Maria Grazia entra nel mio studio, ha il viso contratto. Esordisce dicendo: “Non ce la faccio più, ho un dolore insopportabile al collo e alla spalla destra”. La devo aiutare a spogliarsi, perché ogni movimento del braccio destro le scatena una fitta acutissima alla spalla.
Come prima di ogni trattamento, la osservo in stazione eretta con i piedi uniti: di schiena, di fronte e nei due profili. La spalla destra è più alta di due centimetri, e ruotata in avanti; il braccio abbandonato lungo il fianco sembra morto. Maria Grazia si tiene la mano e il polso destri con la mano sinistra. L’aiuto a sdraiarsi e mi siedo sullo sgabello, dietro la sua testa. Lei è distesa sul lettino con il braccio sinistro aperto, mentre il destro è stretto vicino al corpo; si lamenta, le chiedo di cercare di accettare il dolore, di non irrigidirsi, di non combatterlo.
La conosco da molti anni e l’accompagno per una scoliosi importante per la quale dai dodici ai sedici anni era stata costretta a portare un corsetto. La scoliosi si era apparentemente stabilizzata, ma con l’avanzare dell’età, specie dopo la menopausa, ha ripreso a peggiorare, provocandole intensi dolori alla schiena. Curata da uno dei miei allievi che abita nella sua città, l’aggravamento della scoliosi si era fermato e i dolori alla schiena si erano dapprima attenuati per poi scomparire. Circa quattro mesi fa, dopo una caduta sul ghiaccio, è apparso questo dolore alla spalla. Inizio a trazionare la nuca, mentre le suggerisco di respirare con la bocca aperta, invitandola a tenere un ritmo tranquillo. Le mie mani cominciano a massaggiare, ad allungare e a detendere i muscoli intorno alle spalle, quelli delle braccia: progressivamente il respiro di Maria Grazia rallenta e il suo viso si distende. Conosco in modo approfondito i muscoli del corpo e la loro fisiologia: le mie mani si muovono seguendo l’orientamento delle fibre muscolari, accompagnandole verso il loro asse fisiologico e aiutandole a decontrarsi, finché le sento cedere, ammorbidirsi, come un guscio, una corazza che prima si rilascia e poi si scioglie. Il braccio si lascia aprire. Riequilibro, attraverso il massaggio, i muscoli di tutto il corpo: dopo le braccia, passo alla schiena, alle gambe, ai piedi, per poi concludere, come in ogni trattamento, massaggiando a lungo il muscolo del diaframma. Stendo una coperta su Maria Grazia e la lascio riposare per cinque minuti. Le raccomando di cercare di vivere l’istante, senza pensare, affidandosi alla capacità del corpo di memorizzare la posizione per lei più armoniosa e in equilibrio.
Quando si sente pronta, si alza lentamente, come ormai ben sa che è importante fare dopo le terapie. “Il dolore è quasi scomparso” mi dice sorridendo. Poi aggiunge: “Sono tanto stanca”. E mi racconta che tutti i giorni deve curare i nipotini, inoltre bada alla casa e al marito che ha avuto problemi di salute. “Sono in pensione, pensavo di potermi riposare, di avere del tempo per me. Faccio tutto volentieri, amo molto i miei nipotini; non riesco mai a dire di no, sono fatta così.” Le vengono le lacrime agli occhi.
Le consiglio di iniziare a ritagliarsi almeno dei piccoli spazi, dei momenti per sé, e di fare delle sedute di terapia a ritmo più ravvicinato, passando dalla sua abituale cadenza mensile di mantenimento a degli incontri settimanali. Le chiedo di rimettersi a piedi uniti per osservarla, perché è importante verificare se dopo il trattamento il corpo è più simmetrico e armonioso. Vedo che la spalla destra si è abbassata e rilassata, il braccio non è più stretto vicino al corpo e riesce ad allungarlo completamente senza doverlo sostenere. Le chiedo allora di portare la sua attenzione alle spalle e al collo, di sentire se avverte dei cambiamenti rispetto a prima. “Ho la sensazione di essermi tolta una montagna dalle spalle; sento il braccio più leggero” mi risponde.
Esce sollevata, e io sono felice di averla potuta aiutare ancora una volta, felice e riconoscente verso la vita anzitutto per avermi fatto incontrare Françoise Mézières, da cui ho ricevuto in dono questo metodo straordinario grazie al quale ho potuto aiutare, direttamente o indirettamente attraverso i miei allievi, migliaia di persone.
Ma facciamo qualche passo indietro. A ventiquattro anni mi laureai in medicina e chirurgia a Milano discutendo la tesi sugli “Aspetti psicologici nella rieducazione dell’anziano”, elaborata con la dottoressa Cecilia Morosini*, neuropsichiatra e fisiatra di grande fama. Per la prima volta, da quando mi ero iscritta a medicina, sentivo parlare dell’“uomo malato” e non di “patologie”.
Eravamo nel 1976, agli albori di quella branca della medicina che poi si è sempre più ampliata e che ora ha un nome lunghissimo, psiconeuroendocrinoimmunologia*, a indicare che studia la complessa rete di informazioni fra apparato digerente, sistema immunitario, sistema endocrino (che produce gli ormoni), sistema nervoso e psiche. Ho amato con passione sempre maggiore questi studi, che tuttora continuo ad approfondire. Già durante l’università avevo letto molti libri sull’interpretazione emozionale dei sintomi, a cominciare dagli autori “classici”, Wilhelm Reich e Alexander Lowen, che mi aprirono la mente e mi aiutarono a non fermarmi al sintomo organico ma a cercare di pormi sempre delle domande: come è nato questo sintomo, perché e cosa può significare, e soprattutto che cosa, attraverso esso, ci vuol dire l’Essere, la parte divina che c’è in ognuno di noi e che comunica il suo disagio, il suo dolore attraverso il corpo.
Vinsi un concorso come assistente in ortopedia e traumatologia presso un ospedale dell’hinterland milanese. Era un piccolo reparto, poco meno di trenta letti, ma collegato a un pronto soccorso che affrontava casi numerosi e impegnativi come i grandi ospedali cittadini.
Al mio arrivo ebbi un lungo colloquio con il dottor Emilio Zuccoli, e furono subito stima e rispetto reciproci, che negli anni costituirono le basi di una grande e tuttora preziosa amicizia. Intanto mi ero sposata con un compagno di studi.
Per alcuni anni ho lavorato intensamente in quell’ospedale. In tre medici ortopedici coprivamo tutte le ventiquattr’ore fra guardie e reperibilità notturna.
Zuccoli mi aveva affidato l’incarico di seguire il servizio di fisioterapia e riabilitazione, dove allora lavoravano una fisioterapista e una massofisioterapista. Nel frattempo frequentavo la Scuola di specialità in terapia fisica e riabilitazione motoria, con la prospettiva di dirigere il reparto di fisioterapia la cui costruzione era già programmata.
Giorno dopo giorno, accoglievo e accompagnavo persone che avevano subito traumi o che erano rimaste coinvolte in incidenti, ascoltavo i loro racconti, così iniziai a rendermi conto che l’“incidente” avveniva sempre in momenti particolari della loro vita, momenti di grande stress, di fatica, in cui avrebbero dovuto fermarsi, prendere una pausa di riflessione e di riposo.
Ogniqualvolta ci allontaniamo dalla strada che il nostro Essere riconosce come propria (indipendentemente dagli stereotipi, dai “dover essere” legati al nostro ambiente sociale, familiare e, ancor più, morale e religioso), il corpo ce lo comunica con il suo linguaggio fatto di sintomi, di malattie: ci invia dei messaggi. Da principio lievi allarmi, piccoli disturbi che in genere ignoriamo. Poi, se continuiamo a mostrarci sordi al richiamo di questo nostro grande maestro, egli è costretto ad alzare la voce, il tono, l’intensità, fino a manifestare clamorosamente il profondo dolore di esserci persi a noi stessi, di esserci divisi dentro di noi, attraverso malattie sempre più gravi, che ci obbligano a fermarci e che, se non fossimo a volte drammaticamente duri e testardi, ci spingerebbero a riflettere sulle nostre scelte di vita.
Oltre alla traumatologia, mi occupavo insieme ai colleghi anche dell’ortopedia, prendendo in carico i pazienti che venivano ricoverati per dolori articolari e muscolari (artrosi, periartriti, tendiniti, dolori cervicali e lombari, sciatiche, brachialgie).
Seguivo quotidianamente questi pazienti, ai quali somministravamo cocktail di antinfiammatori, spesso a base di cortisone, e vari tipi di terapie fisiche (radar, marconi, ultrasuoni ecc.). Con l’aiuto dei farmaci e della fisioterapia ma ancor più, penso, del riposo, nella maggior parte dei casi i sintomi si affievolivano; i pazienti tornavano a casa un po’ sollevati... per poi ripresentarsi quasi tutti, dopo qualche mese o anche poche settimane, con dolori più intensi di prima e soprattutto con una mobilità sempre minore.
Il mio “ego” medico si sentiva frustrato e impotente. Il peggioramento dell’artrosi era ritenuto “ineluttabile” e la ricaduta o la non risoluzione di una sciatica o di una brachialgia apriva le porte della chirurgia come unica via di uscita.
Furono anni in cui imparai moltissimo: ad affrontare situazioni drammatiche in pronto soccorso con l’aiuto e i suggerimenti insostituibili degli infermieri che da anni vi lavoravano, a leggere le radiografie guidata da un bravissimo collega radiologo, ma soprattutto a controllare l’emozione durante le lunghe sedute in sala operatoria. Acquistai una mentalità pratica, concreta. Prendere decisioni rapide e corrette era essenziale e spesso decisivo per la salute dei pazienti. Era molto stressante, ma altrettanto appassionante: mi sentivo portatrice attiva di salute.
In quello stesso periodo, Margreet Hanneman*, una cara amica che si occupava da tempo di educazione al movimento, dopo che avevo partecipato per anni a molti suoi gruppi, mi aveva presentato il coreografo ispano-francese José Montalvo*, con cui realizzai un mio grande desiderio: seguire i seminari di danza contemporanea espressiva organizzati dalla Scuola RIDC (Rencontres Internationales de Danse Contemporaine) di Parigi.
Nei suoi atelier ho vissuto la gioia profonda del movimento libero, ho scoperto il corpo come strumento vivo di comunicazione, ho capito l’importanza dell’ascolto del corpo dell’altro per comprenderne il linguaggio e adeguarsi al suo ritmo, ho verificato che, nel momento in cui il corpo dialoga con l’altro, anche soltanto un movimento banale può essere già danza. Le sedute di terapia dovrebbero essere questo: cercare di entrare in sintonia con il corpo dell’altro, rispettandone il ritmo. Siamo noi terapeuti a doverci adeguare al paziente, e non viceversa.
Mi sentivo però divisa in due: durante il giorno lavoravo in ospedale, ma una sera la settimana partecipavo ai gruppi di educazione alla percezione corporea di Margreet e appena possibile, nei fine settimana o durante le ferie, ai seminari di danza contemporanea.
In ospedale dovevo controllare e reprimere le emozioni, agivo sul corpo dei pazienti traumatizzati per ridurre fratture e lussazioni con manovre a volte violente e cruente, mentre nei gruppi e nei seminari imparavo ad ascoltare il mio corpo e quello degli altri, liberavo il movimento e cercavo di percepire le tensioni, le contratture muscolari per rilasciarle.
Margreet, con il suo lavoro, è stata non solo una scialuppa di salvataggio ma un ponte verso mondi e orizzonti per me sconosciuti.
Quando un nuovo primario piombò nel nostro ospedale, per tutti noi del reparto iniziò un incubo. In pochi mesi distrusse quel gioiello di unione e di efficienza che avevamo costruito giorno dopo giorno con impegno e dedizione con la sua incompetenza professionale e la sua totale insensibilità.
Dentro di me aumentavano il disgusto e la ribellione verso questo approccio medico disumano. “Ci sarà pure un modo per andare a monte del sintomo” mi dicevo, “per capire perché quel muscolo irrigidendosi fa male e contraendosi comprime dischi, articolazioni, strutture nervose.” Chiesi e ottenni l’aspettativa.
Fu proprio allora che Margreet mi regalò Guarire con l’antiginnastica, un libro autobiografico della fisioterapista francese Thérèse Bertherat*, che raccontava della sua esperienza con il metodo di rieducazione posturale Mézières. Fu la corda che la vita mi lanciò e che mi salvò mentre stavo naufragando.
La Bertherat presentava il metodo Mézières come “rivoluzionario” per i principi di biomeccanica su cui era basato e anche per i risultati quasi miracolosi che otteneva nella soluzione di problemi muscolari e articolari. Era una luce in quel periodo di buio. Le basi mi sembravano attendibili, sentivo che l’intuizione di Françoise Mézières era corretta: il corpo è un tutt’uno, in cui ogni parte è in relazione con le altre. Bisogna quindi guardarlo nel suo insieme.
Molto speranzosa, telefonai per iscrivermi al corso di formazione al metodo Mézières, che a quel tempo si teneva nel Sudovest della Francia, non lontano da Lourdes. Mi risposero perplessi che ero il primo medico a chiedere di partecipare: fino ad allora erano stati ammessi soltanto fisioterapisti provenienti da Paesi europei ed extraeuropei. Con mia grande gioia accettarono comunque la domanda per il primo anno del corso, che sarebbe iniziato cinque mesi dopo.
Nell’attesa decisi di dedicare finalmente un po’ di spazio e tempo a me stessa, cosa che fino ad allora mi ero sempre negata. Iniziai a partecipare a dei colloqui settimanali per un lavoro di analisi, che poi continuò negli anni, sulla mia modalità di rapportarmi agli altri, con le psicoterapeute Marta Egri De Bosio e Giovanna Bruno, che mi aiutarono a mettere in relazione le mie tensioni muscolari e la mia postura con i vissuti emotivi. Fu allora che percepii in me quella paura di non essere approvata, e quindi di venir abbandonata, che tanto aveva segnato la mia infanzia e che si traduceva nella contrattura dei muscoli delle spalle e della regione lombare. Capii che la scelta di aiutare gli altri, di accogliere il loro corpo, rispondeva in parte al mio desiderio di sentirmi aiutata, di essere presa in carico, di venire accolta, che trasferivo sull’altro. Prendendomi cura dell’altro cercavo di rispondere a un mio bisogno; purtroppo, però, questa modalità attenua solo il dolore ma non permette di soddisfare realmente l’esigenza originaria.
Ho iniziato così ad ascoltarmi, ad accogliere come adulta la bambina sofferente che c’è in me senza pretendere che lo facciano gli altri, di uscire dai tanti stereotipi comportamentali cui ho cercato di adeguarmi per essere accettata, ma che poi mi hanno frenato e soffocato. Un cammino mai terminato.
Cominciai a cercare tutto quello che si poteva trovare sul metodo Mézières: ben poco, per la verità. Venni a sapere che Françoise Mézières aveva insegnato per molti anni anatomia, fisiologia e ginnastica medica alla Scuola di ortopedia e massaggio di Parigi, e per quattro anni ginnastica medica all’ospedale della Salpêtrière. Questa conoscenza perfetta dell’apparato muscolare, unita a una grande capacità di osservazione, sono la base del suo metodo, elaborato a partire dalla cosiddetta observation princeps (osservazione principale). Come lei stessa racconta, nel 1947 arrivò una donna per chiederle aiuto: era già in cura da un famoso ortopedico con un corsetto che le procurava delle piaghe sui punti di appoggio del bacino. Mézières la fece distendere sulla schiena, poi esercitò una leggera pressione sulle spalle, molto anteposte, per portarle più indietro. Questa pressione, seppur delicata, provocò un’accentuazione della lordosi lombare, che Mézières cercò di correggere facendo flettere le ginocchia alla paziente. Questo movimento, però, causò come ulteriore conseguenza un’accentuazione irriducibile della lordosi cervicale. Mézières ripeté più volte la sequenza e verificò che le reazioni erano costanti. La conclusione le sembrò evidente: i muscoli dorsali di quella signora si comportavano come un solo grosso elastico troppo corto e la lordosi si spostava lungo la colonna “come un anello che scivola lungo un bastone”. Riscontrò lo stesso fenomeno in tutti gli altri pazienti che vide da allora in poi: i muscoli dorsali si comportavano sempre come un’unità funzionale troppo corta. Così nel 1949 pubblicò Révolution en gymnastique orthopédique, pensando di provocare una grande reazione, invece la scienza ufficiale la ignorò e continuò con le consuete modalità di diagnosi e cura delle problematiche posturali. Mézières, superato lo sconforto, non si scoraggiò e si dedicò alla diffusione e all’insegnamento della propria scoperta.
Partii così, piena di speranze ma anche di spirito critico, basato sulle presunte “certezze scientifiche” a cui mi aggrappavo, verso un’avventura che avrebbe drasticamente cambiato la mia vita.
Dopo un lungo viaggio arrivai in quel paesino nel Sudovest della Francia dove Mézières si era stabilita in una casetta bianca in mezzo al bosco, come nelle favole. Rimasi subito affascinata dalla natura: dolci colline boscose e verdeggianti a perdita d’occhio, illuminate dalle mimose in fiore. Alle due del pomeriggio del primo giorno di marzo del 1981 mi trovavo in una sala già affollata dagli altri partecipanti; entrò una piccola signora anziana, dal volto orientaleggiante, con un casco di capelli argentei, due occhi azzurri vivacissimi, lo sguardo penetrante, una figura carismatica. Calò un silenzio emozionato. Una voce roca, decisa, quasi maschile, uscì da quel corpo minuto. “Sono Françoise Mézières” esordì. “Se siete qui per imparare il mio metodo, seguitemi” e iniziò subito l’esposizione dei principi fondamentali.
Nei giorni seguenti compresi il significato di quelle parole. Da qualche anno si era creata una frattura fra lei e il suo assistente Philippe Souchard, un giovane fisioterapista con il quale Mézières si era associata per essere aiutata nell’insegnamento e nell’organizzazione dei corsi. Souchard, che ospitava l’Institut Mézières in un proprio podere, si era presentato come un discepolo devoto ma col tempo aveva prevaricato, aveva “stretto” sempre più Mézières, limitandone le ore di lezione. Lei, inizialmente, gli aveva affidato solo l’insegnamento delle basi anatomiche, invece lui a poco a poco lo aveva esteso anche ai principi del metodo e, non avendoli compresi nella loro rivoluzionaria originalità, li aveva deformati, “ammorbidendoli”; aveva ridotto una metodologia di osservazione del corpo a una tecnica fatta di ricettine banali, aveva distorto il metodo per renderlo più “facile” per i fisioterapisti abituati ad assimilare e integrare le varie tecniche rieducative. Fin dal primo giorno sentii la differenza qualitativa umana e professionale fra i due: il genio cr...