pioggia sul vetro, avrei voluto incontrare i loro sguardi. Avrei voluto sbloccare la portiera, uscire e assicurare che stavo bene, qualche graffio al massimo, davvero, sarei andato a casa e mi sarei medicato. Inghiottivo sangue e frammenti di denti. Il braccio destro era inerte come un’appendice di gommapiuma, e un dolore saliva a ondate dalle gambe come una scossa di terremoto. Dovevo fare qualcosa e non sapevo decidere. Chissà: in una situazione simile qual era la normalità, la giusta reazione?
Di colpo era notte e non vedevo più nessuno. Forse finalmente ero uscito dall’abitacolo, perché ero in ginocchio e sentivo il duro dell’asfalto. Dietro di me la macchina sembrava lì da sempre, addosso a quel platano. Ad appoggiarci la mano, ci si sarebbe stupiti di trovarla calda, come un animale appena morto. Il silenzio era completo e io, con la vista annebbiata dopo aver spaccato il parabrezza con la faccia, mi tastavo incredulo la maglietta zuppa di sangue. Forse mi assopivo e mi accorgevo di essere sveglio ogni volta che venivo scosso, così mi pareva, dall’eco di un potentissimo botto. Di lì in poi, solo momenti confusi e mischiati. Una luce potente puntata addosso, mentre qualcuno mi preme un tampone sul naso. Una serie di numeri che mi esce dalla bocca, misteriosamente, prima di capire che una voce mi ha chiesto il telefono di casa, e io sto rispondendo in modo automatico. Su un lettino di ospedale, il sangue ingerito mi torna su in un conato, imbrattando tutto il lenzuolo. Se non avessi il naso intasato di sangue secco e garze, resterei sconvolto da questo odore di sangue e succhi gastrici.
Quando mi svegliai era buio e tremavo. Dal corridoio veniva luce, e sentivo qualcuno aggirarsi in soggiorno. Poco dopo D. comparve sulla soglia. Mi guardò e mi chiese cosa mi fosse successo. Non ebbi dubbi. Con voce impastata gli raccontai il pomeriggio, della macchina schivata per un pelo, della pioggia affilata come un pugnale mentre davanti al portone cercavo le chiavi di casa, della doccia bollente che non era servita a scaldarmi. Per questo mi ero messo a letto. Ora continuavo a sbattere le palpebre, come cercando di eliminare un alone fastidioso. Cercai con lo sguardo la sveglia sul comodino: fu allora, a pochi minuti dalle nove di sera di quel giorno di novembre, che riconobbi per la prima volta in me, come un organo che finora ignoravo di avere (forse un organo piccolo e inservibile, oppure un altro che non si era mai infiammato, né aveva provocato prurito o dolore), la traccia di un doppio ricordo. Oh, naturalmente uno solo poteva essere logico, necessario. Eppure anche l’altro aveva la nitidezza, il peso, la persistenza (come una scheggia nella pelle) di un ricordo e non di un sogno: i denti spezzati, il sapore del sangue. Mi sentivo esausto. Chiesi dell’acqua. D. tornò con un bicchiere e un termometro. Mi carezzò la testa mentre passavano i minuti e poi, studiando il termometro in controluce, lesse con tono cauto: trentanove e due.
Giorni dopo, quando il gusto delle spremute, dei tè, delle aspirine, la luce che feriva gli occhi, il male alle ossa, l’odore di chiuso e di sudato nella stanza, quando tutto questo si era dissolto (con quella rapidità con cui si dissolvono a volte, appena inizia la guarigione, le sensazioni della malattia), riflettei sulla mia febbre. Era inverno, non era poi strana. Ma non smettevo di chiedermi: era il cervello a essere ipersensibile, prima di una malattia, oppure al contrario… Non era così improbabile: dopo certe intuizioni, certe scoperte della mente, uno shock poteva prendere il corpo, lasciarlo stanco e senza difese. Mi era già successo. Ripensavo al Giovane Törless e alla febbre altissima, inspiegabile, che mi aveva preso appena finito di leggerlo. Brucia innocenza brucia. Brucia ingenuità, brucia incoscienza. Avevo quattordici anni e fu il mio vero ingresso, credo, nel giardino umido della letteratura.
Ora ne avevo ventiquattro. Molte febbri erano passate, e anche molti tremendi incidenti. Traumi cranici, nasi fratturati, gambe paralizzate. Quante volte avevo provato quelle sensazioni, ogni volta per scuotermi e dirmi che avevo immaginato. Era, mi dicevo, il frutto proibito trovato in quel giardino. Vieni, serpente. Vieni tentazione, vieni tuono che punisce… In fondo è sempre quella storia: una scelta che non è una scelta, qualcuno che si spinge troppo in là e non può ritornare. Avevo dato un morso troppo profondo, scalfito la buccia dell’immaginazione, e ora eccomi condannato a imboccare, continuamente, bracci paralleli della realtà. Bracci sterili, vicoli ciechi. Deviazioni inutili, come in quei bivi in cui si lascia inavvertitamente la via principale. Dove potranno portare? In seguito riconoscevo lo spunto casuale, la parola ipnotizzante, che come un falso segnale mi aveva attratto sulla corsia sbagliata. Tornavo alla realtà, senza fiato, come qualcuno che ha fatto una corsa mentre gli altri non se ne accorgevano. Dove sei stato?, poteva chiedermi qualcuno col sorriso un po’ cattivo che si rivolge ai distratti. Io tacevo. Non ero pazzo: dopo la prima illusione, riconoscevo sempre la strada principale.
Doveva essere un pegno. Un contrappasso per un bene ancora non chiaro. Frammenti di storie indesiderate sembravano afferrarmi e strapparmi via, vedute possibili si aprivano al mio fianco, di sorpresa, simili a bocche di giganteschi lombrichi. Qualcosa di spaventoso si agitava sotto la superficie della mia vita (non sapevo, o non consideravo, quanto quella sensazione potesse essere comune). In realtà non sempre erano brutte immaginazioni. Talvolta erano spezzoni di film (quel tipo di film caldi e intensi che sanno dare un senso anche alle sere più sprecate), piccole bolle di paradiso. Eppure perché, mi chiedevo in quei giorni che seguivano la mia febbre, sempre più spesso vivevo le sensazioni di un incidente? Doveva essere un’ossessione. Un personale spavento, la mia idea privata dell’inferno in agguato. Quel momento in cui qualcosa emerge dall’abisso, dopo averti atteso da sempre. Uno, due, una catena. Gli incidenti si legavano l’uno all’altro come le punte di uno stesso iceberg, facendo apparire il mare in mezzo come una pozza provvisoria, una patetica copertura.
Non potevo scappare. Non si può mai realmente scappare, e il mondo ha limiti così stretti. Un giorno l’immaginazione si sarebbe rivelata previsione. Sembrava così naturale da risultare banale, e per questo doppiamente triste. Ero ancora nell’età in cui tutto sembra pieno di fatalità, e anche questo è un modo di tracciare piste forzate. La mia immaginazione (questa cosa che ero io, e al tempo stesso mi mostrava cose che io non sapevo) mi proiettava in avanti. Era l’immagine di un fatto a venire. Non sembrava esserci altra direzione. A meno che, al contrario…
È la fine del prologo. È l’imbocco della via. Ora so che nessun possibile sarà più raccontato, se prima non saprò salvare il passato. Mentre vado per la città, siedo a una scrivania, resto steso nel buio, cresce in me l’idea di questa priorità. Può essere, chiaro, niente più che una suggestione. Chissà se in questa storia di strade che deviano all’infinito, di ricordi da sciogliere come i crampi di un muscolo, io finalmente troverò il mio ruolo. Ma almeno so che cosa successe. Se quel giorno di fine novembre è rimasto così nitido, segnato nel mio diario, commemorato ogni anno come il giorno di una seconda nascita, è perché per la prima volta seppi distinguere: immaginazione e ricordo. Non frammenti di mondi paralleli, ma pezzi di vero tempo trascorso. Non da me, naturalmente. L’esperienza degli incidenti continuava a essermi materialmente estranea. L’idea di avere in me la memoria di un altro mi colpì sotto la pioggia, in quel pomeriggio di luce incerta, trapassò i miei vestiti e gelò le mie ossa. Non c’era poi tanta scelta: se quella memoria non era mia, apparteneva a qualcun altro. Non mi era difficile, davvero, capire a chi.
Il ventisettesimo anno
Ha due fratelli. Dei due l’uno è vivo, l’altro è morto. La storia della morte di quel fratello ha senza dubbio un inizio, ma lui non la ricorda. Aveva sette anni quando il fratello ne compì diciotto, e iniziò a guidare. Hans ritiene che gli incidenti siano cominciati subito. Non ha, davvero, nessun ricordo preciso del primo. Quel che ricorda è che a casa loro le macchine cambiavano spesso, e non perché fossero ricchi. Erano macchine piuttosto grosse (suo padre di lavoro guidava camion, e non si adattava alle utilitarie) ma comprate usate e vecchissime. Quelle che non sfasciava suo fratello, morivano al primo inverno e restavano magari abbandonate per mesi nel cortile dietro casa. Raramente Hans ci saliva. Chissà come, ci finiva sempre intrappolata qualche mosca, in quelle auto ferme. A passarci vicino, le mosche si agitavano contro i finestrini come a chiedere istericamente aiuto. Dopo qualche giorno, le si vedeva stecchite sui sedili di pelle.
Non sa come quelle auto lasciassero poi il cortile. Lo stupisce il numero di cose che non ricorda di quegli anni. Cose che la sua memoria ha lasciato andare o, più facilmente, cose a cui non prestava attenzione. Non lo sapeva, ma quelle macchine stavano lasciando il segno. Ancora oggi suo padre è perseguitato da un ufficio pubblico che chiede soldi per lontanissime tasse automobilistiche. Con quel viavai di mezzi, fu forse normale far confusione su qualche pratica. Ogni volta che l’ufficiale giudiziario si presenta alla porta, suo padre sa di cosa si tratta. Sa che verrà minacciato di vedersi sequestrare i mobili di casa, sa che dovrà allargare le braccia e spiegare la sua storia. È lunga e sempre uguale. Suo padre ha quasi settant’anni, e vorrebbe essere lasciato in pace.
Per interi periodi, di domenica, uscivano con uno dei camion: Hans, sua madre e suo padre. Su quella cabina altissima, si sentiva osservato e forse deriso. Era già in quell’età in cui si detestano le stranezze della propria famiglia, e a quanto ne sapeva nessun altro, di domenica, andava a trovare i parenti in camion. Era l’inizio degli anni 80, gli anni, pareva, in cui la vita privata delle persone iniziava a diventare impossibile senza il possesso di una macchina. E infatti suo padre finiva sempre per ricomprarla. E suo fratello per guidarla di notte. Hans trova incredibile pensare come tutto si sia ripetuto, per volte e volte. Lui era lì, ai margini di quella catena. Non capiva granché. Doveva essere così piccolo, distratto e insensibile.
Degli incidenti, il primo che ricorda è quello in cui suo fratello sfondò una vetrina, uscì da solo dall’auto accartocciata, tornò a piedi in piena notte in stato confusionale, e si infilò a letto. La polizia non dovette fare altro che seguire le tracce di sangue. Hans, che dormiva con lui, si svegliò al mattino con due infermieri nella stanza, che cercavano di convincere suo fratello a seguirli nell’ambulanza. Non sa perché sua madre non sia venuta a prenderlo, risparmiandogli quella scena. Ancora oggi, è una cosa che le rimprovera. Le rimprovera anche di quell’altro mattino in cui lo vestì, con mani fredde e poche parole, e lo mandò a scuola. Lui all’alba l’aveva sentita rispondere al telefono, e poco dopo era suonato il campanello della porta. Quel mattino arrivò a scuola e proprio davanti, piantata contro un platano, c’era quella che al tempo era la loro macchina. Decine di bambini la circondavano, scherzando a voce alta su quella carcassa, eccitante come uno scheletro di balena su una spiaggia. Hans cercò di sgattaiolare dentro ma quelli lo videro, gli corsero inc...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Nuovi Argomenti (28)
- DIARIO
- LAURA BETTI IN GRECIA
- QUESTO NON È UN ROMANZO
- SCENA E VERO
- LETTERE SU UN ROMANZO
- SCRITTURE
- LA RAGAZZA DAL CAPPELLO ROSSO
- CANTIERE
- GIORNALI DI BORDO
- Copyright