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CAPITOLO OTTAVO
A.D. 1175
Città di Alessandria
Cinque mesi dopo
1
Come l’esperienza aveva già insegnato a Rossano, un assedio poteva diventare estremamente noioso. Dopo la sfuriata iniziale, ben rintuzzata dalla guarnigione di Alessandria, l’esercito imperiale aveva provato a sferrare ancora una decina di attacchi in grande stile, facendo ricorso soprattutto alla potenza di tiro delle catapulte e cercando di avvicinare quanti più uomini possibile ai bastioni per tentare la scalata alle mura imponenti della città.
Ma se i massi scagliati da lunga distanza si erano dimostrati inefficaci e parecchio imprecisi, i tentativi di assalto alle pareti verticali della fortezza avevano causato solo molte perdite fra i nemici, che cercavano di proteggersi dal lancio di pietre e di olio bollente dagli spalti grazie all’utilizzo di coperture di legno rivestite di cera, oppure, più semplicemente, con gli scudi d’assalto. Sotterfugi che riuscivano a garantire una certa sicurezza lungo il tragitto per raggiungere i bastioni, ma che si dimostravano del tutto inadeguati quando i soldati imperiali erano costretti a issare le scale d’abbordaggio o a lanciare gli arpioni a cui erano legate lunghe corde provviste di nodi per potersi arrampicare. A quel punto gli assalitori dovevano uscire allo scoperto, e diventavano facile bersaglio per gli uomini di Rossano, che si dimostravano ogni giorno sempre più abili e sicuri di sé nel colpire il nemico senza esporsi al lancio delle frecce e dei dardi delle balestre.
Per quanto riguardava le poderose torri d’assalto imperiali, era ormai evidente che non erano in grado di resistere all’impatto con gli arpioni scagliati dalle baliste che Rossano aveva fatto collocare sugli spalti, che in questo si erano dimostrate un’arma decisiva, al di là di qualsiasi aspettativa.
Senza le torri, per gli assaltatori imperiali diventava davvero difficile escogitare qualche tattica efficace per potersi portare a ridosso delle mura e, soprattutto, scalarle fino agli spalti.
Solo una volta ci erano andati molto vicini, prendendo di sorpresa Rossano e i suoi uomini, ma da allora non erano più riusciti a ripetere l’impresa.
Qualche generale imperiale, probabilmente esasperato per la situazione di stallo che perdurava ormai da qualche mese e che niente sembrava in grado di smuovere, aveva messo in pratica una tattica tanto ardita da risultare quasi vincente: nottetempo aveva fatto avanzare uno squadrone di uomini completamente nudi e con il corpo cosparso di fango, che senza essere visti erano riusciti ad arrivare a ridosso della motta di nordest. Una volta lì erano scivolati all’interno del fossato di difesa, avevano evitato le picche acuminate piantate sul fondo, e quando erano arrivati dall’altra parte avevano cominciato a scavare in silenzio, con l’intenzione di realizzare un tunnel che sarebbe passato direttamente sotto l’ala ovest della motta, che era stata costruita senza fondamenta sopra un rialzo artificiale del terreno. Quegli uomini avevano lavorato alacremente per tutta la notte, poi prima dello spuntare dell’alba avevano occultato la galleria con una copertura di legni intrecciati su cui avevano sparso terra e sabbia, in modo che non fosse individuabile dall’alto.
Avevano proceduto in quel modo per due o tre giorni almeno, arrivando a scavare abbastanza da giungere fin quasi sotto il perimetro interno delle mura, e se non fosse stato per un puro caso, forse sarebbero davvero riusciti ad aprire un varco che avrebbe permesso nottetempo a soldati armati di penetrare in città, seminando lo scompiglio.
Erano stati scoperti perché una delle reclute più giovani fra quelle addestrate da Tarcisio Bonassei, mentre si trovava sugli spalti della motta, aveva litigato con un coetaneo, e durante la colluttazione era andata a sbattere contro un parapetto, perdendo l’usbergo di cuoio che era caduto oltre il torrione. Impauriti per quello che avevano combinato – il loro comandante di squadra era molto pignolo e ligio alla forma, e compiva ispezioni a ogni turno di ronda per verificare che tutti indossassero l’armatura d’ordinanza – i due giovani si erano sporti a guardare, per cercare di capire dove fosse finito l’usbergo. Era notte fonda, e non era possibile scorgere nulla, ai piedi delle mura e nel fossato che correva lungo il perimetro della motta, così uno dei due giovani aveva acceso una torcia e l’aveva lanciata di sotto, per cercare di illuminare il terreno.
Quello che avevano visto, quando la torcia era caduta a pochi passi da dove i soldati nemici stavano scavando alacremente, li aveva lasciati a bocca aperta, e subito avevano dato l’allarme.
Quando, il mattino dopo, Tarcisio aveva mandato due uomini a controllare quello che stavano facendo i nemici alla base della motta, avevano scoperto il tunnel e la copertura di legni intrecciati, e avevano riferito ogni cosa.
Da quel momento Rossano aveva predisposto turni di vedetta con il lancio di torce oltre le mura a intervalli regolari, scongiurando definitivamente qualsiasi altro tentativo di penetrare in città in quel modo. Ma parlando con Tarcisio Bonassei aveva convenuto che il nemico era arrivato molto vicino a ottenere un risultato imprevisto, penetrando in città nel modo più semplice che potesse essere escogitato durante un assedio.
Dopo quell’episodio, l’assedio si era trasformato in una sequenza di ronde, veglie e servizi di routine sugli spalti che avevano diffuso un senso di tranquillità ma anche di noia in buona parte della guarnigione.
Anche il lancio di proietti si era pressoché arrestato, e quei pochi che cadevano durante la giornata non provocavano danni rilevanti: era chiaro che venivano lanciati al solo scopo di tenere occupate le grandi macchine da guerra imperiali e dare una parvenza di attività durante quel lungo assedio ormai in stallo.
Rossano aveva quasi smesso di recarsi alla garitta di comando, limitandosi a tenere una staffetta sempre pronta ad accorrere a chiamarlo, nel caso il nemico si fosse risvegliato all’improvviso e avesse tentato qualche assalto ai bastioni. Ma negli ultimi tre mesi non era mai stato chiamato, il che dimostrava che i generali imperiali erano a corto di strategie da applicare per migliorare le loro tattiche d’assalto.
Così Rossano aveva potuto concentrarsi su altri problemi che lo pressavano da vicino, e che ben presto aveva cominciato a considerare più importanti: l’impossibilità di frequentare Angelica Concesa e il comportamento sempre più ambiguo e sfuggente di Venanzio da Urbino.
«Sarò qui fra poco, d’accordo?» disse Rossano.
Tarcisio Bonassei sorrise. «Prenditi pure tutto il tempo che ti serve. Non credo che il nemico abbia intenzione di scatenare un attacco proprio adesso.»
«Non si sa mai» ribatté Rossano puntando l’indice su Tarcisio. «Ricordati quello che ti ho detto.»
«Mai fidarsi del Barbarossa, certo» assentì Tarcisio.
Rossano sorrise a sua volta, poi si allontanò dal posto di comando che avevano ricavato in una delle basse palazzine di legno accanto alla foresteria della guarnigione. Si diresse verso il palazzo consolare cercando di trattenere l’emozione, anche se non era affatto certo che sarebbe riuscito a vedere Angelica. Negli ultimi cinque mesi, da quando Venanzio da Urbino l’aveva aggredita, facendo poi credere a Rodolfo Concesa di avere voluto solo proteggerla, il console aveva imposto alla figlia di restarsene chiusa nelle sue stanze, e soprattutto di non avere più frequentazioni con lui.
Rossano avrebbe voluto protestare, ma era stata la stessa Angelica, tramite una lettera che gli aveva fatto consegnare da una delle sue dame di compagnia, a supplicarlo di non entrare in conflitto con suo padre. Lei lo conosceva, sapeva che era un uomo magnanimo, disposto al perdono, ma non tollerava di essere sfidato o contraddetto, e se Rossano l’avesse affrontato di petto, avrebbe ottenuto solo di irritarlo e di spingerlo a irrigidirsi ancora di più nelle sue posizioni.
“È meglio se lasciamo passare un po’ di tempo e lo facciamo calmare” aveva scritto Angelica con la sua calligrafia elegante, e Rossano si era reso conto che aveva ragione. Soprattutto perché il conte aveva già fin troppe preoccupazioni, con l’assedio in corso.
Così Rossano aveva tenuto a freno l’impazienza e il suo desiderio spasmodico di vedere Angelica, di stringerla fra le braccia e di appoggiare le labbra su quelle dolci e morbide di lei, e si era adoperato per compiacere in tutti i modi il conte. Per fortuna, contrariamente a quanto si era aspettato, Venanzio da Urbino non sembrava più tanto nelle grazie del console, che durante le periodiche riunioni con i comandanti della guarnigione per fare il punto sull’assedio lo trattava con freddezza, trascurando del tutto il fatto che Venanzio rappresentasse papa Alessandro.
Questo atteggiamento del conte aveva dato una certa soddisfazione a Rossano, ma nel contempo aveva provocato in lui un ulteriore senso d’inquietudine, soprattutto quando si era reso conto che Venanzio da Urbino reagiva da par suo all’indifferenza del console: se ne stava in disparte a braccia conserte, torvo e sempre pronto a intervenire per mettere in discussione qualsiasi suggerimento di tattica militare o di semplice logistica avanzato da Rossano o da qualcuno degli altri comandanti.
L’isolamento di Venanzio aveva però provocato un’altra conseguenza assai apprezzata da Rossano: il delegato pontificio non ronzava più attorno ad Angelica.
Ma anziché approfittare della situazione per poter godere in tranquillità della compagnia della donna che amava, Rossano era costretto a starle lontano, e a poter interagire con lei solo di sfuggita, per lettera o escogitando rocamboleschi incontri segreti durante i quali avevano sempre il timore di essere scoperti.
Anche quel giorno Rossano aveva ricevuto da Verusca un biglietto scritto velocemente da Angelica, in cui lei gli spiegava che avrebbero potuto incontrarsi nella cappella di palazzo, dove si sarebbe recata per pregare. Rossano aveva ringraziato Verusca, che da quando aveva compreso che lui e Angelica si amavano si era rassegnata a fare da amica e da complice alla contessina, e li aiutava come poteva quando si trattava di coprirli durante i loro fugaci incontri d’amore.
Rossano non era per niente soddisfatto di quei sotterfugi e del modo in cui riusciva a frequentare Angelica, e ogni volta che poteva cercava di convincerla che forse era arrivato il momento di affrontare di nuovo suo padre e spiegargli quello che provavano l’uno per l’altra, in modo che lui potesse perdonarli per quello che era accaduto tanti mesi prima, dar loro la sua benedizione e permettere loro di vivere una relazione serena, come entrambi sognavano.
Ma Angelica lo guardava con quegli occhi verdi come smeraldi e lo pregava di avere pazienza, di attendere ancora. Prima di avventurarsi in una cosa del genere voleva essere sicura di avere ottenuto il pieno perdono del padre, e ancora non si sentiva tranquilla, da questo punto di vista.
Rossano, immancabilmente, cedeva di fronte alla profonda dolcezza di quello sguardo, e si rassegnava a darle ascolto e a rimandare ancora il momento in cui avrebbe affrontato Rodolfo Concesa.
Ma ormai erano trascorsi cinque mesi, e lui non ce la faceva più ad aspettare. Mentre raggiungeva la piccola cappella del palazzo consolare, dotata di un ingresso esterno presidiato da una guardia, Rossano si ripromise di persuadere una volta per tutte Angelica a dargli fiducia. Questa volta non si sarebbe fatto convincere dai suoi sguardi languidi e timorosi: voleva poter vivere con lei alla luce del sole, tenerla per mano davanti a tutti e, non appena possibile, chiederla in moglie al conte.
Fu con queste precise intenzioni che si introdusse nella cappella dopo un segno d’intesa con il soldato all’ingresso.
Attese qualche istante per abituarsi all’oscurità che regnava all’interno, schiarita solo da qualche candela davanti all’altare, poi si guardò attorno, alla ricerca di Angelica. Quando incontrò i suoi magnifici occhi verdi, si sentì balzare il cuore in gola per l’emozione, ma prima che potesse fare un solo passo in avanti, si accorse dalla sua espressione che c’era qualcosa che non andava.
«Comandante Rossano» fece una voce dall’oscurità, nel punto in cui una figura era prostrata su un inginocchiatoio. «Siete venuto anche voi a chiedere perdono per i vostri peccati?»
Rossano si irrigidì e si inchinò di fronte al conte Rodolfo Concesa, scrutando Angelica con la coda dell’occhio.
«O siete forse venuto qui per qualche altro motivo?» continuò il console alzandosi e avvicinandoglisi.
Rossano fece per dire qualcosa, ma intercettò l’espressione preoccupata di Angelica, che lo supplicava con lo sguardo di non fare pazzie, e ricacciò in gola il bel discorsetto che si era preparato.
«No, Eccellenza» rispose, «stavo solo facendo un controllo di routine. Non voglio che i miei uomini si rilassino troppo.»
Rodolfo Concesa lo fissò con sospetto, poi lanciò un’occhiata di disapprovazione ad Angelica, che si limitò ad abbassare lo sguardo, quindi tornò all’inginocchiatoio.
«Come vedete, comandante, qui è tutto sotto controllo» disse, con un tono tale da far capire a Rossano che era formalmente congedato. «Per fortuna ho deciso all’ultimo momento di unirmi alle preghiere di mia figlia. Non si sa mai quali incontri si possono fare anche nella cappella di palazzo.»
Stringendo i denti per la rabbia e la delusione, Rossano fece dietro front e uscì, rendendosi conto che Angelica aveva ragione quando sosteneva che suo padre non era ancora pronto a contemplare la possibilità di una loro unione.
Quando fu fuori, si chiese se lo sarebbe mai stato.
2
Venanzio da Urbino afferrò il grosso boccale di vino, lo guardò con disgusto, poi lo scagliò contro la parete dall’altra parte della stanza. Le due ragazze in camera con lui strillarono spaventate, coprendosi il seno con le mani. Erano nude, e sedevano sul giaciglio su cui Venanzio consumava le sue notti tormentate.
«Perché avete smesso di toccarvi?» ringhiò Venanzio imbufalito. Sedeva su una sedia davanti al desco sporco di chiazze di vino e di cibo, a torso nudo e con le calzebrache slacciate, il pene floscio che gli pendeva fra le gambe. «Non siete nemmeno capaci di farmelo rizzare» biascicò, afferrando un altro boccale e versandosi il vino nero e pastoso con cui amava ottenebrarsi la mente in quegli ultimi mesi. «Andatevene! Mi fate schifo!»
Le due ragazze balzarono in piedi di scatto, come se non avessero atteso altro, raccolsero i loro vestiti e fuggirono. Venanzio bevve un lungo sorso di vino, ruttò, fece una smorfia quando l’acidità dello stomaco gli salì in gola, poi andò a sdraiarsi sul giaciglio, senza preoccuparsi di riallacciarsi le brache.
Da diverso tempo ormai trascorreva le sue giornate in quella stanza di una locanda di cui non ricordava neppure il nome. Era abbastanza grande, non troppo lurida e continuamente rifornita di vino, e per Venanzio era un ambiente molto più confortevole del suo alloggio a palazzo, dove non avrebbe mai potuto permettersi di ubriacarsi tutti i giorni, orinare negli angoli e scagliare i boccali di vino o qualsiasi altro oggetto gli fosse capitato fra le mani contro le pareti.
Una volta ogni tre giorni il locandiere mandava sua moglie, una donna tozza e grassa dall’aria perennemente imbronciata, a pulire la stanza e a cambiare la paglia per terra, e lui la osservava con un sorrisetto sarcastico, pronto a insozzare immediatamente la camera non appena lei se ne fosse andata.
Una volta, la donna l’aveva trovato sdraiato completamente nudo sul pagliericcio, talmente ubriaco da non avere neppure la forza per rialzarsi e tentare di ricomporsi, ma stringendo le labbra sottili si era data da fare come sempre, ignorandolo, pulendo pavimento e pareti dalle chiazze di vino e vomito che lui disseminava ovunque.
Venanzio, osservandola, era scoppiato a ridere.
«È così che scopi con tuo marito?» le aveva chiesto, con la voce impastata. «In fretta e furia e con quella smorfia incazzata sul viso?»
La donna non aveva risposto. Si era limitata a muoversi ancora più velocemente e a rassettare con assai meno cura del solito, poi era uscita scuotendo la testa.
«Devi essere brava a succhiarlo» le aveva gridato dietro Venanzio con rabbia, scagliando contro la porta il boccale di vino che reggeva con mani tremanti. «Rapida e letale come un sicario.»
Venanzio sapeva che l’oste non avrebbe mai né potuto né ...