
- 154 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Una stanza tutta per sé (Mondadori)
Informazioni su questo libro
Un saggio narrativo che affronta con ironia e lucidità il tema della creatività femminile e quindi la rivendicazione del diritto della donna a una vita intellettuale. Un'analisi spietata e anticonvenzionale nella quale Virginia Woolf (1882-1941) raggiunge e suggerisce un punto di equilibrio interiore alla ricerca della propria realizzazione.
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Informazioni
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9788804484622eBook ISBN
9788852044151Capitolo primo
Ma insomma, potreste dire, ti avevamo chiesto di parlarci delle donne e il romanzo1 – cosa ha a che fare, questo, con una stanza tutta per sé? Tenterò di spiegarmi. Quando mi avete chiesto di parlarvi delle donne e il romanzo, sono andata a sedere sulla sponda di un fiume e ho cominciato a chiedermi che cosa volessero significare quelle parole. Avrebbero potuto semplicemente voler dire offrirvi alcune osservazioni su Fanny Burney;2 alcune altre su Jane Austen; un omaggio alle sorelle Brontë, con un ritratto della canonica di Haworth coperta di neve; forse alcune battute di spirito sulla Mitford;3 una allusione rispettosa a George Eliot; un riferimento alla Gaskell, e me la sarei cavata. Ma a una riflessione più attenta, quelle parole non sembravano poi così ovvie. Il titolo «Donne e romanzo» poteva significare – ed è possibile che così lo abbiate inteso – le donne e ciò che esse sono; oppure le donne e i romanzi che scrivono; o ancora, le donne e i romanzi dei quali sono protagoniste; o poteva lasciare intendere che le tre cose sono in certo modo inestricabilmente congiunte e voi volete che io le veda sotto quella luce. Ma quando mi sono messa a considerare l’argomento da quest’ultimo punto di vista, che sembrava il più interessante, ho dovuto presto rendermi conto del fatto che esso portava con sé un fatale risvolto negativo. Non sarei mai riuscita a raggiungere una conclusione. Non sarei mai stata in grado di adempiere quello che è, ne sono certa, il dovere primo di un conferenziere – consegnarvi, dopo un’ora di parole, un nocciolo di verità pura da serbare ripiegato tra le pagine del vostro quaderno d’appunti o da custodire per sempre sulla mensola del caminetto. La sola cosa che potevo fare era offrirvi un’opinione su un aspetto minore di questo argomento – se vuole scrivere romanzi una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé. La qual cosa, come vedrete, lascia irrisolti il grande problema della vera natura della donna e quello della vera natura del romanzo. Mi sono sottratta al dovere di giungere a una conclusione su questi due problemi – donne e romanzo rimangono, per quel che mi riguarda, questioni irrisolte. Ma per fare almeno parzialmente ammenda, tenterò quanto è in mio potere per dimostrarvi in che modo sono arrivata a formulare questa idea della stanza e del denaro. Cercherò di svolgere davanti a voi, il più completamente e liberamente possibile, la catena di riflessioni che mi hanno portata a concludere quanto vi ho detto. Ed è possibile che mettendo a nudo le idee e i pregiudizi che sottendono questa affermazione, vi accorgerete che essi hanno una qualche attinenza con le donne, e in parte anche con il romanzo. A ogni modo, quando un argomento si presenta fortemente controverso – e qualunque problema relativo al sesso lo è – non si può sperare di riuscire a dire la verità. Si può solo dimostrare in che modo si è giunti a sostenere l’opinione che se ne ha. Si può solo offrire al proprio pubblico la possibilità di trarre delle conclusioni man mano che esso nota i limiti, i pregiudizi, le idiosincrasie di colui che parla. In questo caso è possibile che la narrativa contenga più verità che fatti. Pertanto, approfittando di tutte le libertà e delle licenze concesse a un romanziere, propongo di raccontarvi la storia dei due giorni che hanno preceduto il mio arrivo qui – in che modo, china sotto il peso del tema che mi avete messo sulle spalle, io vi abbia riflettuto e lo abbia sottoposto al vaglio della mia vita di tutti i giorni. Non c’è bisogno che vi dica che quanto sto per descrivervi non esiste; Oxbridge4 è un’invenzione, e così pure Fernham;5 “io” è solo un termine di comodo per indicare qualcuno che non esiste realmente.6 Dalle mie labbra sgorgheranno bugie, ma è possibile che frammista a esse vi sia una porzione di verità; sta a voi cercare questa verità e decidere se ce n’è una parte che merita di essere conservata. In caso contrario, naturalmente, getterete il tutto nel cestino e ve ne dimenticherete.
E allora eccomi qui (chiamatemi Mary Beton, Mary Seton, Mary Carmichael7 o qualunque altro nome vi piaccia – la cosa non ha alcuna importanza) seduta sulla riva di un fiume, in una bella giornata di ottobre, immersa nei miei pensieri.8 Quel collare del quale vi avevo parlato, le donne e il romanzo, la necessità di raggiungere una conclusione di qualche tipo su un tema che solleva ogni sorta di pregiudizi e di passioni, mi faceva piegare la testa sino a terra. A destra e a sinistra, cespugli oro e cremisi emettevano bagliori colorati e sembrava quasi che bruciassero come per il calore del fuoco. Più avanti, sulla riva, i salici piangevano in un lamento senza fine, con la chioma che ricadeva loro sulle spalle. Il fiume rifletteva qualunque tratto del cielo avesse scelto, così come il ponte e l’albero infuocato, e dopo che lo studente universitario aveva attraversato in barca a remi quei riflessi, questi tornavano a richiudersi completamente, come se non fosse mai passato. Era un luogo nel quale si sarebbe potuti rimanere seduti giorno e notte, immersi nel proprio pensiero.9 E questo pensiero – per usare un termine più altisonante di quanto non meriti – aveva tuffato la sua lenza nella corrente. Aveva ondeggiato, un minuto dopo l’altro, qua e là tra i riflessi e le erbacce, lasciando che l’acqua lo riportasse a galla e poi lo facesse affondare di nuovo ed ecco – immaginate quel rapido strappo – l’improvviso agglutinarsi di un’idea alla estremità della lenza, e poi la delicata manovra per tirarla fuori dall’acqua e la cautela nel metterla giù. Ma ahimè, una volta adagiata sull’erba quanto appariva piccolo, davvero insignificante il mio pensiero; come quei pesci che il pescatore accorto ributta nell’acqua perché diventino più grossi e un bel giorno vengano cucinati e mangiati. Non starò a infastidirvi con quel pensiero, adesso, anche se, cercando con attenzione, è possibile che lo scopriate da sole nel corso di quello che dirò.
Ma per quanto minuscolo, pure godeva di quella misteriosa proprietà che appartiene al suo genere – una volta risospinto nella mente diventava di colpo entusiasmante e importante; e mentre guizzava e sprofondava e balenava di qua e di là, sollevava tanta acqua e un tale tumulto di idee che era impossibile starsene seduti tranquilli. Fu così che mi trovai ad attraversare a grandi passi un tratto di terreno erboso. Immediatamente la sagoma di un uomo si avvicinò per mettersi sul mio percorso. Non mi resi conto, a tutta prima, che il gran gesticolare di quell’oggetto dall’aria bizzarra in soprabito a coda di rondine e camicia da sera era rivolto a me. La faccia dell’uomo esprimeva orrore e indignazione. Fu l’istinto, più che la ragione, a venirmi in soccorso; quell’uomo era un custode; io ero una donna. Qui c’era il prato, più in là il vialetto. Soltanto ai Membri del college e agli Studiosi è consentito poggiare i piedi qui; il mio posto è la ghiaia.10 Quei pensieri furono questione di un momento. Mentre riguadagnavo il sentiero le braccia del custode ricadevano giù, la faccia tornava ad assumere la consueta compostezza, e quantunque sul prato si cammini meglio che sulla ghiaia, nessun danno irreparabile era stato commesso. La sola responsabilità che avrei potuto imputare agli Studenti e agli Studiosi di quel college – quale che fosse – era il fatto che pur di proteggere quel loro tappeto erboso che veniva ininterrottamente curato da 300 anni, avevano costretto quel mio pesciolino a nascondersi.
In questo momento non ricordo quale idea mi avesse indotta a sconfinare con tanta audacia in quel prato. Lo spirito della pace discendeva come una nuvola dal cielo, perché se c’è un luogo nel quale esso dimora, questo sono le corti e i cortili quadrangolari di Oxbridge in una bella mattina di ottobre. Attraversando a piedi quei college, passando davanti a quegli antichi edifici, ogni asprezza del presente sembrava scivolare via; il corpo provava la sensazione di essere racchiuso in un prodigioso scrigno di vetro attraverso il quale nessun suono riusciva a penetrare, e la mente – affrancata da qualsiasi contatto con eventi concreti (a meno che non avessi nuovamente oltrepassato il limite del prato) – era libera di posarsi su qualunque riflessione in armonia con il momento. Per un capriccio del caso, un lontano ricordo di qualche vecchio scritto sul tornare in visita a Oxbridge durante le vacanze estive, mi riportò alla mente Charles Lamb – Charles il Santo, come lo chiamava Thackeray, poggiandosi sulla fronte una lettera di Lamb. E in verità, fra quanti ormai sono morti (vi do i miei pensieri nello stesso ordine in cui mi si presentavano), Lamb è uno dei più adatti; uno di quelli ai quali sarebbe stato bello chiedere: Su, raccontami, come hai fatto a scrivere i tuoi saggi? Perché i suoi saggi, pensavo, sono superiori persino a quelli di Max Beerbohm, per la loro perfezione, per quell’incontenibile guizzo della fantasia, per un luminoso scoppio di genialità nel bel mezzo di quegli scritti, che li lascia macchiati e imperfetti, ma intessuti di poesia. E così Lamb venne a Oxbridge, forse un centinaio di anni fa. Di certo scrisse un saggio – il cui titolo adesso mi sfugge11 – sul manoscritto di uno dei poemi di Milton che lì aveva letto. Può darsi che si trattasse di Lycidas. Lamb scriveva di come lo turbava perfino la possibilità che anche una sola parola di Lycidas potesse essere diversa da quello che era. L’idea che Milton avrebbe potuto cambiare le parole di quella poesia gli sembrava una specie di sacrilegio. La cosa mi indusse a ricordare quel che potevo di Lycidas, e a divertirmi a immaginare quale poteva essere la parola che Milton aveva modificato, e perché lo avesse fatto. A quel punto ricordai: quello stesso manoscritto che Lamb aveva esaminato si trovava soltanto a poche centinaia di metri da me, al punto che sarebbe stato possibile seguire le orme di Lamb attraverso il cortile quadrangolare fino a quella famosa biblioteca, dove quel tesoro è conservato. Inoltre, ricordai, mentre mettevo in esecuzione il mio piano, è sempre in questa famosa biblioteca che si conserva il manoscritto di Esmond, di Thackeray.12 I critici sostengono spesso che Esmond è il romanzo più perfetto di Thackeray, sebbene, per quel che ricordo, l’affettazione dello stile, imitando quello del diciottesimo secolo, crei impaccio in chi legge; e questo a meno che lo stile del diciottesimo secolo non fosse congeniale a Thackeray – cosa che si potrebbe dimostrare consultando il manoscritto per vedere se le modifiche apportate andavano a vantaggio dello stile o del significato. Ma a quel punto si sarebbe dovuto stabilire che cosa sia lo stile e che cosa sia il significato, un problema che – ma avevo ormai raggiunto la porta che conduce alla biblioteca in questione. Immagino di averla aperta, perché all’improvviso, come un angelo custode che sbarri il cammino con un frullio di toga nera al posto di bianche ali, si materializzò un signore gentile, dai capelli argentei, un’aria di disapprovazione, il quale, mentre mi faceva grandi segni perché tornassi indietro, a bassa voce si rammaricava del fatto che le signore avessero accesso in biblioteca solo se accompagnate da un Membro del College o se fornite di una lettera di presentazione.
Che una famosa biblioteca sia stata maledetta13 da una donna è certo, per la biblioteca medesima, questione del tutto irrilevante. Venerabile e quieta, con tutti i tesori al sicuro chiusi a chiave nel suo petto, compiaciuta dorme, e per quel che mi riguarda continuerà a dormire per sempre. Mai più risveglierò quegli echi, mai più chiederò di nuovo la loro ospitalità, giurai a me stessa mentre scendevo furibonda14 quei gradini. Ma rimaneva un’ora di tempo prima del pranzo. Come trascorrerla? Andando a spasso sui prati? Standomene seduta lungo il fiume? Certo era una splendida mattina di autunno; le foglie svolazzavano rosse fino a terra; non sarebbe stata una gran fatica fare l’una o l’altra delle due cose. Ma una musica raggiunse le mie orecchie. Si stava svolgendo una qualche cerimonia religiosa o una commemorazione. Passando davanti alla porta della cappella sentii un organo emettere delle grandiose note di dolore. Persino il dolore che è proprio della religione cristiana, in quella serena atmosfera suonava più come il ricordo di un dolore che come il dolore medesimo; e persino i lamenti di quell’organo antico sembravano avvolti nella pace. Non avevo alcun desiderio di entrare, quand’anche ne avessi avuto il diritto: stavolta il sagrestano avrebbe potuto fermarmi e chiedermi forse il certificato di battesimo o una lettera di presentazione del Decano. Ma l’esterno di quegli splendidi edifici è spesso altrettanto bello dell’interno. E poi era già abbastanza divertente starsene a guardare i membri di quella comunità che si riunivano, vederli entrare e poi uscire, sostando con aria indaffarata davanti alla porta della cappella come fanno le api all’imboccatura di un alveare. Molti di loro indossavano toga e tocco; alcuni avevano nappe di pelliccia che ricadevano sulle spalle; altri venivano spinti su poltrone a rotelle; altri ancora, pur non avendo oltrepassato la mezza età, sembravano spiegazzati e compressi in sagome tanto bizzarre da riportare alla mente quei granchi e quelle aragoste che si muovono ondeggiando a fatica tra la sabbia sul fondo di un acquario. Mentre me ne stavo con le spalle appoggiate al muro, l’università appariva davvero come un santuario nel quale sono conservate delle specie rare che ben presto si estinguerebbero se venissero abbandonate a lottare per sopravvivere sul marciapiede dello Strand. Tornavano alla mente lontani racconti di vecchi presidi e vecchi professori, ma prima che avessi trovato il coraggio di fischiare – si diceva che ogni volta che sentiva un fischio un vecchio professore immediatamente si metteva a galoppare – quella venerabile assemblea si era trasferita all’interno. Ma rimaneva l’esterno della cappella, ben visibile, come sapete, con le sue cupole alte e i suoi pinnacoli,15 simile a uno di quei velieri sempre in viaggio ma che non arrivano mai, tutto illuminato di notte e visibile a miglia di distanza, lontano, oltre le colline. Un tempo, forse, anche questa corte quadrangolare con i suoi soffici prati, gli edifici massicci e la cappella era un acquitrino, con l’erba che ondeggiava e i maiali che grufolavano. Tiri di cavalli e di buoi, pensavo, dovevano aver trascinato la pietra su carri provenienti da paesi lontani, poi con fatica infinita quei blocchi grigi alla cui ombra io adesso riposavo erano stati allineati in ordine l’uno sull’altro, quindi i decoratori avevano portato il vetro per le finestre e i muratori avevano avuto da fare per secoli in cima a quel tetto con mastice e cemento, badile e cazzuola. Il sabato, nel cavo di quelle mani antiche, qualcuno avrà versato pezzi d’oro e d’argento tirati fuori da un borsellino di cuoio, perché quegli uomini potessero permettersi qualche serata in allegria. Un fiume ininterrotto di oro e di argento, pensavo, doveva essere fluito senza sosta in questo cortile, per consentire alle pietre di continuare ad arrivare e ai muratori di lavorare; di spianare, scavare, sterrare e prosciugare il terreno. Ma era l’età della fede e il denaro veniva generosamente profuso per collocare quelle pietre su fondamenta profonde, e quando le pietre cominciavano a salire, altro denaro ancora veniva versato a profusione dai forzieri di re, regine e nobili illustri per esser certi che in questo luogo si suonassero inni sacri e gli studiosi ricevessero i necessari insegnamenti. Vennero assegnati i terreni e pagate le decime. E quando l’età della fede ebbe termine e sopraggiunse l’età della ragione, quel fluire di oro e di argento continuò come in passato; vennero istituite delle fondazioni; finanziato l’insegnamento; solo che adesso l’oro e l’argento non provenivano dai forzieri del re ma dalle casseforti dei mercanti e proprietari di fabbrica, dalle borse di uomini che dopo aver accumulato una fortuna, poniamo, attraverso attività industriali, per testamento ne restituivano una parte assai generosa al fine di sovvenzionare altre cattedre, altri incarichi di insegnamento, altre borse di studio nella stessa università nella quale avevano appreso la loro arte. Così erano nate le biblioteche e i laboratori; gli osservatori; lo splendido equipaggiamento di strumenti delicati e costosi che oggi si può trovare su ripiani di vetro là dove secoli orsono l’erba ondeggiava al vento e i maiali grufolavano. Ed è certo che, mentre me ne andavo a spasso in quel cortile, le fondamenta di oro e d’argento avevano l’aria di essere sufficientemente profonde e il pavimento lastricato poggiava solido su quelle erbe selvatiche. Da una scalinata all’altra era tutto un andirivieni indaffarato di uomini che reggevano vassoi in alto sulla testa. Fioriture dai colori sgargianti si aprivano nei vasi che decoravano i davanzali delle finestre. Arie musicali prodotte dal grammofono giungevano a volume spiegato dall’interno delle stanze. Era impossibile non riflettere – ma la mia riflessione, quale che fosse, venne interrotta bruscamente. L’orologio batté le ore. Era tempo di andare a pranzo.
È curioso come gli scrittori tendano a farci credere che i pranzi siano invariabilmente memorabili per qualcosa di molto spiritoso che vi si è detto o per qualcosa di molto saggio che vi è accaduto. Ma raramente essi dedicano qualche parola al racconto di ciò che nel corso di quei pranzi si è mangiato. Fa parte della convenzione narrativa non nominare minestra, salmone e carne d’anatra, come se minestra, salmone e carne d’anatra non avessero la benché minima importanza, come se nessuno mai fumasse un sigaro o bevesse un bicchiere di vino. In questo caso, invece, voglio prendermi la libertà di sfidare tale convenzione per raccontarvi che il pranzo16 al quale mi riferisco si aprì con le sogliole, comodamente adagiate su un piatto da portata, sulle quali il cuoco del college aveva versato un manto della salsa più bianca, benché segnata qua e là da macchie brune simili a quelle che si vedono sui fianchi della femmina del daino. Poi vennero le pernici, ma se questo vi fa pensare a un paio di nudi volatili bruni poggiati su un piatto, allora vi sbagliate. Perché le pernici, molte e di svariate qualità, giunsero in tavola accompagnate da tutto il loro seguito di insalate e salse, quella piccante e quella dolce, ciascuna nella debita successione; dalle patate, sottili come monete ma non altrettanto dure; e dai cavolini di Bruxelles, con le foglioline ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- di Virginia Woolf
- Una stanza tutta per sé
- Capitolo primo
- Capitolo secondo
- Capitolo terzo
- Capitolo quarto
- Capitolo quinto
- Capitolo sesto
- Note
- Copyright