La fine del mondo storto
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La fine del mondo storto

  1. 168 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La fine del mondo storto

Informazioni su questo libro

Un giorno il mondo si sveglia e scopre che sono finiti il petrolio, il carbone e l'energia elettrica. È pieno inverno, soffia un vento ghiacciato e i denti aguzzi del freddo mordono alle caviglie. Gli uomini si guardano l'un l'altro, hanno occhi smarriti e il terrore stringe i loro cuori. E ora come faranno? La stagione gelida avanza e non ci sono termosifoni a scaldare, il cibo scarseggia, non c'è nemmeno più luce a illuminare le notti. Le città sono diventate un deserto silenzioso, senza traffico e senza gli schiamazzi e la musica dei locali.
Rapidamente gli uomini si accorgono che tutto il benessere conquistato, fatto di oggetti meravigliosi e tecnologia all'avanguardia, è perfettamente inutile. Circondati dal superfluo e privi del necessario, intuiscono che una salvezza esiste, ma si nasconde in un sapere antico, da tempo dimenticato. Capiscono che se vogliono arrivare alla fine di quell'inverno di fame e paura,"l'inverno della morte bianca e nera", devono guardare indietro, tornare alla sapienza dei nonni che ancora erano in grado di fare le cose con le mani e ascoltavano la natura per cogliere i suoi insegnamenti. Così, mentre un tempo duro e infame si abbatte sul mondo intero e i più deboli iniziano a cadere, quelli che resistono imparano ad accendere fuochi, cacciare gli animali costruendo trappole con i rami più teneri, riconoscere le erbe che nutrono e quelle che guariscono. Segnati dalla fatica e dalla paura, i superstiti si faranno più forti e insieme anche più saggi. La fine del mondo storto raddrizzerà gli animi, cancellerà la supponenza del ricco e punirà l'arroganza del povero, che si ritiene l'unico depositario di coraggio e resistenza. Resi uguali dalla difficoltà estrema, gli uomini si incammineranno verso la possibilità di un futuro più giusto e pacifico, che arriverà insieme alla tanto attesa primavera. Ma il destino del mondo è incerto, consegnato nelle mani incaute dell'uomo...
Facendo un passo indietro per trovare la voce più pura e poetica della natura imperiosa, e balzando in avanti con la forza di un'immaginazione visionaria e insieme intensamente realistica, Mauro Corona ancora una volta stupisce costruendo un romanzo imprevedibile. Un racconto che spaventa, insegna ed emoziona, ma soprattutto lascia senza fiato per la sua implacabile e accorata denuncia di un futuro che ci aspetta.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804603412

PRIMO QUADERNO

1

Brutto risveglio

Una mattina d’inverno, le disgrazie d’altronde capitano spesso d’inverno, il mondo si sveglia e scopre che non ci sono più petrolio, né gas né carbone né corrente elettrica. A dir la verità, un po’ di corrente esiste ancora. Laddove l’acqua fa girare le turbine c’è forza elettrica, ma è poca cosa. Il problema sono gasolio, benzina, gas, insomma tutto ciò che tiene in vita i motori, e di conseguenza anche la gente, visto che la gente dipende dai motori.
L’umanità, comunque, non scopre quella mattina di essere a secco, quella mattina si dà da fare per non morire, ma la disgrazia è arrivata un po’ alla volta.
Da tempo era possibile accorgersene stando dietro a certi segnali, per esempio andando a fare il pieno di benzina. Il pieno ora non si fa, e neanche il mezzo pieno. Si può fare solo il vuoto, le pompe sono a secco. Quelli che vogliono riempire il serbatoio corrono al paese vicino, ma neanche lì ce n’è. Allora vanno nelle città limitrofe, ma niente. Finita. Così tanti rimangono a piedi. Cercano di tornare a casa in taxi, però anche quelli sono a secco. In qualche modo rientrano, ma è dura! Nel giro di poco tempo sono tutti a piedi. Spaventati ma non vinti, si preparano al peggio.
Il peggio deve ancora venire. La gente lo intuisce e cerca ripari. Impaurita, fa mosse incaute, maldestre, sbagliate. La paura fa correre, correre fa sbagliare. Ma è difficile non correre con la morte alle costole e, sentendola appresso, si corre storti. E si sbaglia. Fame e freddo agitano, confondono. E la gente, rimasta a secco, dopo aver stretto il culo, cerca di salvarlo. Non si chiede perché sono finiti combustibili e carburanti. Fame e freddo non fanno domande. Le domande fioriscono a stomaco pieno, vicino alla stufa o in osteria.
Quell’inverno senza gas, gasolio e carbone, prima occorre scaldarsi, dopo ci si preoccupa di mangiare.
Nei paesi di montagna il problema è abbastanza risolvibile. Nelle città invece il discorso cambia. È inverno. L’inverno freddo e umido delle città, con strade e piazze piene di nebbie e solitudini. Solitudini di uno alla volta, che messe insieme diventano una sola, quella di tutti. In città si è sempre soli. Soli e arrabbiati, e ognuno è abituato a badare ai fatti propri, ma senza combustibili la gente è costretta ad andar d’accordo, a darsi una mano.
I primi giorni sono superati con tabarri e spavento. La paura cresce. Il mondo intero è atterrito. La gente di città corre a cercare stufe, fornelli, o qualsiasi oggetto che funzioni a legna. Non si usavano stufe a legna da anni, da un bel pezzo erano state soppiantate e buttate via. Roba da museo ormai, ma adesso servono. Almeno averle messe in cantina, sacramento!
Qualcuno il caminetto ce l’ha. Di quelli con il vetro davanti e le fiamme dentro. Fiamme artificiali sempre uguali che danzavano a batteria. Solo per bellezza, guai sporcare di fumo le pareti. Le mogli s’incazzavano.
Alla fine, la gente s’arrangia con bidoni, catini, conche di ghisa, di ferro, pignatte. Insomma, trova ogni tipo di recipienti per mettere dentro il fuoco. Però i guai non sono finiti. Le case sono grandi, troppo grandi per essere scaldate a stufa. Gli uomini sognano e costruiscono ville, castelli. Non hanno capito niente. La casa perfetta è quella dove, stando seduti e allungando le mani, si può raggiungere tutto ciò che serve. Se l’uomo non l’aveva ancora capito, adesso lo sa. Ci vuole sempre la disgrazia per aprire gli occhi alla gente.
Ora si riuniscono tutti in stanze, camere o tinelli. Il poco spazio può tenere il caldo prigioniero, fermarlo, che non scappi, e con un catino di fuoco si arriva a scaldare qualche metro quadro ma non di più. Gli uomini iniziano a fare attenzione a tutto. Scoprono che il caldo va verso l’alto e allora abbassano i soffitti. Li accorciano con quel che trovano: assi, teli, lenzuola, coperte, cartoni e altro. Così il caldo resta a livello uomo.
Presto però viene a mancare la legna, i camion non partono, i treni non si muovono, le navi neanche, le auto men che meno. Dopo una settimana, forse due, negozi, supermarket, magazzini hanno finito le riserve. Un tempo, vendevano mattonelle, carbone, pellet, cilindri di legno triturato. Roba per braciolate domenicali. Adesso gli scaffali sono vuoti. A dir la verità, qualcosa rimane nei magazzini, ma se la tengono i padroni. E ben stretta. Capita l’antifona, se la sono fatta addosso. Sostengono che le scorte sono finite. Allargano le braccia, fanno i disperati. Credono di essere furbi, ma non si rendono conto che stanno dicendo la verità. È solo questione di tempo e la cuccagna finirà anche per loro.
Nel frattempo in giro cresce il panico. Fa sempre più freddo. Che fare? Bisogna trovare legna subito. Messa alle strette la gente s’accorge che può fare a meno di una montagna di robe. Se ne accorge all’improvviso, come se si fosse svegliata da un sogno. Serrata tra le ganasce del freddo che morde le caviglie, la gente scopre una verità molto semplice: che le case sono sommerse da cataste di oggetti inutili che, al tempo dei carburanti, parevano indispensabili.
La gente ragiona e conviene che si possono eliminare quelle robe di legno che non servono a niente, solo a ingombrare. Allora cominciano a fare a pezzi ciò che considerano superfluo per loro e buono per il fuoco. Frantumano tutto sotto le scarpe. Le cose più toste le spaccano a manéra o con la sega. Ma non tutti ne possiedono una, molti non sanno nemmeno cosa sia. Però hanno i cric delle auto. Piazzati bene, quelli demoliscono anche una casa.
Dopo qualche giorno, le cianfrusaglie finiscono. La gente si guarda attorno, riflette. Poi scopre che può mangiare in piedi. Allora via sedie, panche, sgabelli. Tutto quel che accoglieva i culi, spesso in sovrappeso, delle persone viene bruciato nelle stufe. O nei contenitori adattati a stufe. Ma anche le sedie finiscono, panche e sgabelli pure. Allora la gente decide che può fare a meno dei tavoli.
«Fanculo! Mangiamo per terra» dicono, con l’ansia negli occhi.
E via a bruciare tavoli, tavolini, portatelefoni, portafiori e altri aggeggi, sempre di legno chiaramente.
Passa qualche giorno. I fuochi improvvisati mangiano tutto. Riducono in cenere tavoli e affini, molto velocemente. La gente a quel punto molla i freni.
«Fanculo» dicono ancora, «si può dormir per terra, i letti non servono.»
Così bruciano letti matrimoniali, singoli, a castello, cassapanche, mensole, madie, scansie, librerie (chi le ha). Tutto quel che contiene un po’ di legno, anche la minima fibra, diventa materia da riscaldamento. E come arde! La gente butta al rogo gli oggetti per scaldarsi. Senza alcun rimpianto. Di fronte alla paura di crepare ghiacciati, non esistono rimorsi né remore.
All’inizio in molti qualche dubbio lo avevano. Cercavano di scegliere, selezionare, salvare qualche ricordo.
«No! L’attaccapanni della bisnonna, quello no!»
«La scrivania del trisavolo notaio la teniamo.»
«Sacramento, questa è una libreria del Cinquecento, vale una fortuna, bisogna salvarla.»
Ma il freddo morde con ganasce di pietra. Non dà requie. Senza combustibili sembra eterno. Un giorno diventa un mese. E allora in mona i ricordi della bisnonna:
«Venga qui lei a ghiacciarsi il culo!»
E così pure la scrivania del notaio:
«In fondo era un crumiro, un rompicoglioni, lo si dice ancora in famiglia.»
«Che libreria? Salvarla a far che? E intanto crepare di freddo? Cinquecento o Seicento, via dalle palle, che diventi legna. Alla peggio, se ci salviamo, di librerie ne faranno ancora e così anche di libri, al fuoco pure quelli che tanto non ci salviamo.»
La gente scopre che la letteratura è roba da godere a stomaco pieno, termosifoni caldi e canapè. L’incubo della morte spiana i sentimenti, quelli più astratti sono i primi a sparire. La morte che viene lenta e non fulminea spazza via valori e certezze, per esempio cancella l’affetto dei ricordi, la memoria si trasforma in fastidio. Davanti al pericolo si ragiona cattivo. Senza più carburanti, la gente diventa pratica, fredda, feroce. Fredda come i giorni senza fuoco, feroce come i giorni senza cibo. La testimonianza dei vecchi, padri, nonni, bisnonni, dei loro oggetti tenuti come reliquie, infastidisce. Ora è necessario bruciare quei ricordi senza rispettare avi e bisavi che compaiono ad ammonire. Sono ingrugniti, fanno cenno di no con la mano.
«Che devo tener da conto, nonno? La tua sedia? Va’ in malora! Se non mi scaldo crepo!»
Il mondo s’arrabbia. La gente s’accorge che per secoli è stata costretta a onorare e conservare oggetti. Anche se, sotto sotto, non gliene fregava un cazzo, guai a mancare di rispetto al rasoio del bisavolo, alla sedia del nonno, alla panca della zia. E avanti di questo passo.
Adesso, con sul collo la falce della paura, il gelo, la fame e poche speranze di futuro, quelle reliquie diventano zero, cianfrusaglie. Ora c’è da portar fuori la pelle e basta. Il resto non conta. Altro che memorie e cassapanche! Tutto al fuoco per scaldare e cucinare!
Così, con una certa soddisfazione, come liberata da un peso antico, la gente scopre che nel momento del pericolo non c’è niente che abbia precedenza. Solo la vita. Senza il nipote vivo che valore può avere la cassapanca del nonno? È come una mela senza la bocca che la mangia, che ne sente il gusto. E questo vale per la natura intera: boschi, montagne, mari. Tutto quel che c’è di bello o brutto ha valore perché lo vede l’uomo. Se non c’è l’uomo che guarda, adopera, contempla, stima, apprezza, il mondo potrebbe benissimo scomparire.
Così la gente decide di salvarsi, a scapito delle cianfrusaglie, per poter vedere ancora il sorgere dei giorni. Ma non è facile sopravvivere senza gli oggetti che accompagnavano l’uomo da secoli. Peggio ancora, senza quelli che gli tenevano compagnia da trenta, quarant’anni, ma bisogna arrangiarsi.
I primi giorni di quell’inverno infame, quando all’improvviso mancano i combustibili, la gente prima si agita, poi si spaventa, grida e cigola. Alla fine fa silenzio. Comincia a morire.
2

Vita grama

I primi giorni senza le spinte dei combustibili sono tremendi. Nessuno sa ancora quel che avverrà. Altrimenti, di certo nessuno avrebbe definito quei primi giorni come i più duri della propria vita. Ma andiamo con ordine.
Nelle sere di cuccagna, quando c’erano i propulsori, la gente guardava la televisione. Adesso invece quella se ne sta spenta e silenziosa.
Ma non solo. Senza forza elettrica, niente luci, lampade, lampadine, fari, abat-jour. Muti anche gli aggeggi a motore. Sbattiuova, grattaformaggio, pelapatate, forni a microonde, aspirapolvere, scope elettriche, frullatori, tritacarne. Tutto fermo. Torce a batteria, candele e lumini finiscono presto. La gente cerca di comprarne più che può, ma le scorte si esauriscono rapidamente. Se la cava chi ha i pannelli solari, ma si trovano quasi tutti in montagna. In città niente.
Le prime notti sono terribili. Ancora però non s’intuisce il reale pericolo, lo si prende sottogamba, si pensa alla tele che manca. Tutti credono che l’incubo finirà presto. Invece non finisce presto.
Senza televisione la gente diventa matta, non dorme un secondo. L’umanità tecnologica precipita nell’agitazione. Senza più fonti d’energia l’umanità civilizzata sprofonda nell’angoscia. I popoli primitivi no, quelli non s’accorgono di nulla. Ma in Italia, senza la compagnia di Baudo, Vespa, Santoro, Fiorello e via discorrendo, nessuno dorme più. Come si fa a trascorrere le serate in loro assenza?
Qualcuno propone timidamente di leggere. Finché ci sono candele e torce si può, alla peggio c’è il fuoco. Si può leggere al bagliore delle fiamme. Allora si cerca qualcosa di scritto. Va bene quel che capita. Riviste, giornali, libri, sillabari, elenchi telefonici. Tutto ciò che contiene parole viene arraffato. Si scopre così che nella maggior parte delle case ci sono pochi libri. Si corre nelle biblioteche a far scorta. Si impilano per terra volumi su volumi, giacché scaffali, librerie, scansie, armadi son diventati fuoco. Questo all’inizio. Più tardi, anche i libri finiranno in cenere per superare l’inverno infame.
In quei primi giorni nelle famiglie c’è sempre uno solo che legge, gli altri ascoltano. Non si può leggere tutti, la luce è un bene raro e presto si esaurisce, le notti diventano inchiostro. La gente dorme vestita, intabarrata, con le scarpe ai piedi. Sta sui libri per lo più durante il giorno, alla pallida luce dell’inverno. Ogni tanto spunta un sole debole, come un amore che sta per finire.
Ben presto non si può leggere la sera. Finite candele e torce, il tempo non passa mai. Allora le famiglie riprendono un’usanza che nel tempo lontano era la regola. Cominciano a parlare, a contare storie. Ognuno la sua. Chi non ne sa le inventa. Si parla soprattutto di quel che sta succedendo e del modo per cavarsela.
Chi vive solo, parla da solo, a voce alta. Si racconta storie per farsi compagnia. Poi si stufa, sente che diventa matto e a quel punto va dalla famiglia di fronte, sul pianerottolo. Non ci parlava da vent’anni, con quelli. Neanche loro con lui. Appena li vede li abbraccia. Loro lo abbracciano, come un figlio tornato dalla guerra. Pericoli e tragedie spianano i contrasti, rendono la gente buona, perdonante. Paura e fame rendono migliori perché nel bisogno è meglio andar d’accordo. Non si sa mai.
Dopo poco comincia a scarseggiare il cibo, magazzini e depositi sono vuoti. Camion, treni, navi, aerei sono fermi. Tutto fermo, niente cibo.
Anche i mobili da fuoco iniziano a essere pochi; arriva il turno dei libri per scaldare la gente. Affinché brucino piano e durino, s’inumidisce la carta. Li bruciano misti al legno. Rapidamente vanno in cenere biblioteche e rivendite. La famosa Mondadori di Milano è un bosco ceduo, da tagliare. Certi intellettuali (non tutti), scrittori pieni di sé, tronfi e superbi, che tenevano odor di supponenza sotto il naso e vantavano librerie da quindicimila volumi, ora li arrostiscono uno alla volta. Senza darne a nessuno e senza alcun rimpianto. Li bruciano con feroce soddisfazione pur di salvarsi: gli si stringe il culo più di tutti, a quelli. Quelli avevano freddo anche quando faceva caldo.
Passano due settimane. Va sempre peggio. Cominciano a morire le persone. I primi decessi avvengono negli ospedali, dove i macchinari sono fermi. A morire per primi quindi sono i malati che hanno bisogno di fiato artificiale per vivere. E intanto i chirurghi non operano, il sangue va a male nelle celle frigorifere.
Sacramento che disastro! Tutto si complica. Molta gente diventa matta, dà in escandescenze, vaga per le città con occhi spiritati. Le strade sono buie, come miniere di carbone. Alcuni si ammazzano per disperazione. Non è facile rimanere di colpo senza comodità. E resistere. Luce, auto, riscaldamento, televisori, computer, frigoriferi, aggeggi, marchingegni, coperte elettriche, ascensori, cellulari eccetera. Quelle robe erano diventate come il mangiare. Senza cibo si crepa e gli uomini, senza il proprio sovrappiù, morivano.
«Ah, Signore benedetto, perché hai mandato questo castigo?»
«Ve lo siete costruito voi» dice il Signore, «non l’ho mandato io.»
Di colpo tutto ciò che era creduto essenziale si rivela inutile. E questa nuova e fatale consapevolezza, unita all’incapacità di fare qualcosa con le mani, dissemina il terrore tra la gente.
Nelle città, i tre quarti di uomini, donne, bambini non sanno accendere il fuoco. Nessuno glielo ha mai insegnato. Per fortuna c’è ancora qualche vecchio che ricorda come si fa e lo insegna ai primi che ha sottomano, e questi lo insegnano ad altri. Si impara così a far fuoco.
Nelle strade è tutto chiuso. Fabbriche, osterie, scuole, discoteche, uffici, negozi. Chiuso con porte aperte. Dentro non c’è rimasto niente.
Di giorno la gente si muove per i vicoli a piedi, in bicicletta. Vagano in cerca di roba da mangiare, per far luce, per scaldarsi. Sulle biciclette hanno montato ceste e pianali per spostare quel che trovano. Chi va a piedi porta in spalla zaini, sacchi, sporte. Se le bici si rompono, amen, si va a piedi. I piedi non si rompono né si consumano. Al massimo fanno male, si spellano, si gonfiano.
Nelle città, dopo qualche giorno, si comincia a scambiarsi il poco che si ha. Dapprima, tutti mangiavano il proprio cibo e tenevano stretto quel che avevano. Ma presto scoprono che le scorte finiscono e rischiano di non aver più niente. Allora decidono di aiutarsi. Per esempio, chi ha delle candele le baratta con chi ha i fiammiferi, chi ha co...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La fine del mondo storto
  4. PRIMO QUADERNO
  5. SECONDO QUADERNO
  6. Copyright