
- 280 pagine
- Italian
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Me parlare bello un giorno
Informazioni su questo libro
David Sedaris è una figura di riferimento fondamentale per la cultura americana contemporanea. Le generazioni più (e meno) giovani si sentono perfettamente rappresentate nelle sue storie. La comicità soave, crudele, disincantata, intelligente e terribile di questo eterno ragazzo offre la più irresistibile chiave di lettura dell'assurdità del mondo di oggi. Leggere e ridere, ridere a crepapelle e tornare a leggere: il personalissimo humour caustico di Sedaris, venato da una sensibilità a tratti addirittura commovente, rende la lettura di questi racconti un'avventura davvero gratificante e - come saggiamente consigliano diversi recensori - assolutamente da non farsi a bocca piena...
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Informazioni
Print ISBN
9788804544548eBook ISBN
9788852015304Dodici momenti nella vita di un artista
Uno: già in tenera età, mia sorella Gretchen mostrava un notevole talento per il disegno e per la pittura. I suoi ritratti ad acquarello di funghi coperti di puntini e fanciulline imberrettate venivano appesi in soggiorno con orgoglio, e per incoraggiare le sue capacità le si offrivano lezioni private e soggiorni estivi in campeggi per giovani artisti. Nata con quello che mia madre definiva un “temperamento artistico”, Gretchen volava di fiore in fiore, ottenebrata da una nebbiolina di beatitudine. Col naso rivolto al cielo e lo sguardo sognante, inciampava nei ceppi d’albero, e si lanciava in mezzo alla strada incurante delle bici che sfrecciavano nella sua direzione. Quando poi le ingessavano braccia e gambe, lei personalizzava i gessi con margheritine e ricciolute nuvolette a pennarello. Sul piano prettamente fisico era stata ricucita più volte lei della prima bandiera americana, ma su quello mentale nulla sembrava sfiorarla. Potevi raccontarle qualsiasi cosa raccomandandole il riserbo più assoluto, tanto nel giro di cinque minuti non si sarebbe ricordata nient’altro che il modo in cui la luce giocava sul tuo viso mentre parlavi. Era come ospitare in casa uno studente straniero in soggiorno studio. Per lei nulla di ciò che dicevamo o facevamo aveva senso: sembrava vivere secondo le regole e i costumi di un paese esotico e lontano, i cui abitanti scavavano pozzi per estrarre dalla terra colori a olio e raccoglievano pastelli dai rami di alberi striminziti. Senza copiare da nessuno, mia sorella si era inventata una personalità bizzarra e tutta sua, che in me suscitava ancora più invidia delle sue capacità artistiche.
Quando il talento di Gretchen venne riconosciuto dai suoi insegnanti, i miei genitori si fecero avanti per reclamarne la paternità. Da bambina mia madre aveva dimostrato una certa inclinazione per il disegno e le sculture di fango, ed era ancora capace di intrattenerci disegnando a tempo di record un celebre picchio dei cartoni animati. Mio padre invece, a dimostrare che il suo era un talento latente, si comprò una confezione di colori acrilici e sistemò un cavalletto davanti al televisore dello scantinato, producendo repliche esatte dei caffè di Renoir e di monaci spagnoli immusoniti sotto i loro cappucci. Dipingeva strade newyorkesi e carrozze lanciate verso tramonti infuocati. Poi, una volta riempito lo scantinato con i suoi sforzi artistici, smise di dipingere misteriosamente come aveva cominciato. Io pensai che, se mio padre poteva fare l’artista, la cosa doveva essere alla portata di chiunque. Gli rubai tavolozza e pennelli, mi chiusi nella mia stanza e lì, all’età di quattordici anni, inaugurai il mio lungo e ignominioso periodo blu.
Due: Quando dipingere si rivelò troppo difficile, cominciai a tratteggiare personaggi dei fumetti su sottilissimi fogli di carta per macchina da scrivere, dicendomi che se solo fossi nato qualche anno prima sarei stato io a inventare Mr Natural1. Il punto era mantenere la concentrazione e porsi degli obiettivi realistici. A differenza di mio padre, che sfornava tele a raffica e senza il minimo criterio, io avevo idee concrete su come dovesse essere la vita di un artista. Seduto alla mia scrivania, con in testa un baschettino stretto quanto il cappuccio di una ghianda, mi immergevo nel mondo dei libri d’arte presi a prestito dalla biblioteca pubblica. Scorrendo tra i dipinti, mi soffermavo ad ammirare le foto degli artisti seduti nelle loro soffitte, vestiti di camici sbrindellati e con lo sguardo accigliato rivolto verso muscolosi modelli nudi. Passare le giornate in compagnia di uomini nudi: era la vita fatta per me. “Ora voltati leggermente verso sinistra, Jean-Claude. Desidero catturare la qualità giocosa delle tue natiche.”
Immaginavo curatori schizzinosissimi che venivano a bussare alla mia porta implorandomi di esporre per l’ennesima volta al Louvre o al Metropolitan. Dopo aver pasteggiato a vino bianco e cotolettine grosse come lingue, ci saremmo ritirati nel fumoir a discutere di soldi. Riuscivo a immaginare con grande chiarezza i frutti del mio duro lavoro: le lunghe sciarpe di satin e le copertine delle riviste erano per me estremamente reali. Ciò che proprio non riuscivo a concepire erano le opere in sé. L’unico difetto del mio piano era che non sembravo possedere il minimo talento. La cosa si manifestò in tutta la sua evidenza quando alle superiori mi iscrissi ai corsi di arte. Se mi chiedevano di raffigurare una fruttiera colma di grappoli d’uva, io producevo qualcosa di simile a un cumulo di sassi ammonticchiati su un pneumatico. Sulle pareti dell’aula erano esposti in bella vista i dipinti di mia sorella, e ogni volta che si discuteva di prospettiva o di tecniche cromatiche il professore evocava il suo nome. Lei partecipava a tutte le mostre della città e della contea, e non faceva mai il minimo accenno ai nastri azzurri che venivano appuntati con lo scotch alle sue opere. Si fosse data delle arie, perlomeno odiarla sarebbe stato più facile. E invece dovevo limitarmi a combattere quotidianamente tanto con le mie scarse capacità che con la mia incontrollabile gelosia. Non che desiderassi ucciderla. Speravo che qualcuno lo facesse al posto mio.
Tre: Una volta lontano da casa e dagli inevitabili paragoni con Gretchen, decisi di scegliere la specializzazione artistica in un college famoso per i corsi di zootecnia. Alla vigilia della mia prima lezione di disegno dal vivo non riuscii a dormire, temendo che la presenza di modelli nudi mi avrebbe fisicamente eccitato. Mi sarei ritrovato davanti questa persona, preferibilmente un gagliardo aspirante zootecnico, tutto intento a far sfoggio di muscoli e abbronzatura a beneficio di un pubblico di studenti che, fatta eccezione per il sottoscritto, in lui non avrebbero visto altro che un’impalcatura di pelle e ossa. Il professore avrebbe notato i miei occhi fuori dalle orbite? Avrebbe fatto commenti sul rivolo di saliva appeso come filo da pesca all’angolo della mia bocca? Avrei potuto tralasciare parti difficili come le mani e i piedi per concentrarmi su quelle che davvero mi interessavano? O sarei stato costretto a ritrarlo a figura intera?
Le mie paure, pur sincere, si rivelarono infondate. Sì, la persona che mi ritrovai davanti era effettivamente muscolosa e mascolina, ma era anche una donna. Nemmeno per un secondo corsi il rischio di fissarla con un eccesso di interesse, anche perché ero troppo occupato a copiare il disegno del mio vicino. Il professore cominciò a girare da un cavalletto all’altro, e io seguii i suoi spostamenti con panico crescente. Può darsi che non conoscesse mia sorella, ma di studenti talentuosi con cui fare paragoni ce n’erano comunque parecchi.
page_no="47" Frustrato dal disegno, passai alla sezione stampa, dove versai fiumi di inchiostro. Dopo aver tentato la strada della scultura, mi cimentai con la ceramica. Quando i risultati dei nostri sforzi venivano discussi in classe, la professoressa regolarmente sollevava il mio ultimo progetto, e io guardavo i muscoli delle sue braccia tendersi e contrarsi per il peso. Le mie tazze, dalle basi spesse e ineleganti, finivano sempre per pesare sui due chili. Erano di un marroncino fango e avevano bordi sconnessi e per nulla invitanti. Ne regalai un set a mia madre per Natale e lei fece del suo meglio per accogliere il dono con garbo: disse che come ciotole per il gatto sarebbero state perfette. Le mie tazze vennero deposte sul pavimento della cucina, e lì rimasero finché il gatto non vi si ruppe un dente e intraprese uno sciopero della fame.
Quattro: Cambiai college e ricominciai da capo l’umiliante trafila. Dopo essere passato dal corso di litografia a quello di terracotta, smisi definitivamente di frequentare le lezioni, preferendo concentrarmi su quella che il mio compagno di stanza definì “Bongologia applicata”. Un paio di occhiali da gufo di recente acquisizione trasformarono i miei occhi perennemente arrossati in due capocchie di spillo, e cominciai a frequentare un manipolo di oziosi cineasti che facevano grandi discorsi, ma che dilapidavano i finanziamenti per le loro opere in gommosi panetti di fumo. In loro compagnia mi sorbii sgranati film in bianco e nero, in cui corpulenti uomini in dolcevita arrancavano lungo spiagge sassose maledicendo i gabbiani perché capaci di volare. La cinepresa staccava quindi su un campo pieno di corvi malconci e infine su una donna lentigginosa che, seduta in un raggio di sole, si esaminava le nocche delle dita. Non potevo fare altro che tentare di rimanere sveglio fino alla fine del film, momento in cui mi sarei potuto dirigere in fila indiana fuori dal cinema, al seguito degli altri malinconici spettatori, peraltro tutti straordinariamente somiglianti ai pallidi e angustiati individui che fino a poc’anzi avevo visto sfarfallare sullo schermo. La vera arte affondava le radici nella disperazione, e la cosa più importante era fare in modo di rendere se stessi e gli altri il più possibile infelici. Non sarò stato capace di dipingere o scolpire, ma nessuno come me era bravo a farsi venire la luna storta. Purtroppo tra i corsi offerti dalla scuola quello di muso lungo non figurava, e così me ne andai anche da lì, più avvilito che mai.
Cinque: Proprio mentre me ne tornavo a Raleigh, mia sorella partiva per la Rhode Island School of Design. Dopo aver trascorso qualche mese nello scantinato dei miei, affittai un appartamento vicino all’università, dove ebbi modo di scoprire le metamfetamine in cristalli e l’arte concettuale. Due cose di per sé piuttosto pericolose, ma che se combinate possono distruggere intere civiltà. Nell’istante stesso in cui feci il mio primo, urticante tiro, capii che era la droga per me. Lo speed spazza via i dubbi. Sono abbastanza intelligente? Gli altri mi apprezzeranno? Mi dona davvero questa tuta di plastica? Domande per poveri e insicuri seguaci dell’hashish. Un cultore dello speed sa che tutto ciò che fa o dice è assolutamente brillante. Il grosso vantaggio è che, una volta eliminato il bisogno di cibo e quello di sonno, ti restano ventiquattro ore tonde tonde per spargere il tuo fascino e il tuo talento a piene mani.
«Ma santo Dio!» esclamava mio padre. «Sono le due del mattino! Che chiami a fare?»
Chiamavo perché tutti i miei amici avevano preso l’abitudine di staccare i telefoni dopo le dieci di sera. Era gente che avevo conosciuto al liceo, e fu una delusione scoprire quanto poco avessimo ormai in comune. Loro parlavano ancora di ritratti a pennino e inchiostro, e non capivano il mio desiderio di trascinare un pesante registratore di cassa attraverso la foresta. Non che l’avessi fatto davvero, però come idea mi sembrava buona. Loro invece vivevano nel passato, montavano i loro banchetti alla fiera dell’arte e credevano di aver raggiunto il successo quando qualcuno gli comprava la serigrafia di un’impronta di piede nella sabbia. Per certi versi era anche triste. Loro si facevano in quattro per produrre arte, mentre io, senza il minimo sforzo, l’arte la vivevo. I miei calzini appallottolati sul pavimento costituivano un’affermazione più rilevante di tutte le loro idiozie sentimentali con le cornicette intrecciate e le grandi firme svolazzanti in basso a sinistra. Ma non le leggevano le riviste? Gli artisti della nuova generazione non sapevano che farsene dell’idea di bellezza di mia sorella. Era gente che si guadagnava da vivere montando tende o sdraiandosi in posizione fetale davanti ai monumenti nazionali. Uno di loro si era fatto una reputazione per aver consentito a un amico di sparargli in una spalla. Era quello il mondo artistico che avevo sempre sognato, un luogo dove il talento innato era considerato un ingiusto vantaggio, e dove uno sguardo spietato meritava più lodi che non la capacità di disegnare le carni umane. Intorno a me ogni cosa era arte, dalle macchie nella vasca da bagno alla lama del rasoio e al pezzettino di cannuccia che usavo per tagliare e assumere il mio speed. Ogni volta rinascevo al mondo con le idee chiare, e un’entusiastica percezione del mio immenso talento.
«Aspetta che ti passo tua madre» diceva mio padre. «Stasera ha bevuto un po’, forse riesce a capire di che diavolo stai parlando.»
page_no="50" Sei: Mi rifornivo di droghe da un’agitatissima tipografa con gli occhi a palla e una permanente così vaporosa da rendere i capelli, radi e prematuramente canuti, straordinariamente simili a un soffione di campo verso la fine della stagione. Vendermi droga non era un problema, ma doversi sorbire quotidianamente i miei pensieri e le mie opinioni vieppiù maniacali era davvero troppo per una persona sola.
«Sto accarezzando l’idea di subappaltare parti del mio cervello» le dissi una volta. «Niente di chirurgico, sia chiaro. Vorrei semplicemente dividerlo in lotti e affittarlo. Così la gente potrebbe dire: “Ho una casa a Raleigh, un villino a Myrtle Beach e un piccolo ritiro nella testa di un visionario”.»
Il suo sguardo annoiato lasciava intendere quanto fosse dubbio il valore del mio patrimonio immobiliare mentale. Lo speed porta il cervello al punto di ebollizione, trasformando la bocca in un esplosivo tubo di scappamento. Parlavo fino a farmi sanguinare la lingua e scardinarmi la mascella, con la gola che si gonfiava per protesta.
Sperando di liberarsi di me, la pusher mi presentò cinque o sei teste d’uovo iperattive che in comune con me avevano la passione per le amfetamine e l’amore per la parola manifesto. Avevo finalmente trovato il mio gruppo. Alla prima riunione l’atmosfera era tesa, ma io ruppi il ghiaccio stendendo un paio di strisce di speed e facendo commenti sulla piacevole mancanza di arredamento del padrone di casa. Il suo soggiorno non conteneva altro che un gigantesco nido realizzato con capelli umani. A quanto pare, il tizio in questione due volte alla settimana faceva il giro di tutti i parrucchieri e barbieri della zona, raccogliendo i capelli spazzati da terra e componendoli ciocca a ciocca con lo zelo di uno scricciolo.
page_no="51" «Lavoro a questo nido da... uhm, direi più o meno sei mesi» disse lui. «Prego, accomodatevi.»
Altri membri del gruppo conservavano i propri fluidi corporei in barattolini di omogeneizzati, oppure scrivevano messaggi criptici su pacchetti di bistecche. Le loro opere d’arte erano note come “pezzi”, termine che abbracciai entusiasticamente. «Ottimo pezzo» dicevo. Nella mia brama di compiacere, mi capitò di elogiare battiscopa scheggiati e sacchi di biancheria sporca in attesa di essere portati in lavanderia. Ogni cosa, se osservata con sufficiente attenzione, poteva diventare un “pezzo”. Strafatti di speed, io e la mia combriccola vagavamo per la tangenziale ammirando i coni spartitraffico e i dossi artificiali giallo acceso. Il mondo dell’arte era la nostra ostrica concettuale, e noi ce la mangiavamo cruda.
Ispirato dai miei amici, io stesso realizzai un paio di “pezzi”. Il mio primo progetto consisteva in una serie di cassette di legno per ortaggi meticolosamente riempite con la mia spazzatura. Considerato che ormai non mangiavo più, al loro interno non figuravano resti di cibo decomposti, ma solo mozziconi di sigaretta, bustine di aspirine vuote, ciocche di capelli sfibrati e kleenex macchiati di sangue. Trattandosi di “pezzi”, mi premuravo di annotarne il contenuto usando un inchiostro a base di corpi di zecche e zanzare triturati personalmente.
Ore 2.17: quattro unghie dei piedi.
Ore 3.48: ciglio trovato accanto al lavandino. Falena.
Una volta completate le prime due cassette, le portai al museo civico per farle valutare in vista dell’imminente biennale d’arte. Quando ricevetti la lettera in cui mi si comunicava che la mia opera era stata accettata, come uno stupido telefonai a tutti i miei amici per spargere la notizia. Le loro proposte, dal progetto di dare fuoco allo scalone di ingresso del museo fino a quello di scolpire la testa del governatore in un blocco di feci umane, erano tutte state respinte. Fu la conferma ufficiale del loro status di outsider, e fece di me un nemico dell’avanguardia. Alla successiva riunione del gruppo qualcuno avanzò l’ipotesi che il museo avesse accettato il mio lavoro solo in quanto decorativo e facile da digerire. Anche loro sarebbero stati selezionati, se solo avessero accettato di compromettersi, ma per fortuna al mondo esisteva ancora gente che, a differenza di me, possedeva un’integrità.
Fu organizzata una mostra alternativa, e il sottoscritto finì per partecipare alla vernice in compagnia della propria madre e della pusher, la quale nel frattempo aveva perso così tanti capelli e così tanto peso da sembrare, con il suo colorito terreo, una cipollina infilzata su uno stuzzicadenti. Insieme, le due formavano una coppia notevole: si avventarono sul bar e cominciarono a condividere le loro chiassose opinioni con chiunque capitasse a portata d’orecchio. In un angolo c’era un gruppetto jazz che suonava, e i camerieri si aggiravano per la sala portando vassoi di gamberoni e funghi farciti. Osservai la gente raccogliersi intorno alle mie cassette: avrei voluto avvicinarmi per carpire i loro commenti, ma al tempo stesso sentivo il bisogno irrefrenabile di tenere d’occhio mia madre. A un certo punto mi voltai e la vidi, ubriaca fradicia, prendere sottobraccio il curatore della mostra e strillare: «Ho appena incrociato una signora in bagno. Le ho detto: “Cara, perché tirare lo sciacquone? Porta tutto quanto di là, che te lo mettono su un piedistallo!”.».
Sette: Raccontai ai miei amici che il ricevimento del museo mi aveva fatto schifo dall’inizio alla fine, il che era praticamente vero. La mostra rimase allestita per due mesi, e quando fu smontata portai le mie cassette in un campo abbandonato e le bruciai in segno di penitenza per il mio successo immeritato. Così facendo, avevo espiato il mio gesto scriteriato, e come ricompensa fui invitato a partecipare alla performance del costruttore di nidi. Il copione era fantastico.
«Quando qui dici di belare, a pagina diciassette, intendi un belato normale o proprio un “belato-belato”?» chiesi. «Io sarei più per il “belato-belato”, ma se è in quel momento che la Madre/Distruttrice deve strisciare nel tunnel di filo spinato non voglio spostare il fuoco dell’azione, capisci che intendo?»
Sì, lui capiva. Era quella la cosa spaventosa, che qualcuno riuscisse a capire. Mi resi conto che un “pezzo” in forma di performance era un po’ come uno spettacolo. Uno spettacolo senza storia, senza dialogo, persino senza personaggi riconoscibili come tali. Quel tipo di spettacolo. Ne fui incantato.
Trovammo uno spazio neutro e Dio!, come amai il modo in cui quelle parole mi uscirono di bocca. «Abbiamo individuato uno splendido spazio neutro» avrei raccontato ai miei amici a casa. «È un magazzino di tabacco in disuso, senza acqua corrente né elettricità. Ci saranno cinquanta gradi! Dovete assolutamente venire a vedere lo spettacolo. Ci sono quintali di pulci, sarà davvero profondo.»
I miei vennero alla prima e si sedettero a gambe incrociate su uno dei tappetini imbottiti disseminati come isole sul pavimento di cemento lercio. Quando più tardi chiesi a mia madre come le fosse sembrata la performance, lei massaggiandosi le ginocchia rispose: «Stai cercando di punirmi per qualcosa in particolare?».
Il giornale della sera pubblicò una recensione, intitolata GRUPPO DI RAGAZZI VOLENTEROSI RISISTEMA MAGAZZINO ABBANDONATO. La cosa non contribuì a incoraggiare il pubblico, che già alla seconda replica (delle sette in programma) si contava sulle dita di una mano. Ancora di più ci danneggiò il passaparola, ma noi ci consolammo scaricando la colpa su una popolazione a cui la Tv aveva fatto un tale lavaggio del cervello da renderla incapace di reggere una performance di appena due ore e mezza senza accusare noia e crampi alle gambe. Eravamo palesemente avanti rispetto ai nostri tempi, ma convinti che, con la giusta quantità di droghe, alla fine anche gli abitanti del North Carolina ci avrebbero raggiunti.
Otto: Il costruttore di nidi annunciò il suo progetto per una nuova performance, e il gruppo si disintegrò. «Perché deve sempre essere una tua opera?» gli chiedemmo. In quanto leader, il suo destino era quello di essere punito proprio per le qualità che inizialmente ci avevano attratto. Il carisma, la genuina passione, persino il nido: tutto cominciò a sembrarci sospetto. Quando ci offrì l’opportunità di crearci i ruoli autonomamente, la nostra rabbia esplose. Chi era lui per dispensare compiti e stabilire scadenze? Non eravamo in grado di pensare da soli, e non tolleravamo di doverlo ammettere. Il tutto sfociò in un match di urla nel quale demmo fondo al nostro repertorio di analogie, per poi ricominciare tutto quanto da capo. «Non siamo i tuoi burattini, e nemmeno i tuoi cagnolini ammaestrati da far saltare nel cerchio. Cos’è, ci consideri tuoi burattini? Ti sembriamo dei burattini? Noi non siamo i tuoi burattini, tantomeno i tuoi cagnolini addestrati, e non salteremo più nei tuoi cerchi, Mastro Burattinaio. Certo, un cane si può ammaestrare. A un burattino basta infilargli una mano nel didietro e gli fai fare quello che vuoi. Ma a questo gioco noi non ci stiamo più, Herr Burattinaio. Ne abbiamo abbastanza dei tuoi trucchetti. Trovati qualcun altro.»
page_no="55" Speravo che il gruppo sarebbe rimasto unito per sempre, e invece nel giro di dieci minuti fu tutto finito. Ciascuno giurò di dedicarsi soltanto alle proprie opere. Passai le settimane successive ripensando incessantemente alla discussione, visualizzando un minuscolo cane che inseguiva un burattino sul pavimento d...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Forza Carolina
- Sogni giganti, capacità nane
- Ingegneria genetica
- Dodici momenti nella vita di un artista
- Il Gallo non lo ammazza nessuno
- I ragazzi asiatici
- La curva dell’apprendimento
- Il colosso
- Il grande salto in avanti
- Specialità del giorno
- La città degli angeli
- Brilla come un diamante
- Fuoriditesta.com
- Ci vediamo ieri
- Me parlare bello un giorno
- Gesù si fa la barba
- Il mangianastri
- Fammelo doppio
- Ricordando la mia infanzia nel continente africano
- 21 verticale
- La città delle luci al buio
- Giuro fedeltà al sacchettino
- Borseggiateur
- Per poco non vedo morire una donna
- Genio
- Mezzanotte e dintorni
- Mangio quello che ha indosso lui
- Indice