Questo sono io
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Questo sono io

  1. 132 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Questo sono io

Informazioni su questo libro

Questo sono io significa che Gigi D'Alessio, poche storie, dice tutto. Perché se qualcuno deve parlare di certe cose, è giusto che lo faccia lui in prima persona, al di là dello spifferare maligno dei pettegolezzi.
E allora racconta per la prima volta senza reticenze della storia con Anna Tatangelo: "All'inizio ero comunque spaventato, poi sono arrivato alla conclusione che non c'era nulla di male ad amare di nuovo, a vivere una nuova storia d'amore, che non era giusto trattenersi solo per paura...".
Risponde alle accuse di vicinanza ad alcuni ambienti malavitosi: "Ho cantato alle feste di alcuni boss della camorra. A Napoli, appena cominci a diventare qualcuno, quel 'giro' ti viene a cercare: diventi la loro ciliegina sulla torta di nozze. E quando scatta l'invito', non puoi rifiutare...".
Fa chiarezza sull'amicizia-rivalità con Pino Daniele e su quei maledetti fischi al concerto di piazza Plebiscito. Dice la sua sui "pezzotti", i Cd falsi che lo rendono il cantante italiano più piratato: "Ma va bene così. È meglio che vendano Cd falsi per arrivare fino al 27 del mese, che fare cose ben peggiori". Fa sorridere e sognare quando narra dei suoi incontri con Wojtyla, Maradona, o di quella volta che cantò Malafemmena a Bill Clinton in pieno scandalo Lewinsky.
Senza tradire la sua schiettezza e veracità, mette il cuore in mano a tutti i suoi fan: "Nella mia vita ho conosciuto l'inferno, ho visto il baratro, ho toccato il fondo, mi sono più volte piegato ma mai spezzato. Con determinazione e tanto lavoro mi sono sempre rialzato".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804591252
eBook ISBN
9788852015748

Questo sono io

19 settembre 2000: Napoli, piazza del Plebiscito

Ho saputo che oltre duecentoventimila persone stanno arrivando per il concerto. Vogliono una sola cosa: cantare insieme a me le mie canzoni. Col tempo sono diventate anche le loro.
«Tanta gente non si vedeva dal concerto di Pino Daniele del 20 settembre ’81» si entusiasmano i miei collaboratori più stretti, quelli che, nel bene e nel male, non mi mollano mai.
Non riesco a crederci, mi fa paura. Cerco di rilassarmi, di preparare testa e cuore per ripagare quella marea umana. Sarà un grande spettacolo. Grande.
A un’ora dal concerto anche piazza Trieste e Trento e la strada di fronte al Teatro San Carlo sono piene come un tram nell’ora di punta. Uno spettacolo, mi dicono, davvero incredibile.
Provo a estraniarmi, ringrazio in silenzio nostro Signore per quello che m’ha dato e che mi sta dando dopo tanti anni di rincorse e sacrifici; ringrazio la mia famiglia, per non avermi mai abbandonato, e il pubblico, la mia “nuova famiglia”. Grazie, sì, ma il cuore mi scoppia.
Salgo sul palco, ma prima di entrare in scena mi fermo nascondendomi dietro il muro degli amplificatori. Voglio vedere, voglio rendermi conto di quanta gente è venuta per me. La piazza sembra, in piccolo, il golfo di Napoli: sulle onde del pubblico le fiammelle degli accendini brillano come le lampare dei pescatori.
Entro in scena e un boato mi investe, tirandomi a forza verso la gente, le tavole del palco vibrano, ho paura. Adesso so che quello che mi sta succedendo è più grande di me, ma anche che questo è il mio posto e che non sono i dischi venduti a scaldarmi il cuore.
Ciò che conta davvero sono le persone che credono in quello che faccio, nella mia musica, che mi amano con sincerità, come uno di famiglia. Quel che conta è donare – con una canzone – briciole di felicità.
Mi viene da piangere.
Saluto la mia città: ancora grazie per… tutto. Sono a casa, con centinaia di migliaia di amici. Se sono qui è tutto merito loro: mi hanno sostenuto quando giornali e televisioni mi sbattevano la porta in faccia, quando i salotti buoni con la puzza sotto il naso mi deridevano, quando gli alleati furbi di oggi erano ancora nemici.
Pippo Baudo, vestito da cameriere, sale sul palco con un vassoio in mano, mi porge una tazzina di caffè che beviamo insieme, come si fa tra cari amici.
Cantiamo:
Ma cu ’sti mode, oje Brìggeta,
tazza ’e cafè parite:
sotto tenite ’o zzuccaro,
e ’ncoppa, amara site…
Ma i’ tanto ch’aggi’ ’a vutà,
e tanto ch’aggi’ ’a girà…
ca ’o ddoce ’e sott’ ’a tazza,
fin’a ’mmocca mm’ha da arrivà!
Sono passati quasi dieci anni, ma sembra ieri. Il calore di quel grande abbraccio lo sento ancora forte e, da allora, la consapevolezza di quello che sono fa parte di me, della mia anima.
Questo sono io, questo è il viaggio della mia vita, sul vento delle emozioni per le cose piccole, così come per le grandi. Un album di immagini, di sensazioni, di riflessioni sul presente e su come, forse, sarà il domani. Pensieri e ricordi sparsi senza ordine apparente, colti dal giardino della memoria grazie anche all’aiuto del caro amico giornalista Carmine Aymone, che con me ha condiviso tanti momenti e ha collaborato alla stesura di questo testo.
Questo sono io, un “Gino” (in famiglia, da sempre, mi chiamano così) qualunque che, con fatica e passione, da figlio di una meravigliosa città di mare chiamata Napoli, è diventato “marinaio della musica”. Un Gino qualunque che, a bordo del suo pianoforte, segue da sempre una rotta fatta di note, sentimenti, rabbia, dolcezza, vittorie e sconfitte.
Per me, significa amare la vita e la musica.

Una nuvola bianca nel cielo di Roma

Vivo su una verde collina vicino a Roma. Spesso, mirando il panorama, cerco d’istinto con lo sguardo il mare che, naturalmente, non posso vedere. Lo faccio quasi fosse un bisogno fisico, visivo, un nutrimento per i sensi. Lo cerco ma non lo trovo. Poi rifletto: per sentirlo non ho bisogno di vederlo, è dentro di me.
Questa strana sensazione può capirla solo chi è nato in una città accarezzata, ogni giorno, dalla brezza e dalla salsedine: Napoli come Genova, Bari come Palermo.
Il legame con la mia città è forte: sono fiero di essere nato a Napoli. Ho dichiarato migliaia di volte che nascere in quest’angolo del pianeta, dove il cielo e il mare hanno lo stesso colore, dove “’o cielo pure si chiove se vasa ’o mare”, dove il vulcano è sdraiato su uno dei golfi più belli del mondo, è un privilegio, un valore aggiunto.
Noi partenopei sappiamo cos’è la sofferenza, il dolore, e per questo siamo generosi.
Sono andato via da Napoli perché per un artista è fondamentale stare a Roma o a Milano, dove tutto avviene o può accadere. Roma è il giusto compromesso. Una città meravigliosa, con una storia unica al mondo, con un clima mite, simile a quello di Napoli, che mi aiuta a scrivere, a comporre.
Non riuscirei a lavorare nella nebbia, con l’umidità e la pioggia, al freddo. Ho bisogno del sole, della luce che filtra dalle nuvole bianche, del cielo azzurro. Roma è un punto d’incontro tra il lavoro e la vita: quando ho bisogno della mia città in un’ora e mezzo ci arrivo.
Mi sento come una nuvola bianca nel cielo di Roma a cui basta un soffio per scendere al Sud.
Ho trasferito un pezzetto di Napoli a casa mia.
Nelle stanze della mia casa è possibile incontrare– tra stampe, foto, oggetti, libri, spartiti, profumi che provengono dalla cucina – l’arte di Totò, di Carosone, dei De Filippo, di Scarpetta, Bovio, Viviani, Caruso, Di Giacomo, Merola, Taranto, Bruni, Murolo, Troisi…
Così non mi sento mai troppo lontano dalle mie radici.
Ho dedicato alla mia città la canzone Napule, contenuta nell’album Quanti amori del 2004. Quando la scrissi, immaginai di dipingere un profilo della città, con i suoi simboli, le sue usanze, i suoi miti.
Così è nata Napule, un quadro in note dove ho “dipinto” la pizza Margherita, san Gennaro, Totò, Caruso. A cantarla con me due napoletani DOC, due scugnizzi: Sal da Vinci e Gigi Finizio. E un “uomo del Sud”, come lui stesso ama definirsi: Lucio Dalla.
Chillu jorno ’nu rré e ’na reggina
partettene a fore venettene ccà
Fuie ’na festa e pe’ for’e balcone
’nu sacco e bandiere pe’ tutt’a città
Masaniello purtaie ’nu babà
ma a riggina vuleve mangià
Fuje accussì ca cu ll’acqu’e a farina
’nu bellu guaglione a facette ’ncantà
Po guardaie da bandiera e culure
pensaie ’nu numento dicette Maistà
Mo ce metto ddoje pummerulelle
cu ’sta muzzarella e ’na fronna d’està
Po ’nu furno vulett’appiccià
dduie minut’e va faccio assaggià
Chella pizz’a nventaje pe’a reggina
perciò Margherita l’avetta chiammà
Napule
t’o raccontano Napule
’nfaccia e mure de viche
può lleggere a storia e ’sta bella città
Gennarino a Pozzuoli cresceva
parlava ca ggente sultanto e Gesù
Ma ce steve chi nun ce credeva
e ’nu juorno e settembre o vulette affruntà
Contr’o diavolo niente può ffà
ma sapeva ca Dio steve llà
E accussì m’paraviso sagliette e ’o Vesuvio
che mmane sapette fermà
C’era un principe senza casato
che aveva cambiato la sua identità
Diventato un attore importante
pe’ tutta ’sta gente era il grande Totò
E cuntento morì in povertà
p’ajutà tanta gent’a campà
Chillu principe ricco int’o core
ma quant’allegria c’ha saputo purtà
Napule
Una notte ero in barca a Surriento
in un mare elegante vestito di blu
Sotto un cielo pezzato di stelle
da un vecchio terrazzo qualcuno cantò
Una voce cantava per me
non vedevo nessuno perché
Era il canto del grande Caruso
che il mare l’aveva tenuto per sé
E accussì te mettist’a sunà
ddoje parole sapiste ’nventà
’Sta canzone ca e scritt’a Surriento
oramai tutt’o munno t’ha sap cantà.

Quando le figurine dei calciatori giocavano sul campo della fantasia

Sono nato il 24 febbraio del 1967, ultimo di tre figli. Ero anche il più piccolo di corporatura, talmente minuto che qualcuno mi scambiava per il figlio di mia sorella Maria, di undici anni più grande di me, o di mio fratello Pietro, maggiore di dieci anni.
Il mio quartiere distava in linea d’aria meno di un chilometro dal porto.
La mattina presto mi svegliavo con l’odore del mare e quello del caffè che veniva dalla cucina. Lo preparava mamma con la “macchinetta” napoletana, aiutata da mia sorella, e lo faceva proprio come descritto dal grande Eduardo De Filippo nella commedia Questi fantasmi!: sul becco mia madre incastrava il coppitiello, il cappuccio di carta per imprigionare il fumo denso del primo caffè, quello più carico. Nella parte interna della capsula bucherellata, poi, ci metteva un mezzo cucchiaino di polvere macinata, così l’acqua in ebollizione già si aromatizzava.
Fare il caffè è un’arte e i napoletani lo sanno. Lo sapeva Eduardo, o meglio Pasquale Lojacono, protagonista di Questi fantasmi!, che, affacciato al balcone, diceva al suo immaginario vicino: “Il caffè deve avere il colore del manto di monaco. […] Vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo, prendere il caffè fuori al balcone scambiando due parole con il dirimpettaio simpatico. Il caffè bisogna prenderlo con tranquillità. Io per esempio, a tutto rinuncerei, tranne a questa tazzina di caffè dopo un’oretta di sonno fatta dopo pranzo”.
La scuola, la cartella piena di libri, i pastelli, le matite, i quaderni, le figurine dei calciatori: “’E fiurine ’e giocatori”, così le chiamavamo. Allora non erano tridimensionali, digitali, elettroniche, non cambiavano a seconda del punto di osservazione. Erano delle semplici e belle figurine, immobili, piatte.
Compravamo le bustine dal giornalaio. Dentro ne uscivano cinque a sorpresa. I campioni delle nostre immaginette di carta giocavano in carne e ossa sul campo della nostra fantasia. Bruscolotti e Juliano erano i nostri eroi, Maradona ancora non era arrivato in città. Quella del bomber del Napoli di allora, Beppe Savoldi, era la figurina più ricercata: poteva valerne anche quindici di altri giocatori.
Se non riuscivamo a scambiarla ce la giocavamo a pacchero. Bisognava riuscire a capovolgere più figurine possibili dando uno schiaffone a terra a fianco del mucchietto dei giocatori di carta. Si tirava ’o tuocco, la conta, per vedere chi iniziava per primo.
Ciascuno aveva una tecnica particolare, che poteva variare a seconda di quanto alto era il mucchietto da accappottare, da ribaltare: c’era chi metteva la mano piatta, schianata, e chi accupputa.
Anche la forza da mettere nel pacchero, nello schiaffo, non era sempre la stessa, e variava in base a quanti giocatori c’erano nel mucchietto. Se lo si dava troppo forte, per esempio quando le figurine erano poche e, quindi, più leggere da spostare, si rischiava di far fare al mucchietto ’na capriola, facendole tornare a faccia in giù, nella posizione di partenza. Quando accadeva, il colpo non valeva.
Come in ogni gruppo di amici e conoscenti, c’era poi chi faceva ’o furbo e provava a imbrogliare rovesciando le figurine con un piccolo e veloce colpo dato di lato con l’unghia del pollice. Se gli riusciva era tutto ok, ma se qualcuno se ne accorgeva e lo sgamava erano mazzate ’e morte. Dopo un’oretta, passata a schiaffeggiare violentemente qualunque cosa ci potesse fare da piano di gioco, avevamo le mani rosse, deformate e doloranti, eppure ci divertivamo molto e con poco.
Chissà che qualche console di ultimissima generazione non inventi prima o poi un videogioco del pacchero. Sarebbe divertente.

Un presepe per sognare un mondo di Pazzarielli e zampognari

La Napoli della mia infanzia era diversa. La vita era diversa. Era la Napoli dei tram, dei pullman verdi, delle rare cabine telefoniche a gettoni, della festa di San Gennaro il 19 settembre, con le ba...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Questo sono io