Quando Hugh Pryce, che era venuto in America per il “Times” di Londra, chiese di essere accreditato come corrispondente presso l’Armata dell’Ovest, si trovò a essere interrogato nientemeno che dal generale William Tecumseh Sherman. Sherman odiava i giornalisti: avevano la brutta abitudine di descrivere quello che l’esercito faceva in modo che chiunque, compreso un generale secessionista, potesse leggerlo sul giornale. Ma soprattutto odiava i giornalisti inglesi. I vostri maledetti mercati del cotone hanno finanziato il Sud, disse a Pryce. Se non avessi preso Atlanta quando l’ho presa, di questo si sarebbe occupato il parlamento. La vostra domanda di accreditamento non mi interessa, a quanto ne so io voi siete una maledetta spia. E non invierete alcun dispaccio mentre questa armata è in marcia.
Pryce si sentì lusingato dalla sfiducia del generale. Era un giovanotto avventuroso e si tuffò nella campagna, girando fra le truppe e riuscendo spesso a trovarsi sulla linea delle scaramucce. Viveva bene sul campo di battaglia, senza badare alle scomodità. Com’è ovvio, non era una spia. Aveva disciplinatamente conservato le sue note fino alla conquista di Savannah. Poi il divieto di inviare dispacci era stato sospeso in via temporanea e lui aveva incendiato il telegrafo con i suoi articoli.
Adesso, con l’armata che marciava verso nord, Pryce era costretto ancora una volta a prendere appunti e a ficcarseli nelle tasche. Sebbene pregustasse il momento in cui avrebbe potuto riprendere a inviare le sue cronache, pensava più al libro che avrebbe scritto una volta tornato a casa. Il fatto era che Pryce amava quella guerra americana. Quei provinciali lo entusiasmavano, i sessantamila di loro che stavano passando una falce di distruzione larga una cinquantina di chilometri sopra una terra un tempo generosa. Per la maggior parte, gli uomini con cui parlava, anche i giovani ufficiali, non erano particolarmente articolati: il Sud doveva essere punito e i negri dovevano essere liberati, ecco il Leitmotiv del discorso. E Pryce li trovava puerili nella loro adorazione per lo “Zio Billy”. (Dio aiutasse il povero yeoman che avesse osato rivolgersi a Cromwell chiamandolo Zio Ollie.) Però erano intrepidi. Li aveva visti costruire ponti, smantellare linee ferroviarie, conquistare trincee e tenere un’andatura di quindici o venti chilometri al giorno indipendentemente dal terreno o dal maltempo. Come uomini erano di un’ignoranza disastrosa, ma come forza militare trascendevano la loro classe.
Quale guerra veniva combattuta più aspramente e con maggiore entusiasmo e intensità di una guerra civile? Nessuna guerra tra le nazioni poteva starle alla pari. I generali del Nord e del Sud si conoscevano: erano stati insieme a West Point o avevano prestato servizio fianco a fianco nella guerra messicana. Certo, l’Inghilterra aveva una storia di guerre civili lunga e sanguinosa, ma quella era roba vecchia da studiare nelle scuole. Questa guerra americana si poteva vedere con i propri occhi. E per brutali e sanguinosi che fossero, gli scontri dei Lancaster e degli York erano combattimenti corpo a corpo: asce da guerra, picche, mazze. Questi ragazzi erano dei killer dell’era industriale: avevano fucili a ripetizione che potevano uccidere a mille metri di distanza, una mitraglia che poteva decimare uno schieramento in avanzata, cannoni, pezzi da campagna, munizioni capaci di distruggere intere città. La loro guerra era così impersonalmente micidiale da mandare in soffitta tutte quelle che erano venute prima.
Ma una parte dell’antica cultura militare resisteva. La brutale ma romantica avventura della guerra era ancora possibile nella cattura delle spoglie. Ogni città conquistata dall’esercito era una preda. In questo villaggio c’era una cantina eccezionale, in quello un granaio pieno fino al soffitto, una mandria di bestiame qui, un arsenale là, case da saccheggiare, schiavi da incorporare. C’era qualcosa di innegabilmente classico in tutto questo, perché, come si rifornivano gli eserciti della Grecia e di Roma se non così? Come avevano costruito un impero i soldati di Alessandro? L’esercito invasore, quando si accampava, prendeva possesso della terra come proprietario, con tutti gli elementi della domesticità, donne comprese, ampliando la funzione puramente marziale dell’ordine sociale.
Con i reparti avanzati del Ventesimo Corpo che stavano per passare nel North Carolina, Pryce decise che doveva a ogni costo unirsi agli “scrocconi”, come ingloriosamente venivano chiamati i foraggieri. Non fece fatica a trovare un’unità compiacente, un distaccamento della cavalleria del generale Kilpatrick. Era un inglese biondo, alto e robusto, con una faccia aperta, rubiconda e facile al sorriso, e quando si presentò come giornalista, agitando il taccuino come se fosse il più esoterico strumento professionale, un soldato era ben felice di dirgli il proprio nome e di sillabarglielo mentre Pryce lo scribacchiava rispettosamente, anche se in realtà non gli serviva a nulla.
Sapeva cavalcare, ma la cavalcatura che gli diedero, tra molte risate, era un mulo così sderenato che i piedi di Pryce sfioravano il terreno. Lo accettò di buon grado. Il reparto consisteva di una ventina di cavalleggeri vestiti molto alla buona, con una cospicua varietà di uniformi. Erano comandati da un sergente, un uomo di mezza età con una barba grigia di qualche giorno e un occhio bendato. Li seguivano due degli onnipresenti carri militari coperti di tela bianca.
Non era ancora spuntato il giorno, e mentre il resto dell’accampamento accendeva i fuochi per la colazione, il sergente guidò il reparto di Pryce fino in fondo a una delle strade principali e poi fuori città su una mulattiera attraverso una pineta. Qui il letto di aghi marrone era così spesso che il passo degli animali si sentiva appena. Sotto i pesanti calzoni di saia e il maglione Pryce indossava le mutande lunghe. Il suo giaccone era foderato di lana, e intorno alla gola aveva la sciarpa del suo club. Eppure si sorprese a battere le braccia sul corpo. I boschi trattenevano il freddo, come se i grandi alberi formassero una specie di volta. E l’acuto profumo dei pini sembrava spingerti il freddo nel naso e dietro gli occhi.
Da quello che Pryce riusciva a capire, il reparto precedeva la colonna verso nordest. Viaggiavano al passo indagatore di una pattuglia, con uno scopo preciso ma senza una meta ben definita. Dopo qualche tempo la strada davanti a loro parve rischiararsi e Pryce poté congratularsi con se stesso: erano effettivamente diretti verso est, perché le cime degli alti pini si erano tinte di un oro fiammeggiante. Qualche minuto dopo cominciò a sentire il calore sulle cosce quando attraversava delle zone soleggiate. Poi, di colpo, sbucarono nel mattino.
Si fermarono sulla sponda di un fiume. Un po’ a valle c’era una passerella di legno, e dopo averla attraversata in fila indiana entrarono in un’altra pineta. Qui gli alberi erano ancora più alti, e così fitti da scoraggiare il sole. Gli animali dovevano procedere a zigzag. In questi boschi dove il sole non penetrava Pryce si sentiva in gola i pericoli del foraggiamento. Erano, in fondo, solo un piccolo contingente nel territorio dei ribelli, senza alcuna informazione sulle mosse del nemico.
Venti minuti dopo erano su una strada che fiancheggiava un terreno incolto delimitato da un muretto di pietra. Due chilometri o tre di questa solfa, e il muro venne giudicato un insulto. Sotto la direzione del sergente, gli uomini smossero e smantellarono una parte delle pietre ammonticchiate abbastanza larga per consentire il passaggio di un carro; poco dopo rimontarono in sella e attraversarono il campo al piccolo galoppo, mentre Pryce, distanziato anche dai carri, li seguiva trotterellando. Vedeva finalmente la loro meta, una grande casa bianca con colonne greche sul davanti. Tagliata una strada, si trovarono a calpestare un grande tappeto verde, e poi la ghiaia di un viale curvilineo che attraversava dei giardini all’italiana di azalee e rosai e sempreverdi scolpiti. Pryce pensava che avrebbe potuto essere in una contea delle Midlands.
Quando raggiunse gli altri, erano schierati su due file davanti alla casa. Un vecchio di alta statura era in piedi sulla veranda. Era in pantofole e veste da camera, e i suoi capelli d’argento erano spettinati. Cassius! gridò il vecchio con una voce profonda e roca. Un negro fece la sua comparsa. Cassius, disse il vecchio, senza abbassare la voce e senza guardare lo schiavo di casa, ritto con aria sottomessa accanto a lui. Mostra a questi pezzenti dell’Unione quello che stanno cercando.
Così qualificate, le truppe non si mossero. Uno schiavo arrivò con una poltrona. Il vecchio si sedette. Due donne bianche apparvero, l’una per mettergli uno scialle sulle spalle e l’altra con una coperta di lana per le ginocchia. Con una calma imperiale, il vecchio contemplò le truppe dell’Unione. Disse qualcosa a una delle donne, che rientrò frettolosamente. Disse qualcosa allo schiavo che, sempre guardando i soldati, attraversò la veranda fino ai gradini laterali e sparì dietro la casa.
Hugh Pryce sentiva benissimo il disagio degli scrocconi: sarebbero stati molto più contenti di dover fare una battaglia campale. Il vecchio piantatore sedeva con le braccia posate sui braccioli della poltrona, e da sotto le folte sopracciglia bianche li trasformava con lo sguardo in un pugno di canaglie, in una banda di ladri e grassatori. Pryce lo riconosceva. L’accento poteva essere diverso, l’educazione meno raffinata, ma quello era un signore del reame, uno di quegli uomini destinati da generazioni di ricchezze a essere ossequiati da quando erano venuti al mondo. Il padre di Pryce era uno così. Pryce aveva fatto il giornalista ed era fuggito da Londra per non diventare simile a lui. Quanti di essi non sapevano com’erano stupidi, sotto la buona creanza della loro classe!
Presto uscì dalla casa un’intera famiglia di donne che si schierarono dietro il vecchio piantatore, donne di ogni età fino alle tre bambine piccole: forse la moglie tra loro, ma sorelle e figlie e nipoti, cugine e nipotine, tutte in familiare somiglianza con i loro visi scarni e gli zigomi alti e gli occhi socchiusi.
Nel preciso momento in cui Pryce si chiedeva dove fossero gli schiavi, perché non aveva mai visto conquistare una città o ispezionare una piantagione senza che dozzine di negri venissero di corsa a salutare i loro liberatori, alcuni di essi sbucarono dall’angolo della casa, poi seguiti da altri. Vennero avanti in apatico corteo, perlopiù coperti da indumenti troppo leggeri per il freddo che faceva, alcuni a piedi nudi, le donne con un fazzoletto sulla testa, gli uomini, molti, curvi, non rasati, anziani, e anche dei bambini, silenziosi e a capo chino come gli adulti; finché davanti alla veranda e davanti al vecchio non si furono radunati forse cinquanta neri. Pryce punzecchiò il mulo per portarsi alla stessa altezza degli altri. Dove certe giacche erano strappate vide cicatrici sulle spalle degli schiavi. Un uomo con le grucce era privo del piede sinistro.
Bene, disse il vecchio piantatore, con la sua voce profonda e roca. Vedete tutti che questi yankee sono venuti a liberarvi. Coraggio, voltatevi e guardate. Eccoli là.
E in effetti alcuni degli schiavi si voltarono disciplinatamente a guardare le truppe, che sembravano sconcertate da questa tacita ammissione del piantatore. Era come se li avesse, schiavi e soldati, imparentati tutti tra loro. I cavalli erano inquieti. Un cavalleggero sputò un rivolo di sugo di tabacco. Un altro alzò il fucile, prese di mira una finestra al piano di sopra e disse: Bang! Pryce aggrottò la fronte. Tutto qui? Dov’era l’intemperanza che si aspettava dagli scrocconi?
Ce l’avevate fatto un pensierino sugli yankee, disse il vecchio. Credete che non lo sappia? Credete che io non conosca tutti i pensieri che vi passano per la testa? Li conosco! So quello che pensi tu, Amos, e tu, Sally, e tu, Marcus, e Joseph e Silas e Blind Henry e ognuno di voi… Sì, fino al più piccolo bimbetto della vostra brutta razza. Perché, liberi o non liberi, non sarete mai più furbi del padrone.
Al che il sergente si scosse dalla sua catalessi e inviò un carro e una mezza dozzina di soldati verso i magazzini ai lati della casa. Gli altri rimasero con lui, e al suo segnale sfilarono i fucili e li tennero pronti.
Be’, ora ve lo dico, disse il piantatore, se pensate di andare con gli yankee, insomma, fatelo. Là fuori – puntò il dito – ce n’è un’armata intera. E sono tutti ladri. Sono tutti pezzenti. Vedete come vanno ad annusare là dietro la casa come un branco di cani da caccia? Non sono venuti qui perché sapevano che voi li stavate aspettando, nossignore, sono venuti per le mie provviste e le mie vettovaglie, per le mie scorte e i miei cavalli e i miei muli. Sono venuti per tutte le cose sulle quali le loro anime di ladri possono mettere le mani. Andate dunque con loro, andate, e sarà una bella liberazione se lo fate, perché a loro, di voi, non importa un accidente. Dovrete cavarvela da soli, e Dio vi aiuti, perché io non lo farò. Non avrete più un padrone che si occupi di voi. O che vi dia una decorosa sepoltura cristiana quando verrà la vostra ora. Nossignore. Non starete meglio di un ebreo errante, senza un posto al mondo dove posare la testa se non quando cade morto dentro un fosso chissà dove per farsi spolpare le ossa dagli avvoltoi. Andate pure, dunque, e prendetevela, questa vostra libertà, e il Signore abbia pietà delle vostre povere anime nere.
Al che il vecchio si alzò in piedi, lasciando cadere la coperta, e si voltò ed entrò in casa a grandi passi, seguito da tutta la famiglia.
Un’ora dopo, col sole alto nel cielo, le truppe si allinearono sulla ghiaia del viale, pronte a tornare indietro. Il bottino era spettacoloso, i due carri erano carichi di sacchi di farina gialla e bianca e di riso e di patate, di polli e di tacchini, di prosciutti, di mezzene di bue, di grandi ruote di formaggio, barili di noci e frutta secca, e casse di whiskey. Un barroccio era stato requisito per trasportare il bottino che avevano scoperto nascosto in un fienile: tappeti persiani arrotolati, diversi quadri, sacchi di cotone pieni di coperte e guanciali, una coppia di pistole, un vecchio fucile a pietra focaia a canna lunga, e casse di porcellane decorate con lo stemma gentilizio del piantatore. Una fila di bei muli aspettava con pazienza legata a uno dei carri. I due stalloni neri del vecchio furono attaccati alla sua carrozza. Nella carrozza, in inquieta attesa, c’erano cinque negri – tre donne e due uomini –, la totalità di quelli che avevano scelto la liberazione.
E tuttavia il sergente non diede l’ordine di muoversi, ma si voltò sulla sella e rimase là seduto a guardare la casa. Si calcò decisamente il berretto sulla testa. Si aggiustò la benda sull’occhio. C’era ancora qualcosa da fare, quella storia non era finita.
Pryce si chiedeva se avrebbero dato fuoco alla piantagione. Gli ordini permanenti del generale Sherman erano di non bruciare le case dove non c’era resistenza. Lì, sicuramente, non c’era stata alcuna resistenza. Il vecchio piantatore aveva addirittura ordinato a uno schiavo di mostrare ai soldati i magazzini. Ma il suo atteggiamento era stato provocatorio. Non era così? Si era rifiutato di parlare con i soldati e li aveva chiamati pezzenti e ladri.
Per il sergente, evidentemente, il problema era questo. E per aiutarsi a ragionare sul problema ora il sergente ordinò di aprire una cassa di whiskey.
Pryce non prese parte al dibattito che seguì, anche se bevve un sorso quando gli passarono la bottiglia. L’opinione generale sembrava essere questa: che nessun soldato appartenente all’Armata dell’Ovest di Sherman doveva permettere che queste denigrazioni restassero impunite. Un altro affronto era che così pochi schiavi avessero deciso di partire. Non che gli uomini fossero tanto ansiosi di tirarsi dietro una banda di neri. Ma l’orribile controllo mentale che il vecchio piantatore esercitava sui suoi schiavi era di fatto un insulto per i militari dell’Unione venuti a liberarli. Non era una forma di resistenza? E se lo era, non avevano forse il diritto di bruciargli quella maledetta piantagione?
Pryce era rimasto colpito. Febbrilmente scribacchiava le sue note. Che dei comuni soldati con un grado non superiore a quello di sergente potessero, nel bel mezzo della loro rischiosa missione, fermarsi a riflettere su importantissimi problemi morali gli sembrava un’espressione della quintessenziale genialità americana. Non riusciva a immaginare le truppe di Sua Maestà impegnate in una simile discussione.
A questo punto i soldati erano scesi da cavallo e passeggiavano qua e là parlando tra loro come una scuola peripatetica di filosofi aristotelici. Alcuni erano in maniche di camicia come se in quella tarda mattinata di febbraio il sole scottasse sul serio. Si presentò il problema degli schiavi: che sarebbe stato di loro se la piantagione fosse andata in fumo? Avrebbero o non avrebbero retto al colpo? Perché la piantagione, per misera che fosse la vita che facevano, era il loro mezzo di sussistenza, e di certo sarebbero stati infinitamente peggio quando il piantatore avesse sfogato la sua ira su di loro in quanto causa della distruzione della sua proprietà.
Mentre parlavano e bevevano come spugne, gli uomini non sembravano avere alcuna fretta di rimettersi in marcia. I neri seduti in carrozza parlavano tra loro, preoccupati. Le facce trepidanti, si voltavano indietro a guardare la casa. Là tutto taceva, dalla casa non usciva alcun suono e non c’era alcun segno che dentro ci fossero degli esseri viventi. E ora anche Pryce cominciava a sentirsi a disagio. Montò sul mulo sfiancato e attese.
La porta della casa si spalancò di colpo e un bambino nero, un maschio, corse giù per i gradini. Il ragazzo vide Pryce, attraversò il viale coperto di ghiaia, alzò le braccia e fece con le mani dei gesti per indicare al giornalista di issarlo sulla sella. Cosa che Pryce fece.
A questo punto un soldato che era salito sul barroccio prese uno dei piatti di porcellana della piantagione e, richiamando l’attenzione di tutti, lanciò il piatto in aria, cosa che per gli altri fu un’ispirazione, perché mentre il piatto descriveva una parabola e cadeva a terra, spaccandosi, essi presero i fucili e lo invitarono a ripetere il gesto. Poco dopo stavano tutti esercitandosi nel tiro al bers...