Il canto delle manére
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Il canto delle manére

  1. 420 pagine
  2. Italian
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Il canto delle manére

Informazioni su questo libro

"Occorre sapere che ogni albero è buono. Non fa niente a nessuno, un albero, sta fermo in piedi, massimo muove la punta nel vento. Ma se uno con la scure gli tira via la natura, che è quella di stare in piedi, l'albero si muove. E muovendosi senza gambe, perché le ha tagliate, cade giù. Allora bisogna saper dove cade, farlo andare al posto giusto, se no batte e torna indietro con una forza che rompe il mondo."
Lo sa bene quanto sia pericoloso il suo mestiere Santo Corona della Val Martin, il più grande dei boscaioli, colui che è capace di recidersi di netto una striscia di peli dal polpaccio senza intaccare la carne con un solo colpo della sua manéra, l'ascia che per lui e tutti gli altri taglialegna è come la spada per il samurai. Se esiste ancora, nella narrativa contemporanea, uno spazio per l'epica, un'ampia porzione di questo territorio è occupata dall'opera di Mauro Corona. L'epica di Corona è spontanea, non è costruita e atteggiata secondo le pose postmoderne; è la voce profonda di un mondo in via di estinzione ma che ancora ha la forza di testimoniare la sua antica esistenza arcaica e brutale, eppure pervasa di una poesia della natura capace di incanto e di imprevedibili dolcezze.
Santo della Val è il classico eroe vittima del proprio orgoglio: per orgoglio si rovina la vita costringendosi ad abbandonare il paese natale e a errare nell'Esempòn - ovvero in terra straniera -, randagio per i boschi dell'Austria, per orgoglio deve alzare ogni volta la posta delle sue sfide, per orgoglio rinuncia all'amore, per orgoglio è destinato a non trovare mai pace. Il mondo di Corona, che sempre più lettori hanno imparato a conoscere e amare, il mondo dei monti aspri, dei boschi bui, degli inverni gelidi e dei risvegli miracolosi delle stagioni, il mondo in cui i diritti della natura sono più forti e più sentiti di quelli degli uomini, questa volta si fonde, in maniera imprevedibile e imperiosa, con un altro dalle leggi completamente diverse, quello della cultura. L'esilio amaro sarà infatti temperato dagli incontri con Hugo von Hofmannsthal, con Robert Walser e con una comunità di scrittori che, in una sorta di valle dell'Eden, mostreranno a Santo, sia pure per un attimo breve, come la vita possa essere anche altro da un perenne, velenoso agone.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804667155
eBook ISBN
9788852014123

1

Nascita

Santo Corona della Val Martin era nato il 21 settembre 1879 a mezzodì. Figlio di Giulian Fupietro e Alba Caterina Carrara, ebbe subito il destino segnato. Da secoli la sua era stirpe di boscaioli e boscaiolo dové diventare anche lui. Del resto, a quei tempi, lassù i mistieri era quelli: artigiano, contadino, boscaiolo, bracconiere o contrabbandiere. Spesso tutti insieme. Infatti Santo faceva anche l’artigiano e il falciatore sui pascoli alti. Ma era arte di rincalzo, robe di quando non era tempo da tronchi: un mese d’estate e uno d’inverno. Il resto dell’anno Santo era boscaiolo, e di quelli in gamba.
Tagliare legna è mistiere pericoloso. Non si conta più gli uomini morti sotto i tronchi o spinati il sangue da colpi di manéra che tagliavano la vena grande, quella giusta per buttar fuori tutto il sangue fino l’ultima goccia. Oppure moriva sulle teleferiche, che si spaccava all’improvviso e girava intorno come serpenti d’acciaio, prendeva i boscaioli per la vita e li segava in due come stringere con un laccio un pane di burro. A volte li prendeva per il collo e gli portava via la testa come quando si torce quella di un gallo e si stacca.
Qualche volta i boscaioli veniva uccisi dalle saette, ma raro. Era più facile che la saetta prendesse i falciatori sui pascoli alti della Palazza e delle Centenere. Lassù, le falci gialle pioventi dal cielo durante i temporali arava i prati come dinamite e chi si trovava sulla linea era fritto. A volte, qualcuno si trovava sulla linea.
Altro pericolo per i boscaioli era le stue1 da far correre il legname sull’acqua. Quando le aprivano, se non eri svelto a saltar su, dalla val Vajont ti trovavi sul Piave, a Longarone, macellato come passare nella macchina da far salami. Insomma, era tanti i pericoli di morte che prendeva i boscaioli. Uno, per esempio, era quello che veniva dal tirare i tronchi con lo strozzo. Si pianta un chiodo con anello nella testa del tronco dopo averlo rotondato. Poi con la corda o più corde, da soli o in compagnia, conforme la grandezza del tronco, si comincia a strascinarlo verso valle, per metterlo sulle cataste. Può succedere però che arrivi un tratto in discesa molto ripido. Allora il tronco piglia fuga, si lancia in velocità a testa bassa come un toro che carica. Se non sei svelto a tirarti via, addio gambe. Più che altro addio caviglie e talloni, ma anche gli ossi più in su. Ce n’era diversi boscaioli zoppi in paese, e nelle valli vicine ancora di più e nei paesi dei monti, anche. Ce n’era senza una gamba o tutte e due.
Qualcuno moriva sotto il tronco che gli passava sopra e lo spianava. Succedeva una delle due, o ti cadeva addosso mentre lo tagliavi, o ti passava sopra mentre lo tiravi. In ogni modo eri sempre tu sotto e lui sopra coi suoi quintali.
Occorre sapere che ogni albero è buono. Non fa niente a nessuno, un albero, sta fermo in piedi, massimo muove la punta nel vento. Ma se uno con la scure gli tira via la natura, che è quella di stare in piedi, l’albero si muove. E muovendosi senza gambe, perché le ha tagliate, cade giù. Allora bisogna saper dove cade, farlo andare al posto giusto, se no batte e torna indietro con una forza che rompe il mondo. L’albero senza gambe, quando cade è un pericolo. Finché non è fermo, bisogna stare all’occhio. Anche quando si taglia a pezzi bisogna stare all’occhio. Può darsi che uno di quei pezzi si rivolti e venga addosso. Un albero tagliato può sempre muoversi e camminare. Quando gli hai tirato via la natura, che è quella di stare fermo, non puoi più controllarlo e non sai mai cosa fa.
Tutto questo per dire che, più di ogni altro, i boscaioli rischiava la pelle sotto i tronchi o con pericoli ancora peggio. Era mistiere pericoloso, ogni bosco aveva lapidi impiantate da qualche parte che ricordava un taglialegna morto nel punto dove stava la lapide. A volte era solo una scaglia di croda con scarpellato nome e cognome. Altre volte un legno, ma il legno marciva, non durava, il nome spariva. Allora la mettevano di pietra, che non si poteva dimenticare i boscaioli morti. Per nessun motivo.
Anche il padre di Santo, Giulian Fupietro, aveva la sua lapide nel bosco di cima Camp. Era morto anche lui preso da una pianta, e anche a lui gli avevano scarpellato una lapide sul posto. E ogni tanto, specie a primavera – quando cantava i cuculi e la lapide veniva coperta dalle erbe nuove –, Santo, bambino, andava su a cima Camp, scalzo, a spostare le erbe con la mano e cercare suo padre nella lapide. E pensare che lui, Santo, diventerà il più bravo boscaiolo del mondo. E che nissun albero riuscirà a farlo fuori.
Quando morì il padre Santo aveva sei anni: lo lasciò piccolo, pieno di fame e orfano di madre. La moglie Alba Caterina era morta di parto, spingendo il figlio fuori dalla pancia. Il piccolo Santo restò col nonno e la nonna paterni. Ma, prima di questo, occorre dire come morì Giulian Fupietro.
Giulian Fupietro, appunto, stava con la squadra al bosco di cima Camp a batter giù legname da opera: larici, pini e abeti bianchi. Aveva sramato un peccio lungo venticinque metri, messo con la punta in giù. Questo peccio a vederlo pareva una lancia buttata in terra da qualche guerriero gigante, alto come una montagna.
Giulian Fupietro si fece sotto a farlo in pezzi da quattro metri, partendo dalla cima. Su in alto, dove c’era la testa, un boscaiolo giovine, di quelli inesperti, tacò a rumenare il tronco con lo zappino. Siccome nissuno s’era accorto che zappinava lassù, nissuno gli disse “fermo!”. Il giovine manovrò con lo zappino e il tronco si mosse e scattò come un missile. Fece solo venti metri ma bastò. La punta del peccio si impiantò nella pancia di Giulian Fupietro, e dopo averlo forato da parte a parte, lo tirò a strozzo per tutta la corsa dell’albero fino in fondo la rampa, dove si fermò. Pareva una di quelle luganighe infilzate di traverso nello stecco, che i boscaioli abbrustolivano sulle braci a mezzodì. Non morì subito, ci mise qualche minuto, fursi cinque, sei. Intanto cigolava con la bocca aperta come quando si ammazza il maiale, e un tratto di quel peccio era tutto sporco di sangue e pieno di budelle intorcolate.
Per cavar il povero Giulian dall’infilzamento, fu costretti a segare l’albero in tocchi da metro in modo da poterlo spostare. Poi segarono il tronco davanti la pancia del morto e poi dietro, sulla schiena, e così Giulian Fupietro poté essere liberato e spostato, ma nella pancia gli restò un pezzo di albero come un tappo. Lo caricarono su una slitta e lo tirarono in paese per il seppellimento. Un vecchio boscher prese la manéra del povero Giulian rimasta per terra, se la infilò nella cinghia dei pantaloni e disse: «La porto a suo figlio, che la tenga per ricordo. Quando sarà grande la userà per lavoro, sono sicuro che farà il boscaiolo».
Infatti fece il boscaiolo. Quando si nasce in una famiglia dove si continua a far na roba da secoli, è facile che figli e nipoti facciano quella cosa anche loro. Se uno nasce per esempio in una famiglia dove tutti ha suonato e suona il violino, è quasi sicuro che anche lui suonerà il violino. A meno che non sia un bastian contrario, o che abbia il sangue differente, è garantito, suonerà il violino. Così successe per Santo Corona della Val Martin.
1 Dighe.

2

l’infanzia

Dopo morto il padre, il canaj2 restò coi nonni paterni. Questi si chiamava Domenico Sebastiano Corona e Costanza Teresa Martin. Ogni tanto una deda3 senza marito, senza figli e senza voglie andava a fare visita ai nonni per avere un po’ di compagnia. Se per caso trovava il bambino da solo, subito attaccava a dire che lei avrebbe tanto voluto un figlio, e se Santo non fosse stato così brutto avrebbe chiesto ai nonni di poterlo prendere con sé. Ma, dato che era brutto, e nianche un buon bambino, non lo avrebbe mai voluto. Santo era contento di restare coi nonni, ma a sentirsi dire da quella troia che era brutto si avviliva. Fu una delle prime, tante, innumerevoli umiliazioni della sua vita e, fursi, per questo da grande diventò cattivo e, anche se gli piacevano, odiava le donne.
Non passava giorno che, quando lo incontrava, la deda troia non dicesse: «A béign, canaj, ce brut che to su!».4 Pareva se la godesse un mondo a umiliare Santo ricordandogli che era brutto. Finché una mattina, mentre ancora una volta la troia gli diceva così, si trovò vicino il boscaiolo Augusto Corona Peron, detto Agusto, una catasta di forza e bontà.
Appena sentì la donna maltrattare il bambino e vide il bambino con la testa bassa, saltò fuori e disse: «Ocio, puttana, fila via! Lascia in pace il canaj! Non vedi che è avvilito morto? Tu sì che sei brutta, infame, carogna, troia. Levati dai coglioni, va’ a farti montare da qualche becco o ti spacco il culo. O peggio, ti faccio una mona nella pancia con un colpo di scure». Tirò giù la manéra che aveva in spalla e fece il gesto di tagliarla in due. La donna scappò spaventata ma non smise mai di dire “brutto” al povero Santino quando lo incontrava.
Il boscaiolo Agusto Peron, che vuol dire “sasso”, perché l’uomo aveva i muscoli duri come pietre, si avvicinò al bambino, lo prese per mano e disse: «Vieni con me». Lo portò sul dietro dell’osteria Pilin, dove stava incumulata nel cantone una montagna di legna da spaccare che pareva il Duranno. Era già tagliata in pezzi, Agusto doveva solo fenderla.
«Sei capace di spaccare legna?» chiese al bambino.
«Sì» rispose, «sono buono da spaccare, quando era vivo mio padre m’insegnava.»
«Prova a spaccarne uno, allora» disse Agusto sporgendogli la scure dalla parte del manico e un pezzo di legno.
Santo lo prese, lo appoggiò dritto sul ciocco, strinse la manéra, la levò in aria e calò un colpo che l’uomo mai si sarebbe aspettato da un bambino di sei anni. Sei anni è sei anni, non si ha nissuna forza. Ma Santo ne aveva e il tronco si spaccò in due come fusse di vetro.
«Ostia» disse Agusto, «che bravo! Non l’avrei mai detto.»
Il boscaiolo, dopo aver visato il nonno, tenne il bambino fino a mezzogiorno, spaccando legna e ciacolando con lui, e dopo lo portò da Pilin a mangiare il minestrone.
«Questo viene bravo di manéra» disse appena entrato agli uomini che beveva lì dentro. Tenendo Santo per la mano disse ancora: «Sto bocia, fra qualche anno, vi batte tutti quanti».
Quel giorno, il piccolo aveva trovato il suo angelo custode.
Santo ancora non andava a scuola. Cominciò verso i nove anni e imparò giusto a leggere e scrivere, poi non andò più. Star sui banchi non gli piaceva, preferiva andare in giro per i boschi, con suo nonno, a tagliare legna. In quella famiglia erano tutti tagliaboschi. Dai bisavoli, ai trisavoli e trisavole, uomini e donne, tutti in quella casa aveva maneggiato la scure come il barbiere il rasoio.
C’era una vecchia che batteva gli uomini a far ramaglia con la ronca. La ramaglia veniva detta bachetàn, che vuol dire bastoni, cioè legna fina legata in fasci. La vecchia, di nome Antonia, la chiamavano Tonina Bachetàn. Nel bosco pisciava in piedi senza smettere di maneggiare la ronca, ma a quei tempi tutte le vecchie pisciava in piedi ed era senza mutande, per esser più veloci a far tutto.
Così il piccolo Santo venne su col nonno Domenico Sebastiano e la nonna Costanza Teresa, che lo cresceva come un uccellino nel nido cercando di fargli dimenticare che era senza genitori. Il vecchio se lo portava dietro dappertutto dove andava, sia nel bosco che nella stalla a governare le bestie. La moglie teneva una vacca per il latte e cinque capre per latte anche quelle.
Quando non andava in bosco col nonno veniva a prenderlo Agusto Peron, l’angelo custode, e lo portava a spaccare legna. Gli piaceva vedere quel canajut che non sbagliava un colpo. Ma Agusto lo portava anche in bosco a fargli vedere i trucchi del vero taglialegna, trucchi che serviva non a tagliare maggior numero di piante, ma a fare meno fatica. Per esempio, far cadere l’albero nel verso giusto. Se non cade nel verso giusto, un albero ti fa diventar matto a portarlo in catasta. Non è mica da scherzare col peso. Il peso pesa, e allora manco lo si sposta meglio è.
Agusto faceva vedere al bocia tutte queste robe, lui guardava e teneva a memoria. Un giorno gli mostrò come si fa cadere una pianta verso monte anche se questa è piegata parecchio verso valle. Agusto preparò sei cunei di frassino e la mazza e li mise da parte. Si rampicò sulla pianta che aveva da tagliare e, poco sotto la punta, legò una corda.
Tornò giù, fece passare la corda nel paranco, fissò il capo a un ciocco più in alto e la mise in tiro. Poi fece un taglio con la sega alla base del tronco, dalla parte a valle. In questo taglio puntò i sei cunei e li batté con la mazza finché cantarono. Dopo, andò dall’altra parte e si mise a tagliare la pianta a colpi di manéra.
Quando fu quasi a metà, mollò la manéra, prese la leva e tirò il paranco al massimo. La parte alta dell’albero si voltò a monte, quella bassa restò ferma. Fissò la corda che non tornasse indietro e riprese a dare manerate. Prima però aveva battuto i cunei con la mazza, facendoli penetrare nel taglio per due dita. Santo guardava, seduto un po’ più in là, fuori tiro dal paranco e dalla corda. Metti che avesse dovuto spaccarsi e far da fionda, era al sicuro.
Agusto lavorava un po’ qua un po’ là. Una volta picchiava i cunei con la mazza, una volta tagliava di manéra, l’altra tirava col paranco. Quando Santo guardò la cima della pianta si accorse che, se prima piegava verso valle, adesso era diventata dritta. Paranco e cunei l’avevan tirata in su, verso la spalla del monte. Ma non era finita. Agusto si spostava come il cane da ferma tra i cespugli, dal paranco alla manéra, dai cunei al farsi una fumata seduto vicino al bambino. Santo spiava ogni mossa attento a non perdere nianche un movimento. Quella scena di un albero storto, che piegava verso valle, drizzato a forza e fatto cadere verso monte, gli restò per sempre scarpellata nella testa come i nomi dei morti sulle lapidi. Agusto saltò ancora da una parte all’altra, a tirare il paranco, tagliare di base e battere i cunei.
A un certo punto, senza avvertire nissuno, l’albero parlò. Si mise a scricchiolare come una porta arrugginita e quello scricchiolare voleva dire che si era mosso. Svelto, Agusto cominciò a tirare il paranco a più non posso. Dopo un attimo la corda, fino allora tesa come quella del violino, diventò lasca di colpo, la grande pianta dondolò un poco e poi si rovesciò verso monte andando a sbattere sul terreno e facendo volare nuvole di foglie secche.
«Hai visto, canaj?» disse Agusto al bambino. «Hai visto che le robe storte si possono drizzare e farle andare al verso giusto? Sono le robe storte della vita che non drizzi quando vuoi. Quelle è solo il tempo che le drizza.» Si passò una mano sul viso sudato e finì: «Ma sei ancora troppo piccolo per capire».
Infatti Santino non capiva quelle parole ma la scena dell’albero storto l’aveva capita. Aveva visto che un albero si può farlo cadere dove si vuole, qualsiasi posizione abbia. Basta avere cunei e paranco. Tante robe imparava il canaj sotto la guida del suo angelo custode, e quelle che non gli insegnava lui, le imparava dal nonno Domenico Sebastiano. Non era mica secondo a nessuno, il vecchio, in fatto di esperienza nel bosco e nella vita.
«È un bosco anche la vita» gli diceva, «da curare, tagliare, pulire e proteggere, se no va in malora.»
Ma suo nonno era rigido, parlava poco, era sempre silenzioso, come un cane vecchio. Gli insegnava le robe sempre con una certa severità, come se il piccolo avesse qualche colpa, o dovesse imparare tutto in fretta perché il nonno non aveva più molto tempo. Agusto, invece, gli insegnava robe facendolo giocare, facendogli vedere colpi di bravura che lo lasciavano con la bocca aperta, gli occhi grandi come lune, e il naso senza fiato. E le gambe che tremava. Finito il colpo magico, mettendogli in mano la scure, Agusto gli diceva: «Prova tu». Il bambino mollava la manéra spaventato, ma intanto aveva visto quel che aveva da vedere, e il gesto se lo impiantava nella memoria come un chiodo nella trave.
Una delle tante prove di bravura che faceva Agusto era questa. Quando fermava il lavoro per mangiare un boccone, per esempio dopo aver spaccato legna, visto che Agusto faceva anche lo spaccatore, cavava un salame dallo zaino, lo metteva sul ciocco e diceva a Santino: «Sta’ attento qui». Prendeva la manéra con la destra e teneva il salame con la sinistra. Poi alzava la scure affilata come un rasoio, e con colpi precisi iniziava a tagliar fette di salame. A ogni colpo ne rovesciava una sul piano mentre il filo gli passava a un millimetro dalle dita che tenevano il salame. L’ultimo colpo lo lasciava sul ciocco, in pratica la manéra restava impiantata e Agusto si metteva a mangiare. Non prima di averne offerto al canaj, che gramolava di gusto perché aveva sempre fame.
“Quando son grande lo faccio anch’io” pensava il bambino.
Un’altra bravura di Agusto era quella di far la punta a un bastone a uso un lapis con la manéra, poggiandolo su una pietra invece che sul ciocco. L’arte stava nel far la punta al bastone senza mettere il filo della scure sul sasso. Era rari capaci di tanto, anzi, nissuno. Tutti provava e tutti toccava il sasso che faceva folische5 e il filo della manéra faceva le ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. 1. Nascita
  6. 2. L’infanzia
  7. 3. La manéra
  8. 4. Prova di coraggio
  9. 5. La legge del bosco
  10. 6. Insegnamenti
  11. 7. La portatrice di carrucole
  12. 8. La sfida vinta
  13. 9. La guerra dei boschi
  14. 10. Il cortello
  15. 11. Nei boschi di Barucco
  16. 12. La radura dei bei sogni
  17. 13. Val Chialedina
  18. 14. Morte di un amico
  19. 15. Il carico
  20. 16. In viaggio
  21. 17. Una sorpresa
  22. 18. Al lavoro
  23. 19. Due boscaioli speciali
  24. 20. Quei boschi sui laghi e quella strana gente
  25. 21. Matrimonio senza fortuna
  26. 22. La fuga
  27. 23. Di nuovo in Austria
  28. 24. Il cuore batte ancora
  29. 25. Il tempo passa
  30. 26. Cambiamenti
  31. 27. In Francia
  32. 28. Aria di casa
  33. 29. Tramonto
  34. 30. Il faggio
  35. 31. Epilogo
  36. Ringraziamenti
  37. Indice