I fratelli Karamàzov (Mondadori)
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I fratelli Karamàzov (Mondadori)

Con uno scritto di Marcel Proust

  1. 1,168 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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I fratelli Karamàzov (Mondadori)

Con uno scritto di Marcel Proust

Informazioni su questo libro

"Il problema principale che sarà trattato in tutte le parti di questo libro è lo stesso di cui ho sofferto consciamente o inconsciamente tutta la vita: l'esistenza di Dio." Così Dostoevskij presentava il romanzo I fratelli Karamàzov, forse la sua opera più complessa, profonda e compiuta, pubblicata a puntate dal gennaio 1879 al novembre 1880. La vicenda, tra le più famose della letteratura moderna, ruota attorno all'omicidio dell'odioso Pávlovic, il padre dei fratelli Karamàzov.
L'impianto narrativo, pur serrato, rimane essenzialmente un espediente per indagare nei più reconditi recessi della psiche umana. Al centro dell'opera c'è sempre la riflessione sull'esistenza umana e sui suoi interrogativi più angoscianti, sull'amore e sulla libertà.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804527237
eBook ISBN
9788852016493

PARTE QUARTA

Libro decimo

I ragazzi

I
Kòlja Krasótkin
È l’inizio di novembre. Abbiamo almeno undici gradi sottozero e ghiaccio per le strade. Durante la notte è caduta sulla terra gelata un po’ di neve asciutta e il vento “secco e pungente”1 la solleva e la sparpaglia per le strade tristi della nostra cittadina, e specialmente sulla piazza del mercato. Il mattino è fosco, però il nevischio è cessato. Non lontano dalla piazza, nelle vicinanze del negozio dei Plòtnikov, c’è la non grande casetta, molto pulita dentro e fuori, della vedova dell’impiegato Krasótkin. Il segretario provinciale Krasótkin è morto già da tempo: sono quasi quattordici anni ormai. La sua vedova, una signora di trent’anni e ancora assai graziosa, vive “del proprio capitale” nella sua linda casetta. Vive onestamente e modestamente, ha un carattere dolce ma abbastanza allegro. È rimasta vedova a diciotto anni dopo aver vissuto appena un anno col marito a cui aveva dato un figlio. Da allora, dalla morte di lui, ella ha dedicato tutta se stessa all’educazione di questo suo tesoretto, Kòlja e, pur amandolo alla follia, ha però avuto più sofferenze che gioie, quasi ogni giorno trepidando e morendo dalla paura che lui potesse ammalarsi, prendere il raffreddore, fare delle birichinate, salire in piedi sulla sedia e cadere eccetera eccetera. Quando Kòlja cominciò ad andare a scuola e poi al nostro ginnasio, la madre si mise a studiare insieme a lui tutte le materie per aiutarlo a ripetere le lezioni, si precipitò a conoscere gli insegnanti e le loro mogli, “lisciò” persino i compagni di Kòlja e cercò di accattivarseli perché non toccassero Kòlja, non ridessero di lui, non lo picchiassero. Arrivò a un punto tale che, per colpa sua, i ragazzini cominciarono davvero a prenderlo in giro e a farsene beffe, dicendo che era un cocco di mamma. Ma il ragazzo seppe difendersi. Era un monello coraggioso, “terribilmente forte” secondo la voce che si diffuse a suo riguardo e che trovò presto molte conferme nella classe; era sveglio, di carattere ostinato, di spirito audace e intraprendente. Era bravo a scuola e girava addirittura voce che in aritmetica e in storia universale facesse confondere lo stesso professor Dardanèlov. Ma sebbene il ragazzo guardasse tutti dall’alto, col nasino all’insù, era tuttavia un buon compagno e non si insuperbiva. Accettava il rispetto dei compagni come dovuto, ma si comportava amichevolmente. Soprattutto, aveva il senso della misura, all’occorrenza sapeva contenersi e nei rapporti con l’autorità non oltrepassava mai quell’ultima e segreta soglia oltre la quale la trasgressione non è tollerata, giacché si avvicina al disordine, alla rivolta, all’illegalità. Ma tuttavia era sempre pronto, prontissimo a far chiasso alla prima occasione, a farlo come l’ultimo monellaccio, e non tanto a far birichinate, quanto a escogitare qualcosa, a far stramberie o qualche extrapféffer2 e a pavoneggiarsi. Soprattutto aveva molto amor proprio. Aveva saputo mettere persino la propria madre in soggezione e si comportava con lei in modo quasi dispotico. Ella si era sottomessa, oh! da tempo ormai si era sottomessa, e c’era un solo pensiero che ella non poteva a nessun costo accettare, cioè che il ragazzo “le volesse poco bene”. Le sembrava continuamente che Kòlja fosse “insensibile” nei suoi confronti e capitava che lei, versando lacrime isteriche, lo rimproverasse di freddezza. Al ragazzo non piacevano queste cose e quanto più pretendevano da lui effusioni affettuose, tanto più sembrava diventare scontroso. Tuttavia, ciò non gli accadeva di proposito ma involontariamente: tale era il suo carattere. E la madre si sbagliava: egli voleva molto bene alla sua mamma, solo che non amava “le smancerie da vitellino”, come egli si esprimeva nel suo linguaggio da scolaro. Il padre aveva lasciato una libreria nella quale si conservavano alcuni libri; Kòlja amava leggere e per conto proprio ne aveva già letti alcuni. La madre non si turbava per questo e soltanto si stupiva talvolta che il ragazzo, invece di andare a giocare, restasse delle ore intere vicino allo scaffale, occupato a leggere qualche libretto. In tal modo Kòlja aveva letto alcune cose che non gli si sarebbero dovute far leggere alla sua età. D’altro canto negli ultimi tempi, sebbene il ragazzo non avesse oltrepassato quel limite noto nelle sue monellerie, aveva tuttavia cominciato a farne alcune che avevano spaventato sul serio la madre: non cose immorali a dire il vero, e tuttavia temerarie e da scavezzacollo. Proprio quell’estate, nel mese di luglio, durante le vacanze, accadde che la mamma e il figlioletto si recarono in visita per una settimana in un altro distretto, a settanta verste da qui, ospiti di una lontana parente il cui marito era impiegato alla stazione ferroviaria (quella stessa stazione, la più vicina alla nostra città, dalla quale un mese prima Ivàn Fëdorovič Karamàzov era partito per Mosca). Là Kòlja cominciò con l’esaminare la ferrovia nei dettagli, studiò gli impianti, comprendendo che con le sue nuove conoscenze avrebbe potuto brillare, una volta tornato a casa, tra gli scolari del suo ginnasio. Ma proprio in quel periodo si trovavano là anche degli altri ragazzi con i quali egli strinse amicizia; alcuni di loro abitavano alla stazione, altri nelle vicinanze: erano sei o sette ragazzi dai dodici ai quindici anni, e si dava il caso che due di questi venissero dalla nostra cittadina. I ragazzi giocavano insieme, facevano birichinate ed ecco che il quarto o il quinto giorno da che erano ospiti alla stazione ci fu in quella sciocca banda una scommessa assurda con due rubli di posta: Kòlja, che era quasi il più giovane di tutti e perciò un po’ disprezzato dai più grandi, per amor proprio o per sfacciata temerarietà scommise che di notte, quando arrivava il treno delle undici, si sarebbe steso tra i binari e così sarebbe rimasto disteso immobile finché il treno non gli fosse passato sopra a tutto vapore. A dire il vero era stato fatto uno studio preliminare, dal quale era risultato che ci si poteva davvero distendere e appiattire tra i binari così che il treno passando non sfiorasse colui che stava disteso; e tuttavia, che momento terribile fu quello! Kòlja sosteneva con sicurezza che ce l’avrebbe fatta. Dapprima lo presero in giro, lo chiamarono bugiardo, fanfarone, ma con ciò non fecero che stuzzicarlo vieppiù. In particolare, quei quindicenni si davano troppe arie davanti a lui e all’inizio non lo volevano considerare neppure un compagno, in quanto “piccolo”, cosa che era per lui insopportabilmente offensiva. E così fu deciso di andare di sera a una versta di distanza dalla stazione così che il treno, che di là partiva, avesse fatto in tempo a prendere velocità. I monelli si riunirono. Era una notte senza luna, non solo buia ma quasi nera. All’ora stabilita Kòlja si coricò tra i binari. Gli altri cinque che avevano scommesso aspettarono giù nella massicciata accanto alla strada, fra i cespugli, da principio con una stretta al cuore e poi terrorizzati e pentiti. Finalmente in lontananza cominciò a udirsi il rombo del treno partito dalla stazione. Cominciarono a scintillare nell’oscurità i due fanali rossi, cominciò a tuonare il mostro che si avvicinava. «Scappa! Scappa via dai binari!» gridarono a Kòlja dai cespugli i monelli morti di paura, ma ormai era tardi: il treno era arrivato e volato oltre. I monelli si precipitarono da Kòlja: egli giaceva immobile. Cominciarono a toccarlo, a sollevarlo. Tutt’a un tratto egli si alzò e in silenzio scese per la massicciata. Scendendo, disse che era rimasto di proposito steso come svenuto, per spaventarli, ma la verità era che egli aveva davvero perso i sensi, come confessò egli stesso più tardi alla madre. In tal modo la sua fama di “temerario” si consolidò per sempre. Rincasò alla stazione, pallido come un cencio. Il giorno successivo ebbe una leggera febbre nervosa ma era d’umore terribilmente allegro, felice e soddisfatto. La notizia si diffuse, sebbene non subito, nella nostra cittadina, penetrò nel ginnasio e giunse fino alla presidenza. Allora la mamma di Kòlja si precipitò a implorare i superiori per il suo ragazzo e andò a finire che lo difese e intercesse per lui lo stimato e influente professor Dardanèlov e lasciarono perdere la cosa come se non fosse accaduta affatto. Questo Dardanèlov, scapolo e ancor giovane, era ormai da molti anni appassionatamente innamorato della signora Krasótkina e già una volta, un anno prima, s’era arrischiato, in modo assai rispettoso e col cuore tremante, a offrirle la propria mano; ma ella aveva rifiutato recisamente, considerando il proprio consenso come un tradimento a Kòlja, sebbene Dardanèlov da alcuni segreti indizi avrebbe forse avuto qualche diritto di sognare che egli non era del tutto indifferente all’affascinante, ma troppo virtuosa e tenera vedovella. La pazza monelleria di Kòlja a quanto pare ruppe il ghiaccio e a Dardanèlov, per quella sua intercessione, fu dato un accenno – vago, in verità – di speranza; ma Dardanèlov stesso era un campione di purezza e delicatezza e perciò anche quel solo accenno fu, per il momento, sufficiente alla sua completa felicità. Voleva bene al ragazzo, anche se avrebbe considerato umiliante cercare di ingraziarselo, e perciò in classe si comportava con lui in modo severo ed esigente. Tuttavia, Kòlja stesso lo teneva a una rispettosa distanza: preparava le lezioni benissimo, era il secondo della classe, si rivolgeva a Dardanèlov freddamente e tutta la classe era fermamente convinta che in storia universale Kòlja era così bravo da far “confondere” Dardanèlov stesso. E davvero Kòlja una volta gli fece la domanda: «Chi fondò Troia?» al che Dardanèlov gli rispose soltanto in generale parlando dei popoli, dei loro movimenti e migrazioni, della notte dei tempi, di leggende, ma non poté rispondere chi, precisamente, avesse fondato Troia, cioè quali persone di preciso, e trovò la domanda addirittura oziosa e inconsistente. Ma i ragazzi restarono convinti che Dardanèlov non sapesse chi aveva fondato Troia. Kòlja aveva letto a proposito dei fondatori di Troia nel libro di Smarágdov,3 conservato nello scaffale dei libri lasciati dal padre. Andò a finire che tutti i ragazzi cominciarono a interessarsi a chi di preciso avesse fondato Troia, ma Krasótkin non rivelò il proprio segreto e la sua fama di erudito restò salda.
Dopo il fatto della ferrovia ci fu un certo cambiamento nei rapporti tra Kòlja e sua madre. Quando Anna Fëdorovna (la vedova di Krasótkin) seppe dell’impresa del figlio, per poco non impazzì dall’orrore. Ebbe tali terribili accessi isterici (che, con qualche intervallo, si protrassero per alcuni giorni) che Kòlja, ormai seriamente spaventato, le diede la sua solenne parola d’onore che simili monellerie non si sarebbero ripetute. Giurò in ginocchio davanti all’icona e sulla memoria del padre, come pretese la stessa signora Krasótkin, e in quell’occasione anche “l’intrepido” Kòlja pianse come un bambino di sei anni per la commozione e madre e figlio durante tutto quel giorno continuarono a gettarsi l’uno nelle braccia dell’altro e piansero singhiozzando. Il giorno dopo Kòlja si svegliò “insensibile” come prima, ma diventò tuttavia più tranquillo, più discreto, più serio e riflessivo. In verità, a un mese e mezzo di distanza egli sarebbe ricaduto in un’altra monelleria, e il suo nome sarebbe giunto persino alle orecchie del nostro giudice di pace, ma la monelleria era già di tutt’altro tipo, addirittura ridicola e stupidella, e poi non la compì lui stesso, come risultò, ma vi fu soltanto coinvolto. Ma di questo si dirà più avanti. La madre seguitò a palpitare e a torturarsi, mentre Dardanèlov acquistava sempre più speranza a misura delle preoccupazioni di lei. Bisogna osservare che Kòlja capiva e intuiva questo lato della psicologia di Dardanèlov, e naturalmente lo disprezzava profondamente per i suoi “sentimenti”; in precedenza aveva anche avuto l’indelicatezza di manifestare questo suo disprezzo in presenza della madre, accennandole vagamente che capiva a cosa mirasse Dardanèlov. Ma dopo il fatto della ferrovia mutò il proprio comportamento anche a questo riguardo: non si permise di fare altri commenti, neanche i più vaghi, e in presenza della madre cominciò a parlare di Dardanèlov nel modo più rispettoso, cosa che la sensibile Anna Fëdorovna capì subito provando un’infinita riconoscenza dal profondo del cuore, ma ciò nondimeno, nel caso del più piccolo, casuale accenno a Dardanèlov persino da parte di un qualche ospite estraneo, se Kòlja era presente ella tutt’a un tratto arrossiva come una rosa dalla vergogna. In questi momenti Kòlja o guardava accigliato verso la finestra oppure osservava se le scarpe non facessero boccacce,4 oppure chiamava rabbiosamente Perezvòn, un cane arruffato e rognoso di taglia abbastanza grande, che un mese prima aveva preso da qualche parte: se l’era trascinato a casa e se lo teneva chissà perché in gran segreto nelle sue stanze senza mostrarlo a nessuno dei compagni. Lo angariava terribilmente, insegnandogli un sacco di esercizi, e ridusse il povero cane al punto che questo ululava quando egli andava a scuola, e al suo arrivo mugolava dall’eccitazione, saltava come pazzo, stava ritto sulle zampe posteriori, si rotolava sul pavimento facendo finta di essere morto e così via: in una parola mostrava tutti gli esercizi che gli erano stati insegnati, e non già su richiesta ma unicamente per la foga dei suoi sentimenti eccitati e per riconoscenza.
A proposito: mi sono dimenticato di ricordare che Kòlja Krasótkin era quello stesso ragazzino che Iljùša, il figlio del tenente a riposo Snegirëv già noto al lettore, aveva ferito al fianco con il temperino per difendere il padre che i ragazzi prendevano in giro chiamandolo “spugna”.
II
I marmocchi
E così quella gelida e umida mattina di novembre il giovane Kòlja Krasótkin era a casa. Era domenica e la scuola era chiusa. Erano già suonate le undici e lui doveva assolutamente uscire “per una faccenda importantissima”, e intanto era rimasto solo a casa a far da guardia, perché era accaduto che tutti gli adulti, per una qualche circostanza speciale e originale, se ne fossero usciti. Nella casa della vedova Krasótkin, oltre all’appartamento che occupava ella stessa, dal lato opposto dell’ingresso c’era un altro appartamentino di due piccole stanze date in affitto alla moglie di un dottore con due figli piccoli. Questa signora aveva la stessa età di Anna Fëdorovna ed era sua grande amica; quanto al dottore, se ne era andato ormai da un anno, prima a Orenbùrg e poi a Tašként, ed era già da sei mesi che di lui non si aveva nessuna notizia cosicché, se non ci fosse stata l’amicizia con la signora Krasótkin a lenire un po’ il dolore della moglie abbandonata, ella si sarebbe consumata tutta dal gran piangere. Ed ecco che, per completare le avversità della sorte, quella stessa notte tra sabato e domenica Katerìna, l’unica cameriera della “dottoressa”,5 tutt’a un tratto e in modo del tutto inaspettato per la propria padrona, le annunciò che avrebbe partorito prima del mattino. Che nessuno l’avesse notato in precedenza parve a tutti un miracolo. Stupita, la moglie del dottore decise, finché c’era tempo, di portare Katerìna da una levatrice in un istituto della nostra città adatto a simili eventi. Dato che aveva molto cara la domestica, mise subito in atto il suo progetto: la portò là e inoltre le restò accanto. Di mattina fu poi necessario l’aiuto della signora Krasótkin, la quale poteva in questo caso chiedere qualcosa a qualcuno e offrire la sua protezione. In tal modo tutte e due le signore erano assenti, e anche la cameriera della signora Krasótkin, comare Agáf’ja, era andata al mercato: e Kòlja si era trovato perciò a essere temporaneo custode e guardia dei “marmocchi”, cioè del figlio e della figlia della moglie del dottore, rimasti soli soletti. Kòlja non aveva paura di fare la guardia alla casa: con lui c’era Perezvòn, al quale era stato ordinato di stare sdraiato bocc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I fratelli Karamàzov
  3. Introduzione di Igor Sibaldi
  4. Cronologia
  5. Nota bibliografica
  6. I FRATELLI KARAMÀZOV
  7. Da parte dell’autore
  8. Parte prima
  9. Parte seconda
  10. Parte terza
  11. Parte quarta
  12. Epilogo
  13. Postfazione di Marcel Proust
  14. Glossario
  15. Copyright