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Perché?
Da quando gli elettricisti hanno installato un amplificatore in ciascuna delle camere del reparto non si riesce più a fare la solita pennica pomeridiana, e a volte si viene svegliati di soprassalto persino di notte. Appena chiudi gli occhi, infatti, senti lo scricchiolio dei microfoni che vengono accesi, poi un campanello elettronico che ti graffia i timpani, poi un fastidiosissimo fischio e il sogno, l’illusione di non essere in ospedale ma in camera tua o disteso su una sdraio al mare svanisce. Ti ritrovi più sveglio che mai. Peggio: ti sembra di stare in un supermercato dove chiamano Rossella al banco frutta o Marco al reparto salumi, e ti chiedi chi caspita li abbia montati sti diavolo di walkie-talkie. Tant’è che dopo lo scricchiolio e il fischio e le urla dottoressa Cerini, c’è un’emergenza, corra qui, si leva un coro unanime di berci. Voci arrochite, per nulla fioche, che da ogni camera sbraitano: «Allora? Mi avete spaventato! Di questo passo mi farete scoppiare il cuore!».
Pino, ex impiegato di una fabbrica di elettrodomestici di cui ora espone sul comodino l’onorificenza aziendale, sostiene che i tecnici non hanno avuto alternativa: per quel tipo di amplificatori esiste solo un livello di volume e non lo si può abbassare. Secondo me è un altro dei suoi sfondoni, paragonabile soltanto a quello dell’ulivo che vale cinquecentomila euro. Ora si è svegliato anche lui, poverino. Il fischio gli ha fatto fare uno scatto in avanti come se fosse stato morso da un calabrone, e per poco non si è sfilato il catetere impalato al dorso, e quello che sembra una cannuccia, appeso alla vescica.
«Oh mamah, oh mamah che male!» ha cominciato a cantilenare. «Oh mamah, Filippo, chiama Nelba...»
Premo il pulsante del telecomando che serve a chiamare l’infermiera, mentre una voce maschile molto allegra, una di quelle voci squittenti che ispirano subito un’inspiegabile simpatia, comincia a diffondersi per il reparto attraverso le casse: «Ma come si fa? Uno due tre, prova? Mi sentite? Infermiera, è sicura che gli altoparlanti funzionino?».
La voce di Nelba lo rassicura: «Certo, se ha schiacciato su “on” i pazienti la sientono forte e claro».
Pino si stropiccia gli occhietti e si mette in ascolto, forse per valutare la qualità del suono e individuare il tipo e la marca delle casse, per poi sparare a caso qualche nome di una fabbrica ora fallita dove magari ha lavorato negli anni Sessanta; o forse la sua concentrazione è dovuta al fatto che anche lui come me si è accorto che stavolta la voce non appartiene a un medico o a un infermiere o a un ausiliario:
«Carissimi fedeli e non-fedeli, vi informo che fra cinque minuti celebrerò la Santa messa nel salottino di Cardiochirurgia: come tutti voi ben sapete, si trova accanto agli ascensori, vicino all’ingresso del vostro reparto. La porta è là in fondo, aperta anzi spalancata, e vi invita anche lei con calore a partecipare numerosi. Questo, che sia chiaro, è lo stesso tipo di messa che si celebra in piazza del Duomo o nelle chiese del centro-città: non c’è alcuna differenza, non vale un capello di meno, c’est la même chose, t’ee capì? Vi aspetto fra poco. Nelba? Come si spegne quest’attrezzo?»
«Prema “off”, don Ettore!»
«Prema cosa?»
«Devi andare» mi ha detto Pino, prima che Nelba arrivasse a tappargli la bocca con la mascherina per l’aerosol, «vedrai che ti farà bene.» L’ha detto con un’espressione del viso così sconsolata e un tono della voce così abbattuto che mi è sembrato un po’ invidioso. Come se pensasse sei così fortunato a poter andare a messa, mica come me. Così mi sono alzato dal letto sul quale è ormai inutile provare a riaddormentarsi, ho calzato gli infradito di gomma e, sotto il suo sguardo un po’ compiaciuto e un po’ perplesso, mi sono diretto verso il corridoio. E perché Pino mi guardava in quel modo, così perplesso? Forse perché... mi do un’occhiata: da quando in qua si va a messa con la canottiera aderente, il Sundek, l’infradito?
Apro il mio armadio, infilo l’unica camicia a righe che tengo in valigia nel caso venisse a farmi visita il primario – cosa che finora non è mai accaduta –, metto i pantaloni di un elegante pigiama blu e calzo le ciabatte di stoffa. Così può andare. Saluto Pino che stavolta ha uno sguardo pienamente compiaciuto, fin quasi orgoglioso, mi avvio verso la porta aperta anzi spalancata che mi invita anche lei alla messa, e...
Da quanto tempo non vado a messa? Di certo non mi confesso dai tempi della quarta elementare: bardato con papillon rosso, gilet e camicia a righine verdi, pantaloncini di velluto e scarpe di pelle, sono entrato per la prima volta nel confessionale, uno sgabuzzino tanto buio da fare paura persino a un pipistrello. Mi sono seduto su uno scomodo sgabello di legno e ho confidato a don Tarcisio, che stava dall’altra parte di una specie di zanzariera buia, di aver disubbidito alla mamma e di aver sperato che il papà tornasse più tardi dal lavoro perché non mi sgridasse per avere disubbidito alla mamma. Ma lui fremeva per farmi una domanda importante, e quando quella domanda ha attraversato la parete della grata, insieme a qualche sputacchio, ho provato un attimo di smarrimento: «Ti tocchi il corpo con le dita?».
I miei compagni di catechismo mi avevano detto che si trattava di uno strano tranello con il quale i preti verificano la sincerità dei ragazzini e mi avevano suggerito «Rispondi assolutamente sì, sì, sì!». E io avevo risposto: «Ovvio» precisando poi, «tutti i giorni».
Da dietro la grata si è sentito una specie di squittio stridulo, poi un sospiro stizzito, poi di nuovo uno sputacchio, poi quel ruggito la cui eco ha risuonato dieci volte per tutta la chiesa: Vergogna! Vergogna! Vergogna! Insieme a quelle parole, gli sghignazzi dei miei amici appostati fuori dal confessionale.
«Non farlo mai più! È un peccato gravissimo!» aveva infine biascicato don Tarcisio. «C’è altro?»
«No, don Tarcisio, nient’altro.»
«Siamo sicuri?»
«Sì, don Tarcisio, sì!»
«Allora vai davanti alla statua di san Pio X e di’ quindici avemarie. Dopodiché fai un regalo alla mamma: magari vai a farle la spesa, capito?»
«La spesa?»
«Sì.»
Quasi ciò non bastasse, non mi comunico dai tempi in cui feci la prima comunione, quando non riuscii a trattenere un ruttino dopo aver inghiottito la mia prima e ultima particola (per fortuna però il prete sgridò il mio amico Manuel al mio posto, motivo per cui mi sono sempre sentito in colpa nei suoi confronti).
E per finire, non metto piede in chiesa dal giorno in cui mi sono cresimato e... aspetta, Filippo! tu non ti sei nemmeno cresimato! Eri ammalato quel giorno, ricordi? Eri ammalato e poi hai lasciato perdere, manco a tredici anni avessi intuito che quel sacramento per te sarebbe stato del tutto inutile, manco avessi previsto che don Tarcisio non ti avrebbe mai sposato con Bruno Bordignon ovvero il compagno di banco di cui ti eri segretamente invaghito. Quello che ti aveva suggerito la risposta sì assolutamente sì alla domanda strana del prete.
Insomma, una volta concluso il ciclo obbligatorio di lezioni di catechismo, ho smesso persino di accorgermi che abito di fronte a una chiesa, che ogni ora le gigantesche casse di quella chiesa simulano il suono delle campane, che quel suono serve a invitare frotte di vecchiette a pregare. Io le chiese le ho frequentate e le frequento poco e, quando ci entro, lo faccio soltanto per approfittare della temperatura che ci trovo d’estate: quell’aria così fresca che i condizionatori in confronto sono forni a legna.
Nemmeno grazie a quell’aria però riesco a dimenticarmi il giorno in cui suor Dalmazia, scoprendomi a giocare con le Barbie, fece chiamare mio fratello dalla classe a fianco: «Non lo sai che Filippo gioca con le bambole?».
«Lo so, lo so» ha risposto lui, imbarazzato.
«E i tuoi genitori» ha domandato lei «lo sanno?»
«Suppongo di sì.»
«Be’, sarà meglio rinfrescargli la memoria.»
Il che mi ha tenuto alla larga per sempre da chiese, suore, preti e canoniche. Ho fatto un’unica eccezione qualche mese per la chiesa di Sergej: più che una chiesa, una specie di casupola rettangolare costruita con mattoncini rossi simili a pezzi di Lego e tetto spiovente, tenuta in scacco da quattro edifici che la soffocano fra le loro mura grigie. Con quell’aspetto indifeso, pare quasi un garofano rosso in un campo di sassi giganti: a dire il vero, l’avevo notata soltanto grazie a quella cascata di stoffa nera che si muoveva impacciata nel minuscolo giardino che la circonda dal lato sinistro.
Capivi che quel fagotto era una donna dal visino strapazzato che emergeva in cima a tutto quel nero: boccheggiando, sbuffando, suor Aglaja si affaccendava ad appendere alcune sottovesti a un filo legato fra due piante, asfissiate anche loro dallo smog circostante. Dentro quella prigione di lana e sotto quel velo pesante, pareva sul punto di piombare a terra per un colpo di calore. Un uomo sulla trentina la guardava seduto su uno sgabello, con le braccia incrociate e il tipico viso di alcuni slavi piuttosto pallidi: con le guance che si arrossano quando fa molto freddo, quando fa molto caldo, quando sono molto stanchi, quando bevono un bicchiere di vino rosso o mangiano una fettina di salame.
Appena ha notato che li stavo osservando, è balzato in piedi e prima che riuscissi ad andarmene mi ha invitato a entrare, con il tono di un commerciante che finalmente ha trovato un cliente interessato. Un tono persuasivo, gentile, leggermente sovreccitato.
Mentre la suora continuava a sgobbare e sudare, il prete mi ha mostrato la cantina senza finestre che costituiva la cattedrale russo-ortodossa della città di cui lui era arcivescovo: più che una cattedrale, un forno. Così calda che ti pareva di stare dentro a una nuvola di vapore, e in quello sgocciolare sudore ti domandavi possibile che esistano anche chiese forno? Così piccola e così piena di roba che veniva quasi da chiedere all’arcivescovo: “Quanti fedeli ci stanno qui dentro, sette?”.
Il senso di claustrofobia era accentuato dal tripudio di oro o finto oro, argento o finto argento, di cui era tappezzata la stanza: le tende, i tappeti, i mobiletti, le cornici, il leggio, le statuine, in un trionfo di bigiotterie sacre. Decine e decine di icone di legno raffiguranti svariati santi russo-ortodossi foderavano ogni centimetro quadro delle pareti, e tutte le immagini erano macchiate da impronte di labbra che ci si erano posate sopra. Anche il prete, appena entrato, si è messo a baciare quei Cristi e quelle Madonne e quei san Gregori sulla bocca, uno dopo l’altro, accarezzandoli con sussiego e sussurrandogli qualcosa in russo manco fossero vivi. Poi si è seduto su una panca, con calma, lasciando intuire che aveva proprio voglia di fare una lunga chiacchierata. Ma la chiacchierata è stata un monologo. Un lungo lamento continuo e ininterrotto, sospeso soltanto per passarsi il fazzoletto sul viso e per pulirsi le lacrime di sudore che gli colavano da ogni parte.
Improvvisamente mi ha domandato perché avessi quelle cicatrici sul collo, e mi ha fatto l’inquietante profezia. Come un rabdomante invasato, anzi, come uno iellatore di professione, ha dichiarato pane al pane e vino al vino: «Se supererai questa prova, come senz’altro il nostro Dio desidera, pagherai la tua guarigione con la solitudine».
Dopodiché l’arcivescovo ha aperto il cancello e mi ha salutato dicendo che mi aspettava a messa, la domenica alle dieci e mezzo, e che avrebbe pregato per me.
E non è l’unico: prega per me anche Malik-Maluk detto Allah-Kallah-Mallah: l’imprenditore arabo per il quale mio padre tiene la contabilità. Di ciò sono sicuro perché qualche settimana fa l’ho visto con i miei stessi occhi chiedere ad Allah che mi guarisse. Dormicchiavo nella mia cameretta quando ho sentito provenire dal salotto strani versi gutturali, parole che sembravano ragli o ragli che sembravano parole, cantilene che sembravano lagne o lagne che sembravano cantilene. Incuriosito, mi sono alzato e li ho seguiti. Il papà, emergendo dietro le solite scartoffie di cui è sommersa la sua scrivania, premeva il dito sulle labbra facendo shhhshsh e guardando allarmato ciò che stava sul tappeto: un grande fagotto di colore blu. Visto dall’alto infatti Malik-Maluk non sembrava nemmeno un uomo con un volto, un corpo, due braccia e due gambe, quanto piuttosto un oggetto privo di vita, un mucchio di lenzuola da stendere o un pacco fragile e informe che il papà aveva piazzato in mezzo alla stanza, in attesa che la mamma lo infilasse dove meglio credeva. Da quel pacco blu uscivano i borbottii incomprensibili, gli allah-kallah-mallah-sallah: erano le preghiere per farmi guarire, e, subito dopo, quelle per far sì che oltre al mio cancro sparisse quello che affligge l’intera umanità: Israele. Me l’ha confidato lui stesso quando si è alzato e riavvolgendo il suo tappetino, infilandolo dentro la sua ventiquattrore e allargando le labbra in un sorriso sdentato mi ha stretto la mano. Dentro il suo pugno c’erano venti euro stropicciati: me li ha passati in sordina, bloccando ogni tentativo di ringraziarlo e sentenziando che «Allah desidera che tutti i cancri siano disrotti».
Cosa che mi ha garantito, per conto di Geova, anche la zia Maria: quella gran rompipalle che passa la vecchiaia a suonare i citofoni di tutta la città nella speranza che qualcuno le apra la porta e ascolti le sue turlupinature; la scoppiata che ogni settimana mi legge al telefono gli stessi versetti dell’Apocalisse: quelli in cui sta scritto che la fine del mondo è vicina e che presto tutto esploderà come una palla di fuoco, che il vero e unico Dio Geova salverà solo i centoquarantaquattromila uomini giusti che se lo meritano. Poi, balbettando insicura, mi detta strane ricette di strane pozioni contro la malattia. Cavolo-fiore, non cavolo-zucca; acciughe, non alici; zucca gialla, salata; aglio preferibilmente siciliano; barbabietola pepata; olio di ceci.
Quasi ciò non bastasse, la nonna, senza chiedermelo, ha prestato a una suora in pellegrinaggio la mia maglietta preferita, in modo che venisse immersa in una fontana a Lourdes. Ora è praticamente uno straccio: e lei, di nuovo, l’ha bagnata con acqua e me l’ha strofinata sulla pelle del dorso con solennità, calcando bene nei punti dietro ai quali c’è il tumore.
Il mio comodino è ricoperto da santini provenienti da ogni convento del mondo, e io sono diventato il bersaglio verso cui tutti sparano a raffica le loro preghiere, di tutte le fedi, invocando tutti gli dèi, bisbigliando in tutte le lingue. Forse è per questo che ultimamente mi interrogo su quel vecchio con la barba bianca così spesso, cominciando dalla domanda: perché sei un vecchio con la barba bianca e non una vecchia con i capelli lunghi?
Dio, qui, è una presenza totalitaria. Non c’è miglior luogo – o peggior luogo – dell’ospedale dove trovare o perdere definitivamente la fede. Certo, ci sono anche gli indecisi, come Carmelo, il bambino della stanza accanto. L’altro giorno si dimenava come un indemoniato perché non voleva fare la chemioterapia, e a un certo punto è scappato: si è affacciato alla mia camera, con il suo pigiamino dei Gormiti e le sue pantofoline Croc, e ansimando ha mormorato: «Fil, nascondimi!». Ho spalancato la porta del mio armadio, ho tolto qualche maglione e lui ci si è ficcato dentro, al buio.
«Ma non hai paura?» gli ho chiesto, «io sarei terrorizzato.»
«Sinceramente, meglio qui dentro che con la chemio» ha risposto. Poi, aprendo un pochino l’anta dell’armadio e illuminandolo con uno spiraglio di luce, gli ho sussurrato: «Se fai la terapia, ci guardiamo i Gormiti in tv... Che ne dici?».
«No!»
«E se scarico cinque episodi di Ben Ten?»
«No!»
Poi è arrivata suor Candida, che lo stava cercando insieme alle infermiere. Le ho fatto cenno verso l’armadio. Lei l’ha aperto, e per un momento mi è sembrato che, come in un trucchetto di magia, Carmelo si fosse smaterializzato. Invece era lì, rannicchiato, che si accarezzava il polso con l’ago-cannula. La suora, riportandolo in camera, si è fermata un momento e gli ha chiesto: «Senti, ma tu ci credi in Dio, sì o no?».
E lui ha risposto: «Mah... A giorni alterni...».
Sotto o sopra o accanto ai nuovi amplificatori, è sempre appeso un crocifisso che verso sera finisce immancabilmente per sviarti i pensieri: può essere in legno, in marmo, in plastica, in metallo, in rame, in ceramica. Si vive circondati da provette e da Cristi agonizzanti, qui. Ciascuno con la stessa espressione pallida e straziata, la corona di spine ben infilzata a una testa che penzola stecchita verso il basso, una freccia conficcata nello sterno scheletrico, le ferite aperte che, insieme ai piedi e alle mani inchiodate alla croce, colano delicati rivoli di sangue. E quando alla parete non c’è un crocifisso, c’è il dipinto di un volto malinconico e dolce di una ragazzina che stringe al petto un bel neonato. Con il velo blu, nero, azzurro, bianco, dorato, marrone. Di crocifissi e Madonne l’ospedale è così pieno che ne trovi persino in bagno: mentre fai pipì nel barattolone che ormai puzza di pesce marcio, infatti, rischi di essere spiato da un minuscolo moribondo che dà l’idea di soffrire più che se avesse fatto una chemioterapia a massimo dosaggio. Per non parlare degli ascensori. I velocissimi ascensori dentro ai quali, su una targa inchiodata al posto dello specchio, sta scritto:
CHI, IN QUALSIASI MODO, VOLONTARIAMENTE IMBRATTA QUESTO POSTO, SAPPIA CHE DETURPA UN LUOGO SACRO E DISONORA TUTTI NOI CHE LAVORIAMO CON SERENITÀ E FEDE.
Accanto alla parola “fede”, qualcuno ha scritto con un pennarello indelebile il nome “Emilio”. E gli aforismi che a caratteri macroscopici campeggiano su ogni muro dell’ospedale? TRASFORMIAMO LA MEDICINA IN ARTE SACRA! oppure SIGNORE, SEI GR...