Lei mi interrompe dopo la terza frase: ieri ho visto un programma alla televisione e ho pensato a te.
Poso i fogli, non riesco a credere che mi interrompa in questo modo.
Mi sono svegliata alle tre di notte, dice, e non avevo niente da fare. Il suo viso gonfio si muove a fatica sul cuscino. Era un programma su certi pazzi in America che salvano gli uccelli andati a sbattere contro un grattacielo.
Resto in attesa. Il nesso non mi è chiaro.
Ho pensato, dice, che tu saresti potuta essere una di loro.
Io?
Le sue mani si stringono alla coperta. Strette rapide e nervose. Un po’ come una buona dose di Halidol. Ma lei non prende l’Halidol. Cerco di ignorare quei gesti, ricordo a me stessa che non mi riguardano, non sono nemmeno una critica al mio racconto. Sono solo strette rapide e nervose che fra qualche secondo mi faranno uscire di testa.
Ogni giorno, dice, fanno un giro intorno ai grattacieli alle quattro del mattino. Gli uccelli migratori volano di notte, spiega.
Allora adesso è tutto chiaro, dico lisciando la pila di fogli. Non capirò mai con che meccanismo recepisce le informazioni, e ancor più, le trasmette. Da due mesi mi preparo a questo incontro serale e lei mi interrompe così.
Raccolgono in sacchetti quello che resta degli uccelli, prosegue, e se c’è bisogno, se ne prendono cura. Ho visto che a uno davano perfino del cortisone… Il destino dell’uccello, analogo al suo, la diverte. Poi li lasciano liberi, gli fanno riprendere il volo… Ha un’aria sbalordita. Sembra gente normale, che lavora, uno è avvocato, un’altra, ho visto, è bibliotecaria, però sono anche, come dire?, persone con dei principi.
Hanno facce da giusti?, domando sorniona.
Non so, sì, ammette lei, vergognandosi. Forse neanche lei sa perché ha fatto quel collegamento con me.
Rido, quasi con disperazione. Questa donna è mia madre, la regina delle indovine, ma di me non sa nulla. Io, invece, mi sento molto più dalla parte degli uccelli, dico. No, no, lei scuote gravemente la testa, tu sei forte, forte.
Lei dice “forte”. Io capisco “crudele”. Lei si immerge ancor più in se stessa, forse laggiù si imbatterà nel frammento di un altro ricordo e lo riporterà emozionata in superficie. Restiamo in silenzio. Non la vedo da due anni e ci sono momenti in cui non riesco a collegarla alla donna che era. Le sue labbra si muovono, formulano pensieri, e io sto attenta a non leggerli. Lei gira la testa, mi osserva. Perché esistono le palpebre?, le gridavo un tempo. Ora però taccio. Sopporto pazientemente il meritato castigo. Una cosa è starsene a casa, a Londra, a scrivere questo racconto e una volta la settimana, dopo averle telefonato, sentirmi una merda per una mezza giornata perché lei neanche si immagina cosa le sto combinando. Un’altra è starsene seduta qui, a leggerglielo, come ha proposto lei, come ha preteso, come mi ha costretto a fare dall’alto della sua agonia.
Be’, sospira, ti ho interrotto, da ora in poi starò zitta. Riprendi a leggere, dall’inizio.
Un uomo piccolo la osserva. Ha occhi sporgenti, labbra spesse, mani grandi. Lei avverte la sua presenza ancora prima di vederlo. Un soffio sgradevole si insinua nell’alone che la circonda. Apre gli occhi e lo vede capovolto. È appoggiato allo stipite della porta, indossa dei pantaloncini corti, una camicia a fiori e ha le labbra vermiglie, come se avesse appena divorato una preda. Senza fretta lei allontana le gambe dalla parete, ne abbassa una, poi l’altra, si alza, si erge in tutta la sua altezza. L’uomo si lascia sfuggire un sommesso fischio di ammirazione, ma suona sprezzante.
Un tempo, dice, quand’ero piccolo, anch’io lo sapevo fare, stare ritto a testa in giù.
Nili non risponde. Forse quell’individuo ha semplicemente sbagliato stanza. Magari sta cercando la palestra.
Allora?, prosegue l’intruso con lo stesso tono affettato, tranquillo e minaccioso, questo sarebbe yoga?
Lei si mette ad arrotolare i materassini rimasti distesi dalla mattina. Tre ospiti avevano voluto tonificare il corpo ma non avevano fatto che ridere e chiacchierare e non erano riuscite a sollevare nemmeno una gamba.
Sì, risponde lei con un tono che significa “c’è forse qualche problema”? Questo è yoga.
Cos’è lo yoga? Me lo può ricordare? L’uomo estrae un pacchetto di sigarette, gli dà un paio di colpetti e ne sfila una.
Lo yoga è… Le dispiacerebbe non fumare qui?
I loro sguardi si incrociano, taglienti. Lui scuote lentamente la testa, come se rimproverasse un bambino. Le labbra gli si increspano in un bacio beffardo: per te, cara. Lei ha l’impressione che ogni parte del suo corpo venga scandagliata per una prima valutazione. Resta intrappolata, senza la possibilità di muoversi. La rabbia comincia a ribollirle dentro.
Mi dica, nello yoga si fanno massaggi?
La sala massaggi è in fondo al corridoio, a destra. Terapeutici, si intende, Nili non si trattiene dal precisare.
E gli altri? Non sono terapeutici?
Ah ah, pensa lei, se è questo che vuoi, ti sistemo io. In questo ho esperienza. Si drizza in tutta la sua altezza, lo supera di una spanna, incrocia le braccia sul petto, no signore, scandisce ogni lettera, massaggi come quelli che lei intende qui non si fanno. Sfodera un grande, smagliante sorriso. Trentadue briciole di disprezzo dritto in faccia.
Ma l’uomo non sembra impressionato, anzi, ha un’aria divertita. La lingua gli passeggia in bocca, sotto il labbro inferiore, creando piccoli rigonfiamenti che si muovono da ogni lato e ricordano a Nili dei cuccioli che si agitano nel grembo della madre.
Lui ridacchia: non le ho chiesto cosa non è lo yoga, le ho chiesto cos’è.
Lei respira profondamente. Deve aspettare. Non concedergli questo piacere. Rispondergli con calma. Vediamo un po’ come te la cavi; non solo quando te ne stai seduta in cima a una montagna, tra nuvole azzurrine, ma ora, qui, con questo tizio.
Allora lei non sa cos’è lo yoga? Di nuovo la lingua si muove nella bocca voluttuosa. E come mai qui fuori c’è scritto “yoga”?
Perché qui si insegna yoga, yoga. Per il genere di massaggio che cerca lei – Nili protende la testa, fronte contro fronte, l’ampio viso da gatta si fa teso – può chiamare qualcun altro. Chieda all’impiegato alla reception. Negli alberghi qui intorno ci sono un sacco di ragazze che sarebbero felici di accontentarla. Adesso, per favore, mi scusi. Riprende ad arrotolare i materassini con furia.
Ma il massaggio non è per me, l’uomo incassa l’offesa, sposta il peso del corpo da una gamba all’altra, è per mio figlio.
Suo figlio? Nili si rialza adagio, vuole... che io… faccia… Posa le mani robuste sui fianchi. Perché? Cosa le sembro? Piega la testa all’indietro, i capelli corti si rizzano, elettrici. A New York e a Calcutta quel gesto, abbinato al suo corpo grande, vigoroso, aveva fatto miracoli in situazioni spiacevoli, quando qualcuno l’aveva infastidita. Le sue figlie resterebbero sbalordite, pensa, a vederla così, in quell’atteggiamento volgare che lei assume con tanta facilità, come se facesse scattare un coltello a serramanico. Lei stessa è stupita di quanto le sia facile tornare a recitare quella parte.
Anche l’ometto è impressionato. Arretra di un passo ma fissa con insistenza il viso di Nili, come obbligandosi a concludere la spiegazione: il ragazzo compirà sedici anni a Pasqua. È orfano di madre. E pensavo...
Cosa? Cosa pensava? Che io avrei preso suo figlio e…? Cosa esattamente?! Nili diventa paonazza. Che incredibile sfacciataggine. Ma cosa ti puoi aspettare? Dopotutto hai acconsentito tu a questa umiliazione: dare lezioni di yoga due settimane all’anno a dipendenti di grandi magazzini e di aziende petrolchimiche, e di chissà cos’altro, durante le ferie estive organizzate dal dopolavoro.
Benché sia furibonda, Nili nota la ruga sotto la bocca dell’uomo, il suo sbattere frequentemente le ciglia, le dita che rigirano la catenina d’oro sul petto. D’un tratto, in modo quasi impercettibile, è come se le crollasse davanti agli occhi, diventa più brutto, con un’aria da furbo, un disgraziato. Dev’essere un attivista di qualche comitato operaio, pensa Nili, delle acciaierie di Haifa, o dei magazzini di Lod. Arrogante con i sottoposti e ruffiano con i superiori. A chi credi di far paura? Ti leggo come un libro aperto, con i tuoi muscoli rattrappiti, l’andatura copiata dai film e i piedi piatti, dolori al fondo schiena e le emorroidi.
È un tipo segaligno, anchilosato, e a lei viene ancora più voglia di vendicarsi, di dirgli con gelido disprezzo cos’è veramente. Ma forse – Nili ripenserà più tardi, avvilita – volevo solo sentirmi superiore a qualcuno, ricordarmi di quella sensazione. A quel punto, però, la sua mente si fissa su qualcosa che l’uomo ha detto. Cos’ha farfugliato a proposito della madre? Ma perché impelagarti con lui? E cosa dovrei fare, domanda, attenta a mantenere un tono gelido, con questo suo figlio?
È un bravo ragazzo, vedrà, risponde l’uomo con occhi da galletto, non le creerà problemi, glielo garantisco, alla minima difficoltà, si rivolga pure a me.
Ma quali problemi? Lei ride, suo malgrado, che tipo di problemi?
No, no, è bravo, davvero, ha solo un po’… cioè, qualche idea, qualche grillo per la testa. Le rughe sdegnose e scaltre sulla fronte dell’uomo si appianano e una limpidezza dolorosa gli balena inaspettatamente negli occhi. L’ho allevato io, fin da piccolo, perché sua madre, buon’anima, è morta quando lui aveva appena un mese e pensavo che…
Si interrompe, le lancia un’occhiata ebete, sprovveduta. Non c’è un’eco nel suo corpo, Nili lo sente. Incrocia le braccia e riflette. Lei ha tre figlie – di sedici anni e mezzo, undici e otto – nate da tre uomini diversi. L’ultimo se n’è andato cinque anni fa e lei sa cosa vuol dire crescere dei figli da sola, giorno dopo giorno. Questo tipo ora le sta davanti con le sue labbra carnose, le gambe storte, il cartello “non amato” appeso sulla schiena e sul petto, e chi è lei, diamine, per giudicarlo?
Allora, cosa aveva in mente di preciso?
L’uomo avverte il suo tono raddolcito. Un piccolo mammifero come lui deve essere vigile a ogni cambiamento. In fretta, troppo per i gusti di Nili, rilassa le spalle, incrocia le gambe… Pensavo, non si arrabbi di nuovo, mi ascolti fino in fondo, quando ho visto il cartello qui fuori, yoga, ho pensato che, siccome staremo qui una settimana, io e mio figlio, e lui è un bravo ragazzo, davvero, però non ha amici, capisce? Probabilmente sente di essere riuscito a fare breccia nel cuore di Nili e si affretta a spiegare con entusiasmo: è solo. Non lega con nessuno! Non parla, può stare una settimana senza parlare! Riacquista sicurezza, il prodotto che tenta di vendere ha una buona accoglienza: ma è un bambino, mi creda, quando lo vedrà, capirà… lei ha occhio. L’ho capito subito. Però – si protende un po’ in avanti, abbassa la voce – è solo, non ha una ragazza, un’amica, niente! Allora ho pensato, mi sono detto, forse lei...
Forza, spari, brontola Nili, esasperata da tutte quelle esitazioni, e forse anche stuzzicata dalla voglia di sentirselo dire in modo esplicito, come in un film di terz’ordine; dopotutto, quante volte nella vita capita di sentirselo dire così?
Ho pensato – l’uomo deglutisce, si fa piccolo – che lei potrebbe prenderlo con sé, dargli lezioni private, a pagamento, farlo diventare un uomo.
Indietreggia, si erge in tutta la sua minuscola altezza e sembra di nuovo un galletto con le penne arruffate, pericoloso proprio perché impaurito. Il petto gli si gonfia, respira in modo frenetico mentre un occhio all’improvviso gli si fa strabico.
Nili rimane con le braccia conserte, annuendo.
Lasci stare – l’uomo di colpo si affloscia – non ho detto niente. Dimentichi tutto. Si volta per andarsene, forse spaventato da se stesso, dalla sua proposta, da quello che le sue orecchie hanno sentito la bocca pronunciare. Ma Nili, non sa cosa le prende, e anche dopo, quando riferirà la cosa a Liora, le sarà difficile spiegare. D’un tratto ha l’impressione che sia giusto così, più che giusto, che sia una cosa bella perfino. È come se attraverso il padre – racconta a Liora – avessi intuito quello che mi aspettava con il figlio. E poi, alza le spalle in un sospiro profondo, proprio io devo lasciarmi spaventare da una cosa così? Io? Che ho provato di tutto, completa Liora in cuor suo, con persone di tutti i sessi e tutti i colori. Al telefono, Liora si passa velocemente la lingua sulle labbra come per oliarle prima di un commento importante. Ma Nili sa quando staccarsi da tutto, quando è il momento di chiudere gli occhi e stringersi nelle braccia. Ho pensato – dice ridendo – che il ragazzo sarebbe venuto, avrei parlato un po’ con lui, gli avrei spiegato le cose della vita, che c’è di male? Allora si era precipitata dietro l’uomo che era letteralmente fuggito e aveva nuovamente avuto la sensazione che quell’individuo si rendesse conto di ciò che diceva solo dopo averlo detto, perché quando si era girato lei gli aveva letto in viso la vergogna, aveva visto gli occhi rossi, colmi di lacrime, e aveva detto con dolcezza, profondamente pentita: me lo mandi subito, lo aspetto.
Guardi che pago, le aveva risposto quasi gridando.
Non se ne parla nemmeno. Nili aveva sorriso: offre la casa.
Ma è un lavoro extra, aveva insistito l’uomo, tirando su con il naso.
Non è niente. Mi mandi il ragazzo.
Per un istante l’uomo era rimasto perplesso, diffidente, non capiva la logica di quella donna. Ma desiderava ringraziarla in qualche modo. Aveva frugato nelle tasche dei pantaloni troppo attillati senza trovarci nulla, non sapeva nemmeno cosa stesse cercando, poi aveva cercato di stringerle la mano, le loro dita si erano goffamente scontrate. Senta, se un giorno dovesse avere bisogno di qualcosa su al nord, nelle cave...
Metto giù i fogli, mi lancio sul bicchiere d’acqua, lo afferro con entrambe le mani e bevo a grandi sorsi. Fino a questo momento non ho osato guardarla. Muoio dalla voglia di fumare una sigaretta. Che silenzio c’era mentre leggevo. Abissale. Ho tenuto per tutto il tempo i fogli tra me e lei, con entrambe le mani, ma solo verso le ultime righe il tremito si è calmato…
Finora, dice lei sottovoce, non avevo idea di come sarebbe stato.
E adesso?, domando, costringendomi a guardarla in faccia. Adesso arriveranno le critiche. Lei dirà che non le piace, è complicato. “Cervellotico” dirà. Lascia perdere. Ma cosa ne capisce lei? Cosa può veramente capire di tutto questo nel suo stato? Peraltro, quando ha più preso in mano un libro dai tempi del liceo?
Già da qualche mese, dice, me ne sto qui sdraiata e penso: come sarà? Si siederà accanto a me e leggerà? E a me cosa succederà? La sua voce è distante, austera. Non le è nemmeno venuto in mente di considerare cosa potrebbe succedere a me. È difficile liberarsi delle vecchie abitudini.
Eppure hai scritto questo racconto, dice lentamente.
Non riesco a capire la sua reazione. Non ho idea se quanto ho letto finora le ricordi quello che è successo laggiù, se ci sono andata vicina, se si erano parlati davvero così, lei e il padre del ragazzo, se le erano veramente passate quelle cose per la testa quando lui era arrivato con quella proposta. So così poco, quasi nulla. “Gli dia delle lezioni private, faccia di lui un uomo” – questo era successo veramente, me l’aveva raccontato lei come se fosse una barzelletta il giorno in cui era tornata a casa. Forse pensava che mi avrebbe divertito ascoltare un aneddoto del suo lavoro; ma a me aveva fatto venire il voltastomaco. E mi avevano colpito un paio di particolari, nonostante cercassi in ogni modo di non sapere. Poi, naturalmente, conosco la fine. Ma la parte centrale è un buco nero, un abisso di silenzio che lei ha mantenuto fino a oggi. Anche ora, in fondo, cosa mi sta dicendo? Niente. Respira a fatica. Non a causa mia. Spero che in questo momento non sia per causa mia. Ogni respiro le costa uno sforzo. Lei è grande, robusta. Riempie tutto il letto. Sistemo i fogli per la terza volta. Non so se continuare a leggere o aspettare che lei dica qualcosa, che mi dia un segnale, un’indicazione. Niente. Quello che più mi deprime è scoprire di non avere affatto immaginato, mentre scrivevo, a casa, a Londra, quello che avrei provato qui. La mia presunzione mi sbalordisce, e anche la mia geniale idiozia. Pensavo davvero di...