
- 384 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Nuovi Argomenti (25)
Informazioni su questo libro
Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Flavio Santi, Igino Domanin, Martino Gozzi, Marco Mantello, Davide Bregola, Mattia Signorini, Marco Archetti, Francesco Pacifico, Sara Ventroni, Valeria Parrella, Giulia Clarkson, Massimiliano Zambetta, Mauro F. Minervino, Vanessa Ambrosecchio, Edoardo Albinati, Antonio Riccardi, Mario Santagostini, Andrea Gibellini, Mary Barbara Tolusso, Carlo Carabba, Mario Benedetti, Viviana Scarinci, Marco Salvia, Maria Angela Bedini, Lucrezia Lerro, William Cliff, Attilio Bertolucci, Gabriella Palli Baroni, Mauro Martni, Ferruccio Parazzoli, Emiliano Sbaraglia, Antonio Tricomi, Alfonso Berardinelli, Virgilio Fantuzzi, Francesco Zippel, Michele Monina.
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Informazioni

ITALVILLE
Nuovi narratori italiani sul paese che cambia
Nel primo numero della terza serie di Nuovi Argomenti (1982) Enzo Siciliano scrive alcune parole che possono aiutare a capire lo spirito di questa sezione. Parlando di quella che vuole essere l’ambizione della rivista, chiede agli scrittori di “occuparsi di quei fatti che assediano da vicino l’esistenza quotidiana, e che ci appaiono indecifrabili, lugubremente enigmatici”.
E in questa direzione Nuovi Argomenti ha sempre fatto la sua proposta editoriale e letteraria. Il confronto dello scrittore con la realtà circostante. Nel caso specifico di questo numero 25 con la realtà italiana del 2004, attraverso lo sguardo di alcuni nuovissimi scrittori.
Inizialmente la sezione di Nuovi Argomenti sarebbe dovuta chiamarsi “Giro d’Italia” a causa delle provenienze disparate degli autori e dei luoghi geograficamente distanti che si impegnavano a raccontare. Con l’arrivo dei primi testi è emerso più delle volte una denuncia o un atto di accusa. In particolare la precarietà di una parte dell’Italia di oggi con i pezzi di Valeria Parrella e Massimiliano Zambetta, ma anche le difficoltà dell’integrazione etnica (nel racconto di Flavio Santi e in quello di Martino Gozzi) oppure la crisi di alcuni settori dell’economia italiana come nel pezzo sulla new economy di Igino Domanin. Tanto da farci pensare che questa “Italia infernale” a più voci avesse potuto corrispondere al titolo più duro “Gironi d’Italia”.
Si è scelto invece “Italville” dopo che alcuni racconti facevano riferimento al film di Lars von Trier (Sermidville di Davide Bregola, Grifonville di Marco Mantello). Nel paese di “Dogville”, nonostante ci siano pochissime persone, c’è la varietà di tutte le peggiori qualità dell’uomo: la violenza innanzitutto, ma anche l’opportunismo, l’avarizia, la sopraffazione, il tradimento, la paura, l’ignoranza elevata a sistema di giudizio, la grettezza, la misoginia, il disprezzo verso il diverso, il pregiudizio. Ma Dogville non esiste, non è altro che una piattaforma teatrale, dove si muovono secondo un copione le comparse di una messinscena in cui l’unico essere animato alla fine è proprio il cane Mosè che dà il nome alla città e che per tutto il film altro non è che una sagoma di gesso. Italville è una rappresentazione dell’Italia di oggi, come Dogville dell’America degli anni trenta, forse meno asfittica.
Gli scrittori italiani hanno ancora i mezzi per raccontare il mondo che ci circonda, per rendercelo meno enigmatico, conoscerlo meglio almeno in un dettaglio, un frammento, raccontare la loro verità su questa Italia.
m.d. l.p.
WILLKOMMEN IN FRIAUL
Flavio Santi
Così i cartelloni pubblicitari sul ciglio della strada salutano gli austriaci e i tedeschi. Questi sono gli stranieri buoni, di quando Renzo Tondo, presidente forzista della regione, era amico del carinziano xenofobo Jörg Haider. Ma questa è un’altra storia, perché non sto viaggiando verso i laghi smaltati della Carinzia, ma sto tallonando LJ M2 98C. Una targa. Slovena, credo. La targa è montata su una vecchia Prinz 4 verde scuro, dei primi anni settanta, motore posteriore a due cilindri, l’utilitaria dei poveri. La macchina è davanti a me, a pochi metri, sfreccia incurante del pericolo, non asseconda neppure le curve, se le mangia. E io dietro con la mia Fiat bravo 1.4 sx. Questa macchina è sbucata stamattina al semaforo di Buttrio, dopo l’incrocio appena fuori dal centro, e fremendo, a scatti, si ostina a precedermi. L’utilitaria dei poveri. LJ M2 98C. Qua la bellezza la vai a cercare a nord, ai laghi, se procedi verso est, contro vento, evidentemente cerchi qualcos’altro.
Io è da stamattina che lo sto cercando. Il segno della contraddizione, la mela spaccata in due. Ci si può svegliare la mattina, le ascelle intorpidite come si fosse abbracciato un enorme tronco di sequoia, e sentirsi fulminati dalla sensazione che durante la notte la storia è stata come smantellata e distrutta? proprio mentre noi dormivamo, sistematicamente, da orde barbariche, scariche di napalm, megatoni di brutalità e indifferenza? Il nostro sonno pacifico ha covato le uova da cui si sono schiusi i serpenti peggiori, i boa constrictor della storia? È possibile tutto questo? è un sentimento tipicamente mattutino e quindi evaporabile con il passare della giornata, oppure qualcosa di più radicato? La risposta, certo, non la troverò impressa sul lato di qualche fetta biscottata ingoiata in fretta a colazione, quasi per dimenticare le legioni notturne della devastazione. La storia non sono i piccoli gesti di ogni giorno, mi dico seduto a tavola, è qualcosa di più vasto, una collettività che soffre, masse in movimento delirante e febbrile, migrazioni di popoli per mare e per terra, carrette cariche di emigrati, piazze occupate da scioperi e mobilitazioni, le speranze e i miracoli di centinaia di migliaia, se non di milioni o di miliardi di persone.
Salgo in macchina e parto. Ed è qua adesso che mi trovo, in macchina, incollato al sedile. Davanti agli occhi, al di là del parabrezza, LJ M2 98C. Ipnotico come una formula algebrica mi porta dentro la mela spaccata in due. Da Buttrio, con davanti LJ M2 98C, avrò fatto almeno venti chilometri e neanche me ne sono accorto.
Proprio Gorizia è rimasta spaccata in due come una mela, la parte buona all’Italia, quella marcia alla Jugoslavia, adesso Slovenia. Il primo bacio con la lingua l’ho dato a una goriziana, ma anche questa temo sia un’altra storia, per l’esattezza la storia di come persone e fatti ci lascino dei solchi e col tempo si diventi i dischi di vinile di se stessi e allora il grammofono della memoria stride, quando non si combacia più con quei solchi: e questo stridore sono le persone mai più riviste, i fatti mai più vissuti. E per un attimo sento tutto questo, sento la puntina sollevarsi e abbassarsi, girare a vuoto interrogativa.
La storia di oggi invece, inaugurata dalle angosce mattutine e dalla Prinz slovena, mi porta in questa città, che è il simbolo stesso del confine. Appena entro in città, LJ M2 98C prende la prima strada a destra e scompare. Il nocchiero mi ha portato a riva, Corso Italia, l’arteria che conduce in centro città, ha esaurito la sua missione, mi lascia a me stesso.
Gorizia martire d’Italia, anche oggi. Città sacra del Primo massacro globale ’15-18, da strappare agli austroungarici a tutti i costi. Ma di tutto quel sangue versato, oggi, cosa è rimasto? la storia, appunto, è stata distrutta? Distrutta non lo so ancora, spartita senz’altro: Nova Gorica è la parta slava di Gorizia, ma gli sloveni lavorano qua, nella parte italiana, l’interno della Slovenia non è come la costa turistica disseminata di alberghi, casinò, possibilità di lavoro. Lavorare qua è molto più duro, e se sei slavo sei anche zingaro. Ci si vede con sospetto come tra fratelli. Il sospetto è il riflesso della somiglianza: si ha paura di se stessi. Questi sloveni, infatti, non sono altro che l’immagine dei friulani di trenta, quarant’anni fa, ne sono un fedele stampo e come sempre si teme che sia il fratello a portare lo scompiglio. Hanno proprio facce da friulano: gli zigomi aerei, l’anarchia dei capelli bruni, il segno del sole sulla pelle, il ciuffo di lana bagnata, lo sguardo sveglio ma sornione. Vengono qua, passano la dogana, a piedi o in macchina, fanno i muratori, gli operai, i tornitori, gli assistenti meccanici, gli zincatori, regolarmente in nero. La loro moneta, la kuna, rispetto all’euro è medievale, e loro stessi hanno l’espressione di stucchi e frontoni medievali, avanzi di guerre ideologiche e invidie anticapitalistiche: per guardare inclinano gli occhi di traverso, come se la luce diffusa qua, oltre confine, fosse diversa, meno pura, più compromessa. La loro salvezza è da questa parte del confine, sì, anche se impura, ma se non ci fosse... è uno scontro di civiltà? Gli uni bisognosi ma furiosi, lo vedo dagli occhi, non poter lavorare per il proprio paese, per il benessere della Slovenia, li offende, così non fanno amicizia, fingono di non capire niente d’italiano e sputano continuamente a terra. Sono sempre nervosi. Gli altri, i friulani, ricchi, ma ex poveri, con le croste della fame ancora vive sulle labbra che qui sono particolarmente sottili. Caduto il muro di Berlino, Gorizia è rimasta l’ultima città divisa, tagliata in due. Sembra il fondale di un film espressionista, con la pietra grigia dei palazzi settecenteschi, le sfumature cenere delle arcate, il gotico dei portoni. Quale dottor Caligari spunterà spiritato dal cono d’ombra di questo vano che dà sulla strada? quale studente di Praga frapporrà i suoi passi ai miei?
Intanto ogni sloveno che incontro ha la faccia nobile di Gavrilo Princip, lo studente della Narodna Obrana che uccise l’arciduca Francesco Ferdinando e che per un sogno di libertà portò l’Europa dentro un incubo di quattro anni, la Grande Guerra. E quell’incubo ha poi segnato Gorizia, e così sarebbe più che naturale se proprio qua si reincarnasse lo spirito di Gavrilo, ma forse si è già materializzato, basta aspettare, e poi non è detto che debba per forza assumere le forme del ricorso e della ripetizione, anzi la storia non si ripete mai. Anzi, forse ogni friulano di qua li considera singars (zingari) proprio perché ogni zingaro ha la faccia di Gavrilo e ogni volta che ruba a un friulano rinnova il gesto attentatore sotto altra spoglia.
Se Siegfried Kracauer ha detto che l’espressionismo anticipava Hitler, cosa pensare allora di questo quadro teso e allarmato? A cosa prelude? cosa annuncia? che forse, come mi suggeriva la sensazione di questa mattina, la storia ha esaurito la sua secolare pazienza e le sue lunghe sinfonie consolatrici, e che non solo non si ripete, ma anzi si sta sfaldando e lacerando? la storia, una signora decrepita dal pesante trucco liquefatto e il liquame che le cola ci sta travolgendo. Lascio Gorizia/Nova Gorica con questa paura.
Dietro Gorizia il carso isontino è la disperazione della carne: doline e avvallamenti, erbe rade e secche a perdita d’occhio, cespugli di vetriole e ortiche. Salgo sul San Michele per immaginare che effetto faceva la guerra a dei ragazzotti analfabeti, spediti sul fronte a massacrarsi, finiti a concimare la terra che calpestiamo. La regola che su ogni elemento terminale si innalzi il sacrario, l’emblema sacrificale, non legittima quella che presumibilmente è la cima del monte: qua il museo è temporaneamente chiuso, nessuna segnalazione indica le trincee. La storia è cancellata, mentre a valle la fa chi preme dal confine. L’idea stessa di fare storia è cambiata, ma ciò non toglie che le trincee esistano ancora e che siano quei fossi non molto profondi che tagliano di tanto in tanto la terra calcarea dietro il casotto del museo.
Stesso desolante senso di assenza a Basovizza: qua la foiba è stata interrata e così anestetizzata, il terrapieno è un pretesto per nascondere e minimizzare. Così resta una spianata brulla su cui poggia una pesante lastra di granito in memoria. La verticalità assassina della foiba è stata raddrizzata in un’orizzontalità burocratica e commemorativa. Avessi trovato scritto, inciso da qualche parte, magari proprio sulla lastra, “Ma chi cazzo se ne frega”, sarebbe stato meno ipocrita di adesso, che una finzione parastatale cerca di suggellare goffamente il ricordo di una tragedia. Lo stesso imbarazzo, freddo, del vecchietto in paese che alla mia brutale domanda (in tono involontariamente accusatorio, lo riconosco) “Ma le foibe dove sono”, mi ha risposto: “Vada avanti...”. Anche qui non ci sono indicazioni, ci si perde nel paese finché non incontri appunto un vecchietto gentile e schivo, e scopri che si deve attraversare la statale 14 e imboccare poi una via a senso unico che sembra quasi un lungo budello cieco in mezzo a foreste di pini neri popolate da lupi. Potrebbero tornare, penso, non più vestiti da titini ma da disperati più essenziali, e sul momento nessuno se ne accorgerebbe. “Tre dalmatinski / Comando partigian / Cuori a la Zrinski / Tre mitra in man”: mi viene in mente Carolus Cergoly, le sue nenie mitteleuropee. Varcherebbero il confine e darebbero voce alla loro idea di giustizia, per quanto antiumanitaria e folle. Rinnoverebbero l’urlo di un goriziano disperato, Carlo Michelstaedter: “Vita, morte, / la vita nella morte; / morte, vita, / la morte nella vita”. E avrebbe una sua logica, distorta e terribile (se si pensa a cosa sta accadendo in Palestina). Mai, mai e poi mai giustificare, ma entrare nella testa di chi considera la propria vita così inutile da imbottirla di esplosivo, questo sì. Entrare per vedere, forse, solo del buio, un infinito tunnel vuoto e nero, ma quando non hai terra su cui posare i piedi, forse, non ti servono più, i piedi. Qua li appoggiano, ma non sanno per quanto, il loro paese è povero, loro passano ogni giorno la dogana ed è come attraversare un invisibile rasoio che, giorno dopo giorno, ti assottiglia. Credono che gli togliamo la vita (e quindi tanto vale...), e poi al di qua del confine si crede la stessa cosa di loro, che vengono qui per minacciare il Friuli. Ma è la storia dei due fratelli contendenti, Romolo e Remo: nella diffidenza scorre lo stesso sangue. L’ondata della guerra fratricida che sconvolse la Jugoslavia si fermò molto prima del confine: la Slovenia ne fu sfiorata appena, l’epicentro è stata la Bosnia-Erzegovina. La striscia isontina e triestina i cannoni che hanno tuonato su Zvornik, Sarajevo, Bratunac, Prijedor, Mostar, non li ha neppure sentiti. Forse i caricatori hanno latrato nei sogni di qualche cattiva coscienza. Del resto dire se è Italia o Slovenia questa sottile lingua di terra bruna e urticante non è facile, quando le persone si chiamano Marko Polic o Katarina Fumich e salutano con “zdravo”, ma poi, come se niente fosse, passano al “ciao”. Eppure non hanno preso il fucile, hanno fatto un tacito patto di mutua sopportazione: inutile prevaricarsi, si sono detti, meglio tenersi la mela spaccata in due.
Macerie recenti e macerie passate. A questo punto lascio anche Basovizza. La paura, invece di svanire, si è moltiplicata.
Passare, infine, sopra Trieste percorrendo la tangenziale issata in alto, oltre la città, è un’esperienza di profonda malinconia urbana: alle otto di sera la strada è libera, il contachilometri sale a 140, la luce si sta scomponendo in tanti colibrì blu. Da una parte, laggiù in fondo, il mare è lucido, solcato a distanze ampie ma geometriche da qualche nave cisterna e qualche traghetto, dall’altra parte, sopra la mia testa, la montagna ha colori ruvidi. Al di là c’è la Iugo, come la chiamano qua, ora Slovenia, e se seguo un percorso mentale li faccio tutti i paesi della disperazione, Mostar, Sarajevo, Srebrenica, Brcko, Prijedor, Bratunac, Bjeljina. Tre dalmatinski comando partigian cuori a la Zrinski tre mitra in man, tre dalmatinski comando partigian cuori a la Zrinski tre mitra in man...
Vista da qua sopra Trieste è indifesa, chiusa tra due mostri della natura, l’acqua e la roccia, e così mi si manifesta, finalmente, alle otto di sera, sotto forma di metafora l’essenza stessa della storia: acqua e roccia. L’acqua che i fatti fendono e modificano, a volte fino all’umiliazione; la roccia che non muta mai e si oppone ostinata a ogni prevaricazione. Certo, anche così non ho ancora trovato una risposta alla paura che la storia sia stata nel frattempo distrutta e smantellata, ma almeno ho placato, momentaneamente, la mia furia randagia. All’improvviso, dallo specchietto retrovisore, vedo il tramonto, il sole è immerso in un vortice di nubi sanguigne. Così a questo tramonto dai colori dell’arenaria, diviso tra Friuli e Slovenia, consegno le mie ansie future.
Flavio Santi (1973) vive tra Pavia e Codugnella (Udine). Oltre a uscite su rivista e libri collettivi, ha scritto le raccolte di poesia Viticci (Stamperia dell’Arancio, 1998), Album (En plein edizioni, 1998), Rimis te sachete (Marsilio, 2001); il romanzo Diario di bordo della rosa (PeQuod, 1999); ha tradotto Kenneth Rexroth Su quale pianeta (Marcos y Marcos, 1999).
HAPPY HOUR REIGNS
OVER MILAN
Igino Domanin
Fuori piove. Meno male che le nuvole si sgonfiano un po’. Poi viene l’arcobaleno. Mi ricordo, dopo i temporali, in Sicilia, mentre tornavo in macchina dal Monte Pellegrino, c’erano degli archi di luce. Enormi. Nell’orecchio mi fischiavano melodie meccaniche. Si affastellavano. Si arrampicavano le note. Una sull’altra. Passeggiavo in mezzo ad un’orchestra. Tra le nuvole arricciate. Sull’eco del concerto che insieme ci trovò nudi e crudi.
Da bambino ho vissuto a Palermo. Non me lo ricordo quasi più. Tranne strane impressioni, che fanno capolino nella mia mente. Mi appare così, per via di irresistibili associazioni, l’immagine di una natura remota, ...
Indice dei contenuti
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