Roma, Italia, 1993
Francesca stava valutando in silenzio l’uomo di mezza età che le sedeva di fronte. Sembrava gentile, una specie di zio, piuttosto basso di statura e rotondo ma non sgradevole e naturalmente ricco. Otto von Kiepenhauer era un amico di Giancarlo, il marito di Maria Luisa, e Francesca sapeva di essere stata invitata a quella cena per pochi intimi appositamente per “dargli un’occhiata”, come le aveva detto senza troppi giri di parole Maria Luisa per farle capire che era ora di guardarsi un po’ attorno, non fosse che per forzare la mano a Max. Maria Luisa sapeva che non sarebbe stato facile – glielo aveva anche detto –, ma comunque gli anni passavano e Giancarlo aveva un elenco infinito di uomini che avrebbero dato qualsiasi cosa per stare seduti vicino a Francesca Rossi. Così Francesca aveva finito per cedere e in quel momento si trovava di fronte a un industriale tedesco riciclatosi in albergatore, e ascoltava distrattamente le sue chiacchiere, raffigurandosi col pensiero diversi scenari. I tedeschi non la facevano impazzire – in generale erano troppo rigidi e pignoli –, ma quando Otto le raccontò del suo recente investimento, un hotel di lusso da qualche parte nel cuore dell’Africa, lei drizzò le orecchie.
«Dove hai detto che si trova il tuo albergo?» chiese sporgendosi leggermente in avanti e notando che lui arrossiva guardandole la scollatura.
«Il mio lodge? Sì... è molto bello. Lussuosissimo. Il top, il meglio del meglio.» A von Kiepenhauer non sembrava vero di potersi dilungare sull’argomento.
«Immagino sia fantastico» commentò Francesca in tono mellifluo. «Ma dove si trova di preciso?»
«Ah, in Namibia» rispose l’uomo allegramente infilzando un asparago. Francesca corrugò la fronte. Dove? «Conosci il posto?» le chiese lui.
«Mai sentito nominare. Dov’è?»
«Ah. Be’, sai, non mi meraviglia.» Francesca aggrottò un sopracciglio. Che cosa stava cercando di insinuare? «No, no...» continuò lui ridacchiando. «Non intendevo offenderti. Volevo dire che è un paese assolutamente nuovo. Con un nome nuovo. Un nome sciocco, se vuoi il mio parere. No, lo conoscerai come Africa Sudoccidentale, hein?» concluse con enfasi. Francesca era sempre più perplessa. «Vicino al Sudafrica, a sud dell’Angola. Hai presente?»
Lei fece cenno di no. «Non sono mai stata in Africa» disse in tono di scusa. «Dev’essere bella. Raccontami qualcosa.» Von Kiepenhauer toccò il cielo con un dito, Francesca si sporse verso di lui per guardarlo negli occhi e cogliendo lo sguardo di approvazione di Maria Luisa sorrise fra sé.
Due ore dopo, quando non ne poteva più delle chiacchiere su giraffe, leoni, bufali e altri animali che lei non aveva mai sentito nominare, Francesca lasciò che Otto la aiutasse a infilarsi il cappotto.
«Però dovresti venire a vedere con i tuoi occhi» esclamò lui lottando con l’indumento. «Ho un meraviglioso lodge a Usakos, sulla strada che porta alla costa. Sono sicuro che ti piacerebbe da morire. Immagina solo pace, silenzio e gli animali...»
«Che gentile» gli disse Francesca con un dolcissimo sorriso. «Temo però di essere più il tipo da Hilton... Mia figlia Paola, invece, sarebbe felice di venire. Lei adora gli animali, il campeggio e tutto il resto. Non è vero?» chiese rivolta a Maria Luisa che, fissandoli a bocca aperta, si affrettò ad annuire.
«Sì, sì... Paola è molto... naturale, giusto?» aggiunse Maria Luisa mentre Francesca le lanciava un’occhiata allarmata. Ecco a che gioco stava giocando. Ma definire Paola in quel modo... A lei non sembrava proprio.
«Allora deve assolutamente venire. Ma, ripeto, il mio è un hotel di lusso. Non ha nulla a che vedere col campeggio, siamo al top.» Doveva essere una delle sue espressioni preferite.
Francesca fece un vago sorriso. «Non ho dubbi, ma senti... perché non fai un salto a cena da noi prima di tornare in Nam..., qual è il nome del paese? Ah, sì, Namibia. Quando riparti?» Era tutta sorrisi e moine.
Maria Luisa rimase sconvolta. Dopotutto, però, Francesca stava facendo la cosa giusta preoccupandosi della figlia. Dopo l’ultima bravata di Paola – che fortunatamente erano riusciti a non far pubblicare sui giornali – quella povera ragazza non poteva più fare niente e non si muoveva da casa. Baciò Francesca sulle guance bisbigliandole che si stava muovendo bene.
Francesca si voltò verso Otto. «Allora, ci vediamo domani sera? Verso le sette? Perfetto.» Uscì dall’enorme portone lasciandosi dietro una scia di costoso profumo e un Otto von Kiepenhauer leggermente sconcertato.
«Sei impazzita?»
Francesca si appoggiò all’indietro stupita dal tono aggressivo di Paola. «Impazzita io?» esclamò seccata. «Paola, non mi sembra che tu abbia molte altre scelte, sai. Ormai sono quasi due anni che sei tornata a Roma e che cos’hai combinato? Niente. Assolutamente niente! Se pensi che abbia intenzione di lasciarti ciondolare e buttare via il tempo per altri due...»
«Avanti, continua a rinfacciarmelo!» le urlò Paola con le lacrime agli occhi.
Francesca sospirò. Che cosa aveva fatto di male? La figlia era stata in terapia per quasi un anno e mezzo, fino a quando l’ultimo specialista che avevano consultato era stato costretto ad ammettere di non poter fare granché per aiutarla. Francesca era completamente impotente. “Mancanza della figura paterna, perdita d’identità, scarsa autostima...” Le frasi degli psicologi per lei non avevano alcun significato. Oltretutto, Paola sembrava essere sempre più infelice quando usciva dalle sedute bisettimanali presso i vari e costosi specialisti che erano stati consigliati a Francesca da diverse persone, tra le quali anche Maria Luisa e Manuela che sembravano trascorrere il loro tempo negli eleganti studi degli psicoterapeuti più rinomati della capitale. Francesca non si era mai rivolta a uno psicologo fino a quel momento.
«Cara, non ti sto rinfacciando niente. Sarebbe solo un’esperienza fantastica: un ambiente diverso, un clima splendido... e Otto è un uomo molto gradevole. Davvero. Vedrai. Però adesso, tesoro, per favore asciugati gli occhi e andiamo a comprare qualcosa di carino. Che ne dici, eh?»
Paola le rivolse uno sguardo imbronciato. «Okay» disse alla fine.
Francesca fece un sospiro di sollievo. Per fortuna le piaceva ancora andare per negozi. Chissà che cos’avrebbe fatto il giorno in cui anche questa passione si fosse esaurita. «Bene. Allora preparati. Mi faccio portare la macchina tra un’ora, okay? Andiamo nel nuovo negozio di Maria Bolga, quello all’angolo vicino a Yves Saint Laurent. Lunedì, quando sono passata, ho visto che sono arrivate delle cosine deliziose.» Francesca si alzò dal letto, sollevata. Era andata meno peggio di quanto avesse temuto.
Alla fine della serata Paola dovette riconoscere a denti stretti che Francesca aveva ragione. Per quanto Otto potesse essere suo padre – anche se non assomigliava per nulla a Max –, era comunque un uomo affascinante, estremamente premuroso e attento. Nei suoi modi un po’ vecchia maniera c’era qualcosa che le piaceva. Le scostava la sedia, le versava il vino, la serviva a tavola e si preoccupava che mangiasse abbastanza. Paola non riusciva nemmeno a ricordare quando era stata l’ultima volta che un uomo le aveva riservato simili attenzioni. Guardò la madre al di là del tavolo, immersa in una conversazione con l’unica amica tedesca che avesse a Roma, una tipa dal nome impronunciabile: Suzette von Riedesal zu Thürlinger-Grachvogt, Suzi per gli amici. Era una ex nobile, non bella ma appariscente, sposata con un italiano e fashion editor di “Vogue Italia”. La donna colse lo sguardo di Francesca che fissava ansiosamente Paola. Pareva chiedersi se la figlia si stesse divertendo e se Otto fosse una compagnia gradevole. Quando la vide appoggiarsi allo schienale, sollevata, capì che la ragazza era soddisfatta. Otto era molto simpatico e per quanto lei odiasse le piante e gli animali selvatici, le sue descrizioni del lussuoso lodge nel cuore dell’Africa con un’enorme piscina e la terrazza dove venivano serviti gli aperitivi sopra gli abbeveratoi degli animali erano piuttosto intriganti.
Prima del dessert, Paola aveva già accettato l’invito ad andare in Namibia. Otto le aveva offerto il suo aereo privato: in qualsiasi momento avesse deciso di partire, l’avrebbe portata da Ciampino a Windhoek, la capitale, prima di proseguire verso la pista di atterraggio che lui si era fatto costruire accanto al lodge. Il posto le sarebbe piaciuto al punto che non sarebbe più voluta tornare in Europa.
Paola stava per chiedergli qualche informazione sui negozi locali, quando Francesca la interruppe con aria sognante. Evidentemente stava ascoltando la conversazione. «Ah, Otto... Che cosa ti avevo detto? Le piacerà da im-paz-zi-re!» esclamò alzando il bicchiere subito imitata da Suzi, che non aveva perso nemmeno una battuta.
Paola arrossì leggermente. In fondo aveva solo accettato di andare a fargli visita, non di sposarlo... Quel pensiero la fece diventare ancora più paonazza. Oltretutto, si disse, portandosi subito un bicchiere d’acqua alle labbra, avrebbe dimostrato un paio di cosette a quella stronza di Amber. Non era l’unica della famiglia a fare qualcosa di avventuroso e partire per l’Africa. Al ricordo della sorella, Paola fece una smorfia di disprezzo. Era sempre la stessa storia. Erano rimasti tutti sconvolti dalla notizia che Amber e il migliore amico di Max, il caro Tendé Ndiaye, avevano avuto una relazione per quasi un anno senza che Max ne sapesse nulla. La cosa era stata fonte di stupore per chiunque, ma non per Paola. All’epoca però nessuno aveva voglia di stare ad ascoltare quello che lei aveva da raccontare. E quando Paola era quasi riuscita a riconquistare l’attenzione di Max dopo l’increscioso episodio con Kieran, Amber aveva rovinato tutto svelando il suo piccolo segreto. Era tipico di Amber.
Un mese più tardi, Paola si accomodò sul sedile posteriore della BMW che la stava aspettando e, dopo aver salutato la madre in lacrime, partì verso Ciampino. L’aereo privato di Otto era pronto per decollare alla volta dell’aeroporto internazionale di Windhoek dove, dopo un volo di nove ore, avrebbero fatto circa un’ora di scalo per sbrigare le formalità doganali prima di ripartire per la piccola pista di Outjo. Il lodge si trovava sulle colline fra Okahanja e Usakos, nei pressi di un piccolo villaggio chiamato Tsaobis. Nel tentativo di pronunciare quello strano nome la lingua di Paola si era inceppata. Era la prima volta in quasi due anni che lei si sentiva ansiosa di fare qualcosa. Il pensiero di lasciarsi tutto alle spalle l’aveva subito affascinata: il viso teso di Francesca, quello incredibilmente duro di Max, le solite scappatelle delle sue amiche... Anche se ormai erano quasi tutte sposate o fidanzate. C’era di che farla scappare a gambe levate verso Otto e le due settimane di vacanza al sole. A dire la verità, il pensiero di andare in Africa l’aveva un po’ preoccupata, ma Otto per tranquillizzarla le aveva spiegato che la Namibia non aveva niente a che vedere con l’Africa che mostravano nei telegiornali. Non c’erano serpenti né carestie. La Namibia, le aveva spiegato lui orgoglioso, era una specie di Europa. Un clima gradevole, bellissimi tramonti, cibo e vini eccellenti e i cieli più spaziosi che si potessero vedere. Era un paradiso, aveva aggiunto, il suo paradiso privato.
E se il jet personale di Otto non doveva essere niente di speciale, chissà come sarebbe stato tutto il resto. Paola, che in vita sua non aveva mai viaggiato in economy, rimase colpita. L’aereo era arredato con un gusto squisito: morbida moquette color crema, sedili avvolgenti e soffici e coperte in cashmere. Lo steward era altrettanto squisito e in quanto al pilota... Paola si accomodò al suo posto e accettò con un sorriso deliziato il bicchiere di champagne che le stavano offrendo. Questo sì che era viaggiare. Così, mentre il piccolo aereo si alzava in volo nel cielo di Roma, anche l’umore di Paola si risollevava. Erano le otto e mezzo del mattino e, se tutto fosse filato liscio, quella sera lei avrebbe cenato in Africa. L’idea la fece fremere di eccitazione. Pensò per un attimo a Kieran, ma si affrettò a ricacciare l’immagine del suo viso in fondo alla mente, come le avevano insegnato. Quindi si infilò le cuffiette e si mise comoda per ascoltare il nastro che le avevano preparato i suoi amici: una selezione di canzoni della sua emittente preferita, Radio Ketchup.
Con sua grande sorpresa, si rese conto di aver dormito per quasi tutto il viaggio. Quando il comandante si preparò ad atterrare all’aeroporto di Windhoek, c’era ancora molta luce e guardando dal finestrino riuscì a scorgere solo la sagoma scura delle colline e la sconfinata distesa blu del cielo. L’aereo toccò la pista con un sobbalzo e nel giro di qualche minuto Paola si ritrovò a scendere la scaletta in uno spiazzo deserto, meravigliandosi per il freddo nonostante il sole. Pur essendo giugno, nell’emisfero meridionale era pieno inverno. Inverno in Africa? Non l’avrebbe mai immaginato ma dovette ammettere, avvolgendosi la mantella intorno al corpo, che all’ombra si gelava. Un uomo di colore in divisa le si avvicinò per dirle in uno strano inglese che prima di risalire a bordo avrebbe dovuto passare la dogana. Era questione di pochi minuti, aggiunse scortandola in un piccolo edificio dell’aeroporto. Le indicazioni erano in tedesco, inglese e una terza lingua che Paola non conosceva ma che le ricordava vagamente l’olandese. Le formalità vennero sbrigate rapidamente e dopo pochi minuti, come le era stato promesso, venne riaccompagnata sulla pista verso il suo aereo. Non aveva nemmeno avuto il tempo di guardarsi attorno. La luce era accecante, anche alle cinque del pomeriggio.
L’aereo tornò a decollare, puntando verso nordovest stando alle informazioni che il pilota diede a Paola. Lei osservò la terra che si estendeva sotto di loro con i suoi colori decisi: il giallo, il ruggine, il verde delle colline. In lontananza, in quella landa piatta sbucò all’improvviso una catena di montagne. Lei non aveva mai visto nulla di più vasto e desolato. Sotto quelle alture non c’era nulla, né città, né paesi e nemmeno un villaggio. Solo ogni tanto si scorgeva qualche sagoma isolata, e quando Paola si sforzava di mettere a fuoco si rendeva conto che erano branchi di animali che proiettavano lunghe ombre. Erano antilopi, spiegò il pilota attraversando una distesa ricoperta d’erba. All’orizzonte il cielo stava diventando rosa e appariva ancora più luminoso e delicato.
La pista d’atterraggio assomigliava a una spessa lingua nera sull’erba giallastra e Paola ebbe l’impressione che durante la discesa si sollevasse per venire loro incontro. Il lodge era ancora in costruzione; si vedevano alcuni chalet quasi terminati e una strada in fase di realizzazione. In un angolo si scorgeva una macchia blu, forse una piscina e poi i colmi scuri dei tetti. Con un sussulto il velivolo toccò terra sobbalzando sul terreno leggermente irregolare. Quando alla fine frenò bruscamente la borsa Louis Vuitton di Paola volò in avanti. Poi il portellone si aprì e fu abbassata la scaletta. Il bel pilota la ringraziò per la sua presenza a bordo. Avrebbe dovuto essere il contrario, si disse Paola mentre si avviava nella luce del tramonto. Non riusciva ancora a credere di essere in Africa, né di aver trascorso fra le nuvole gran parte della giornata. In vita sua non si era mai sentita così carica ed eccitata dopo un viaggio di dieci ore.
Otto non era lì ad accoglierla. Un domestico in divisa si avvicinò seguito da una fila di uomini, pronti a scaricare il contenuto dell’aereo. Paola guardò sorpresa l’infinita varietà di merci che venivano portate fuori dalla stiva: casse di vino, centinaia di scatole di cartone, pezze e rotoli di stoffe. Alla fine comparvero le sue due valigie, sperdute in mezzo a tutta quella mercanzia.
Il pilota la vide osservare la scena e sorrise. «Herr Kiepenhauer di solito mi fa fare un paio di viaggi alla settimana» spiegò indicando i rifornimenti. «Visto che al lodge non c’è quasi niente, portiamo l’essenziale.»
«Che cosa c’è in quelle scatole?» chiese Paola in attesa che i domestici finissero di caricare l’automezzo.
«Oh, un po’ di tutto» rispose lui con una risata. «Frau Meisler, l’architetto d’interni, compila ogni giorno un nuovo ordine. La conoscerà fra un minuto» aggiunse in tono incolore.
Poi salirono sul furgone e si avviarono verso l’edificio pr...