Un giorno. Un giorno tutto questo sarà passato.
No, non era così. Ecco, ora mi ricordo: “Un giorno di tutto questo non resterà che nuvoletta”.
O almeno era una cosa del genere. Me lo aveva detto mio padre, sorridendomi, su quel letto dell’ospedale, facendomi l’occhietto, dandomi forza, convincendomi che non ci sarebbe stato nessun problema, che tutto si sarebbe sistemato. Ma non è stato così. Il giorno dopo all’ospedale lui non c’era più. Non c’era più nel mondo. Non c’è più adesso, ovunque io possa andare a cercarlo. Ecco, è come se io uscissi di casa e girassi per tutta Roma e poi ancora oltre, fino a Milano, a Torino e poi in Francia e ancora più in là, in Thailandia, in Malesia o che so io, ma prima sapevo che in un modo o nell’altro l’avrei potuto trovare. Ora invece no. Non c’è più. Non c’è su questa terra. Spero solo che almeno Dio ci sia, se no questa vita è proprio una grande fregatura. Una battuta geniale di mio padre? Questa: “La vita è una malattia mortale”. Un’altra che mi ha fatto troppo ridere? “L’Alzheimer ha un lato positivo: ogni giorno ti sembra di farti un sacco di nuovi amici.”
Ogni giorno. Ecco, mio padre mi ha fatto sentire l’importanza dell’“ogni giorno”. Ogni giorno è diverso, ogni giorno conta, è unico, anche se a volte tutto questo noi non lo consideriamo.
A volte viviamo così distrattamente, che ne so, che è come se quel giorno non ci sembrasse importante. Invece ogni giorno può essere che tutto cambi, che sia quello il nuovo giorno. Oggi, per esempio, sento che è un giorno importante.
“Ti devo parlare.”
Quando ho aperto il telefonino stamattina, c’era scritto solo questo. Non “buongiorno, amore”, non “buongiornooooooo” come a volte mi scrive Ale nel suo entusiasmo. Ale è Alessia, la mia ragazza. Stiamo insieme da un anno e oggi è il suo compleanno. Ne fa venti. Eccola, ho visto la sua macchina, una Mini blu scura ultimo modello, di quelle grosse, con le ruote grandi, il vecchio vintage che va di moda oggi, quella che costa “solo” un quarantamila euro, ma tanto lei può permetterselo.
È posteggiata al parchetto sotto piazza Giuochi Delfici, davanti al monumento. Alcune mamme sono lì che portano in giro i loro piccoli. Una tata manda dei messaggi dal telefonino mentre il bambino che dovrebbe guardare cade per terra. Non lo raccoglie. Non se ne preoccupa minimamente, tanto mica è suo. Alza lo sguardo, lo vede, ma lo lascia lì, tanto non si è fatto niente, si rialzerà in qualche modo, e continua a scrivere come se niente fosse.
Alessia è seduta sulla panchina, sfoglia veloce il giornale in modo quasi frenetico e non capisco mai quanto con questo suo modo di fare riesca veramente a leggere, a capire, ma è tutta un po’ così. I capelli castano scuro le scendono davanti al viso. È seduta sullo schienale della panchina e le sue gambe lunghe si poggiano lì dove sarebbe stato invece naturale sedersi. Ma nulla mi sembra naturale in lei. Mi piace ancora però, moltissimo, come il primo giorno, di più. Come ogni giorno.
«Ale!» la chiamo.
Mi cerca in giro, poi mi vede da lontano, allora alza il mento come a dire “sì, ti ho visto”. Chiude il giornale, lo piega e lo poggia sulla panchina. Ma non sorride.
«Ciao. Tanti auguri amore!»
Ci scambiamo un bacio veloce. Troppo veloce per me e lei si stacca subito. È fredda.
«Tieni…» Cerco di non pensarci. «Questo è il tuo regalo.» Le passo la busta e Ale pare stupita. Eppure oggi è la sua festa e quindi è normale che io le abbia portato un regalo. Alessia lo tira fuori dalla busta e lo scarta lentamente, in silenzio, senza guardarmi. Forse è arrabbiata perché non le ho mandato un messaggio ieri sera allo scadere della mezzanotte ma solo stamattina, perché lei vorrebbe sempre queste attenzioni continue. Magari è solo una mia impressione, però. Ora accelera. Tira via tutta la carta. Ecco, lo apre, sorride ma è un attimo.
«Ti piace?»
Si appoggia il Moncler sulle spalle ma non dice nulla.
«È l’ultimo modello, quello tecnico, leggero. Provalo, vediamo se ti sta bene.»
Se lo infila, le va perfetto.
«Vediamo come stai con le mani in tasca.»
Come immaginavo infila prima la destra e trova subito quel piccolo pacchetto. È sorpresa. Lo tira fuori, lo rigira tra le mani, lo guarda come se non ne avesse mai visto uno, ma non sorride, non alza la testa, non mi guarda. E io rimango in silenzio. Allora comincia a scartarlo lentamente. Poi lascia cadere la carta per terra e rimane a fissarlo così, tra le sue mani, senza dire nulla. È una cosa sciocca quella che le ho regalato, ma l’ho fatto apposta. Una bolla con la neve e un piccolo pupazzo che tiene in mano un cartello con scritto “Ti amo”. Quelle cose sciocche che in realtà si fanno quando non riesci a fare le cose serie. Non sono mai stato capace di dirglielo. Ti amo. Una volta stavo per gridarglielo. Eravamo sotto casa sua e lei all’improvviso se ne è accorta.
“Che c’è? Che succede?” mi ha chiesto.
“Niente.” Ho risposto così, “niente”. Non l’ho detto, non ho avuto il coraggio. Stiamo insieme da un anno ormai e non sono riuscito a dirglielo neanche una volta. Alessia prende la bolla e la gira, la muove un po’. La neve all’interno si rovescia sul pupazzo con il cartello in mano e lei comincia a piangere in silenzio. Grosse lacrime le scendono lentamente e rimane così, con la testa abbassata, e anche se sono nascoste dai suoi capelli, io le vedo. Scivolano una dopo l’altra sulle sue guance, le tremano le labbra, non dice nulla, ha le mani lungo il corpo. Mi sento morire, provo quell’immenso dispiacere di quando procuri a qualcuno un dolore, a qualcuno al quale poi non avresti mai voluto causarlo.
«Ma guarda che è uno scherzo, era per farti ridere, non è questo il vero regalo.»
Sorrido, cerco invano le parole, ma non servono a nulla. Non perdo l’entusiasmo.
«Guarda, guarda nell’altra tasca!» Ecco, mi sembra quella l’unica soluzione. Alessia mette l’altra mano nella tasca sinistra e tira fuori un pacchetto. È piccolo e ha sopra il nome del gioielliere: Villani. Ma lei non sorride lo stesso. Lo scarta, poi apre l’astuccio.
«È il colore dei tuoi occhi.»
Guarda quegli orecchini azzurri, ma è solo un attimo. Richiude l’astuccio e finalmente alza il viso. È la prima volta che mi guarda da quando ha aperto i regali. E io la fisso cercando disperatamente un suo sorriso. Si asciuga le labbra con il dorso della mano. Poi mette tutto nella busta. Mi guarda un’ultima volta. E finalmente accenna a un sorriso anche se è come disegnato a metà.
«Mi dispiace…»
E se ne va. E allora in quell’attimo io mi ricordo perfettamente la frase.
“Piangi, medita e vivi; un dì lontano / quando sarai del tuo futuro in vetta / questo fiero uragano / ti parrà nuvoletta.”
Ecco, era questa l’ultima frase di mio padre. È di Arrigo Boito, che poi l’ho portato anche alla maturità con la mia tesina sulla Scapigliatura, ecco perché mi ricordo chi lo ha detto. Con questa frase lui mi ha lasciato. Oggi invece se ne è andata Alessia. Ma forse è solo un momento, forse ci ripenserà, forse è arrabbiata perché non le ho mandato un messaggio ieri sera a mezzanotte. O forse invece non è arrabbiata, forse è felice e magari ha pure un altro. È tutto un forse. Una cosa sola è sicura, anzi, due: sto male, e l’altra certezza è che lei non mi ha lasciato nessuna frase, mi ha detto solo: “Mi dispiace…”. E se ne è andata via così.
«Buongiorno.»
Mi sorride Ilaria De Luca, una bella signora, avrà sì e no cinquant’anni. Veste in maniera classica ma non è vecchia come modi, come cammina.
«Che le do?»
Prende “Repubblica”, poi “Dove” e me li mette davanti. Rimane per un attimo in silenzio, con un sorriso un po’ imbarazzato, come se mi dovesse dire qualcosa ma non se la sentisse. Faccio finta di non farci caso, prendo i suoi dieci euro, conto velocemente e le do il resto.
«Ecco qui, buona giornata…»
Rimane ancora un attimo nell’edicola, come se all’improvviso le fosse venuto in mente qualcosa, come se cercasse la voglia, il coraggio di parlare. Ma poi ci ripensa.
«Sì, grazie, anche a te.»
Prende i giornali, li piega e se li mette in borsa. La guardo allontanarsi. Cammina lentamente, ha un bel fondoschiena e rimango a fissarla perdendomi nei miei pensieri.
“Mi dispiace…” Alessia mi ha detto mi dispiace. Mi dispiace. Ma cosa può voler significare “mi dispiace”? Mi dispiace ma il tuo regalo non mi è piaciuto. Mi dispiace ma ho un problema. Mi dispiace ma ho bisogno di stare da sola. Mi dispiace ma ora amo un altro. Mi dispiace… ma che, stai scherzando? Questa proprio non è possibile. E in un attimo mi passa tutta la vita davanti. È così, dicono, che accade quando qualcuno muore. Ma noi non siamo morti, vero Alessia? Non è finita, dimmi che non è finita. Guardo il cellulare. Nessun messaggio.
«Buongiorno, Nicco, “Il Tempo”, grazie.»
Edoardo Salemi, proprietario del ristorante giù in corso Francia dove ogni tanto vado a mangiare qualcosa e mi fa pure lo sconto. Gli passo il giornale e sparisce in un attimo. Sì. Faccio il giornalaio. Prima qui all’edicola c’era mio padre, ogni tanto scriveva anche qualche articolo per dei giornali meno importanti, quelle riviste di quartiere che comunque gli pagavano qualcosa. Gli capitava anche di disegnare qualche buona barzelletta che poi vendeva, era bravo anche in quello mio padre. Ora ci alterniamo io, mio zio e mio cugino. Io faccio la mattina e loro il pomeriggio e la notte, ogni tanto cambiamo turno, ma non faccio solo questo. Niente, nessun messaggio. È passato un giorno ed è la prima volta da un anno che non ci scambiamo un messaggio. Non era mai accaduto che fosse passato un giorno e noi non ci fossimo scritti una cosa, anche la più stupida. L’amore è fatto di cose stupide, di quelle cose che non hanno senso, magari, che fanno sorridere o scuotere la testa ma che in quei momenti diventano bellissime. L’amore è quei messaggi che non vogliono dire niente ma che dicono tutto, che non ci fai caso quando arrivano ogni giorno ma che diventano un’ossessione quando cominciano a mancare. Se fossimo tutti innamorati, questo mondo sarebbe bellissimo. Che cazzate sto dicendo. Ecco, l’amore ti rende idiota ma bello, la mancanza d’amore ti rende idiota e distruttivo.
Alessia mi manca. Mi manca in maniera esponenziale, mi sembra impossibile, ma ogni momento che passa mi manca di più. Riguardo il...