Il Cobra
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Il Cobra

  1. 312 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Washington, 2010. Il presidente degli Stati Uniti è più che mai deciso a riuscire dove tutti finora hanno fallito: sconfiggere i narcotrafficanti che riversano ogni anno tonnellate di cocaina nel mondo occidentale, causando povertà e morte. Una piaga che si sta inesorabilmente diffondendo e che deve essere fermata.
Ma per affrontare uomini così spietati occorre qualcuno come loro, forse peggiore di loro: il Cobra, Paul Devereaux, una delle menti più brillanti del controspionaggio mondiale. All'ex agente della CIA, sprezzante e privo di scrupoli, viene affidata l'operazione volta ad annientare l'impero economico creato dal capo del cartello colombiano, il potentissimo Don Diego Esteban.
Devereaux ha carta bianca e piena fiducia da parte del presidente. Sceglie come suo stretto collaboratore una vecchia conoscenza, Calvin Dexter, l'unico dimostratosi in grado di batterlo sul suo terreno preferito: l'astuzia. Di umili origini e di poche parole, passato attraverso le più crude sofferenze, Dexter è agli antipodi della superbia del Cobra, ma è dotato della sua stessa inflessibile determinazione.
I due orchestrano così la più micidiale offensiva mai tentata contro i narcos colombiani, scatenando una lotta senza precedenti.
Con Il Cobra Frederick Forsyth si riconferma maestro assoluto del thriller attingendo all'attualità più scottante e dando vita a un romanzo coinvolgente ed estremamente documentato dove, seguendo le rotte della droga dagli Stati Uniti al Sudamerica, passando per l'Africa fino all'Europa, fiction e realtà si intrecciano con un impatto formidabile sul lettore.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804603160
eBook ISBN
9788852017209

1

Il ragazzo stava morendo, solo come un cane. Nessuno lo sapeva, e comunque c’era soltanto una persona alla quale sarebbe importato. Ridotto a pelle e ossa dalla droga, era gettato su un materasso puzzolente nell’angolo di una topaia, un edificio abbandonato parte di uno dei tanti progetti di edilizia popolare falliti, ad Anacostia, una zona di Washington di cui la città non va fiera e in cui i turisti non si avventurano mai.
Se avesse saputo che la sua morte avrebbe scatenato una guerra, il ragazzo non avrebbe capito e non gliene sarebbe fregato nulla. Ecco cosa fa, la droga. Ti brucia il cervello.
Quella sera di tarda estate, la cena alla Casa Bianca era ristretta per gli standard presidenziali: dieci coppie, venti commensali in tutto, seduti a tavola dopo l’aperitivo servito nell’anticamera. Diciotto di loro si sentivano decisamente intimoriti all’idea di trovarsi lì.
Nove erano attivisti di spicco del VA, cioè il Veterans’ Administration, l’ente nazionale che si occupa dell’assistenza a tutti coloro che hanno indossato l’uniforme militare degli Stati Uniti in un paese straniero.
I nove anni seguiti all’11 settembre avevano generato un gran numero di veterani di guerra, uomini e donne tornati dall’Iraq o dall’Afghanistan feriti o traumatizzati. In qualità di comandante supremo delle forze armate, il presidente aveva voluto esprimere il suo ringraziamento ai nove ospiti del VA per il loro operato. Così erano stati invitati a cena, insieme alle loro consorti, nella leggendaria sala in cui un tempo aveva pranzato Abramo Lincoln. Dopo essere stati accompagnati dalla first lady in persona a fare un tour degli appartamenti, adesso sedevano sotto lo sguardo attento del maggiordomo in attesa che venisse servita la zuppa. Per questo ci fu un leggero imbarazzo quando l’anziana cameriera si mise a piangere.
Non si lasciò sfuggire alcun rumore ma la zuppiera che teneva in mano cominciò a tintinnare. La first lady, seduta dalla parte opposta della grande tavola circolare, alzò gli occhi e vide le lacrime scendere silenziose sulle guance della donna.
Il maggiordomo, cui non sfuggiva nulla che potesse dispiacere al suo presidente, seguì il suo sguardo e cominciò a spostarsi, silenzioso ma veloce, intorno al tavolo. Con un imperioso cenno del capo ordinò a un cameriere di prendere la zuppiera prima che accadesse un disastro e allontanò l’anziana donna dalla tavola sospingendola verso la porta a ventola che conduceva all’antisala e da lì in cucina. Mentre i due sparivano, la first lady si asciugò la bocca con il tovagliolo, mormorò qualche parola di scusa al generale in pensione seduto alla sua sinistra, si alzò e li seguì.
La cameriera, seduta nell’antisala, continuava a mormorare, scossa dai singhiozzi: «Mi dispiace, mi dispiace». L’espressione sul volto del maggiordomo indicava che era poco incline a perdonarla. Non si scoppia in lacrime di fronte al presidente degli Stati Uniti.
La first lady gli fece cenno di tornare dagli ospiti, quindi si chinò sulla donna che continuava a piangere e ad asciugarsi gli occhi con la cocca del grembiule, senza mai smettere di chiedere scusa.
In risposta alle garbate domande della first lady, Maybelle le spiegò il motivo del suo pianto. La polizia aveva trovato il corpo del suo unico nipote, il ragazzo che lei aveva cresciuto dopo la morte del padre nel crollo delle Torri Gemelle, parecchi anni prima, quando il piccolo aveva solo sei anni.
Le avevano spiegato la causa della morte accertata dal medico legale e comunicato che il cadavere si trovava all’obitorio comunale in attesa di essere preso in consegna.
E così, in un angolo dell’antisala, la first lady degli Stati Uniti e un’anziana cameriera, entrambe discendenti di schiavi, si abbracciarono mentre, a pochi metri da loro, i personaggi di spicco del VA portavano avanti una stentata conversazione davanti a zuppa e crostini.
Durante la cena non fu spesa una sola parola sull’accaduto, e solo due ore dopo, mentre si toglieva lo smoking nel suo appartamento privato, il presidente pose alla moglie l’ovvia domanda.
Cinque ore dopo, nell’oscurità della camera da letto rotta solo dal chiarore delle luci sempre accese di Washington, che filtravano attraverso i vetri a prova di proiettile e i tendoni, la first lady si accorse che l’uomo accanto a lei non dormiva.
Il presidente era stato cresciuto in gran parte dalla nonna. Conosceva bene il rapporto profondo che viene a crearsi tra un ragazzo e la sua nonna. Così, nonostante avesse l’abitudine di alzarsi ogni mattina di buon’ora per dedicarsi a una rigorosa serie di esercizi fisici per tenersi in forma, quella notte non riuscì a dormire. Sdraiato nell’oscurità, continuava a pensare.
Aveva già deciso che il quindicenne, chiunque fosse, non sarebbe finito in una fossa del cimitero dei poveri ma avrebbe avuto un funerale decoroso in un cimitero decente. Quello che lo turbava era ciò che aveva portato alla morte una persona così giovane e cresciuta in una famiglia povera, sì, ma assolutamente rispettabile.
Poco dopo le tre gettò le lunghe gambe snelle giù dal letto e afferrò la vestaglia. «Dove vai?» chiese la moglie con voce assonnata. «Torno subito» rispose lui, annodando la cintura e avviandosi a piedi nudi verso lo spogliatoio.
Quando sollevò il ricevitore, la risposta non si fece attendere. Se anche l’operatrice in servizio a quell’ora di notte, in cui l’attenzione delle persone è al livello più basso, era assonnata, non lo diede a vedere. La donna rispose con voce pronta e squillante.
«Sì, signor presidente?»
La luce sulla console indicava con esattezza chi stava chiamando. Da parte sua, nonostante i quasi due anni passati in quell’edificio, l’uomo di Chicago doveva ancora abituarsi al fatto di poter avere qualunque cosa desiderasse a qualunque ora del giorno o della notte. Bastava chiedere.
«Potrebbe chiamarmi il direttore della DEA, a casa o ovunque si trovi?» chiese. Non vi fu alcun cenno di sorpresa da parte dell’operatrice. Quando sei il presidente, se ti va di scambiare due convenevoli con il pari grado della Mongolia, qualcuno provvederà a organizzare la cosa.
«Subito, signore» disse la giovane operatrice dalla sala comunicazioni sotterranea. Batté in fretta sui tasti del computer. Minuscoli circuiti trovarono la risposta e sullo schermo comparve un nome. Un’altra ricerca fece comparire dieci cifre sullo schermo. Era il numero privato di un’elegante casa di Georgetown. La giovane fece la chiamata e rimase in attesa. Al decimo squillo rispose una voce impastata.
«Ho il presidente in linea, signore» disse l’operatrice. Il funzionario, un uomo di mezz’età, si ridestò immediatamente. La giovane mise in comunicazione il capo dell’ente federale noto come Drug Enforcement Administration con la stanza del presidente. Non rimase in ascolto. Una lucina le avrebbe fatto capire quando i due avevano finito e lei poteva interrompere la comunicazione.
«Scusi se la disturbo a quest’ora» esordì il presidente. L’altro lo rassicurò immediatamente che non era nessun disturbo. «Ho bisogno di informazioni, forse anche di un consiglio. Potremmo incontrarci questa mattina alle nove nell’Ala Ovest?»
Soltanto la sua cortesia la fece sembrare una domanda. I presidenti impartiscono ordini. Il direttore della DEA gli garantì che sarebbe stato nello Studio Ovale alle nove. Il presidente riattaccò, se ne tornò a letto e finalmente riuscì a dormire.
Nell’elegante casa di mattoni rossi a Georgetown, invece, le luci della camera da letto restarono accese, mentre il direttore chiedeva alla moglie, perplessa e assonnata, cosa diavolo potesse essere successo. Un importante dirigente federale gettato giù dal letto alle tre del mattino dal capo supremo in persona non può fare a meno di pensare che sia successo qualcosa. Qualcosa di brutto. Il direttore non tornò a letto: scese in cucina a prepararsi un caffè e ad arrovellarsi.
Dall’altra parte dell’Atlantico era spuntata l’alba. Sul mare cupo sferzato dalla pioggia al largo del porto tedesco di Cuxhaven, la motonave San Cristobal prese a bordo il pilota. Il comandante, il capitano José María Vargas, stava al timone e il pilota accanto a lui gli impartiva istruzioni a bassa voce. Comunicavano in inglese, la lingua franca del mare e del cielo. La San Cristobal virò per imboccare le rotte di navigazione esterna alla foce dell’Elba. Sessanta miglia più avanti sarebbe entrata nel porto di Amburgo, il più grande porto fluviale d’Europa.
La San Cristobal era una nave da carico da trentamila tonnellate battente bandiera panamense. Sul ponte di prua, davanti ai due uomini che scrutavano il mare scuro per individuare le boe che segnalavano il profondo canale, c’erano file e file di container.
Ce n’erano otto strati sottocoperta e quattro sopra. In lunghezza, dal ponte di comando a prua, ce ne stavano quattordici file, e la nave era abbastanza grande da ospitarne otto da una murata all’altra.
I documenti di bordo affermavano, correttamente, che la nave aveva iniziato il suo viaggio a Maracaibo, in Venezuela; poi aveva proseguito verso est per completare il carico con altri ottanta container di banane, a Paramaribo, capitale e unico porto del Suriname. Quello che i documenti non dicevano era che uno di questi ultimi container era molto speciale poiché conteneva altra merce, oltre alle banane.
Questa merce era arrivata con un aereo da trasporto, un vecchio Transall acquistato di seconda mano in Sudafrica. Era decollato da una remota hacienda del nord della Colombia e aveva sorvolato Venezuela e Guyana per atterrare in un’altrettanto remota piantagione di banane del Suriname.
Il carico trasportato dal vecchio aereo era stato stipato, panetto dopo panetto, in fondo al container d’acciaio, impilato da una parete all’altra e da pavimento a soffitto, per una profondità di sette strati. Poi vi era stata saldata davanti una parete di metallo, levigata e pitturata come l’interno del container. Solo allora le banane dure e acerbe erano state appese alle rastrelliere per affrontare, refrigerate ma non congelate, il viaggio verso l’Europa.
Autocarri con il pianale scoperto avevano attraversato la giungla grugnendo e sbuffando per portare la merce fino alla costa, e lì la San Cristobal l’aveva presa a bordo per completare il carico fino al massimo della capienza. Quindi aveva mollato gli ormeggi ed era partita alla volta dell’Europa.
Il capitano Vargas, un marinaio integerrimo totalmente all’oscuro del carico extra preso a bordo, era già stato altre volte al porto di Amburgo ma non mancava mai di meravigliarsi per le sue dimensioni e la sua efficienza. Il vecchio porto anseatico è come due città. C’è la città dove vive la gente, che si sviluppa intorno ai canali dell’Alster, e poi c’è il caotico porto con il più grande complesso per container d’Europa.
Con tredicimila scali l’anno, centoquaranta milioni di tonnellate di carico movimentato su trecentoventi attracchi, il porto container vanta da solo ben quattro terminal: la San Cristobal fu assegnata a quello di Altenwerder.
Mentre la nave da carico transitava alla velocità di cinque nodi davanti al distretto di Harburg che si stava svegliando sulla riva occidentale, ai due uomini al timone venne servito del caffè colombiano e il tedesco ne inspirò soddisfatto l’aroma pieno. Aveva smesso di piovere ed era comparso un timido sole. L’equipaggio era impaziente di scendere a terra.
Era quasi mezzogiorno quando la San Cristobal si infilò nell’attracco a essa assegnato e quasi immediatamente una delle quindici gru a ponte di Altenwerder si posizionò vicino alla nave e cominciò a scaricare i container sulla banchina.
Il capitano Vargas aveva salutato il pilota che, terminato il suo turno, era partito alla volta di Altona, dove viveva. Con i motori spenti, i generatori ausiliari che alimentavano i soli servizi necessari, e gli uomini dell’equipaggio con il passaporto in mano pronti ad affollare i bar di Reeperbahn, la San Cristobal pareva in pace, proprio come piaceva al capitano Vargas, per il quale essa rappresentava casa e bottega.
Lui non poteva sapere che a quattro container di distanza dal ponte di comando, due strati sotto e tre file da dritta, c’era un container con un piccolo, insolito logo sul fianco. Occorreva guardare con cura per trovarlo, poiché i container hanno ogni sorta di graffi, pennellate di vernice, codici identificativi e nomi del proprietario dipinti sulle pareti. Quel particolare logo era costituito da due cerchi concentrici con una croce maltese all’interno del più piccolo. Era il codice segreto della Hermandad, la Fratellanza, l’organizzazione criminale che gestiva il novanta per cento del traffico di cocaina colombiana. E giù, sulla banchina, c’erano un paio di occhi che avrebbero riconosciuto quel simbolo.
La gru sollevava i container dal ponte e li affidava a un esercito di carrelli a guida automatica chiamati Automatic Guided Vehicles o AGV. Comandati da un’alta torre della banchina, i veicoli spostavano i container dal molo all’area di deposito. Fu allora che un funzionario che si aggirava inosservato tra gli AGV individuò il simbolo con i due cerchi. Fece una telefonata con il cellulare e poi se ne tornò in fretta al suo ufficio. A diversi chilometri di distanza, un autocarro partì alla volta di Amburgo.
In quello stesso momento, il direttore della DEA veniva fatto accomodare nello Studio Ovale. Vi era già stato parecchie volte prima di allora, ma la grande scrivania antica, le bandiere e il sigillo della repubblica non mancavano mai di colpirlo. Lui apprezzava il potere e quel luogo era potere puro.
Il presidente era di umore cordiale. Aveva fatto ginnastica, una doccia, colazione e si era vestito con abiti casual. Invitò il suo ospite ad accomodarsi su uno dei divani e prese posto sull’altro.
«Cocaina» disse. «Voglio informazioni sulla cocaina. Avrete sicuramente una quantità di materiale.»
«Una quantità enorme, signor presidente. Pile di fascicoli alte fino al soffitto.»
«Troppo» disse il presidente. «Ho bisogno di un rapporto di diecimila parole. Non paginate di statistiche. Solo i fatti. Una sintesi. Che cos’è, da dove viene (come se non lo sapessi) chi la produce, chi la spedisce, chi la compra, chi la usa, quanto costa, dove finiscono i proventi, chi ne beneficia, chi ci perde, cosa stiamo facendo al riguardo.»
«Solo cocaina, signor presidente? Non altre droghe? Eroina, polvere d’angelo, metamfetamina, marijuana?»
«Solo cocaina. Un rapporto riservato. Solo per me. Ho bisogno di sapere i fatti essenziali.»
«Ordino subito un nuovo rapporto, signore. Diecimila parole. Linguaggio semplice. Top secret. Tra sei giorni va bene, signor presidente?»
Il comandante in capo si alzò, sorriden...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il Cobra
  3. PERSONAGGI
  4. Prima parte - SPIRE
  5. 1
  6. 2
  7. Seconda parte - SIBILO
  8. 3
  9. 4
  10. 5
  11. 6
  12. 7
  13. 8
  14. 9
  15. Terza parte - ATTACCO
  16. 10
  17. 11
  18. 12
  19. 13
  20. 14
  21. Quarta parte - VELENO
  22. 15
  23. 16
  24. 17
  25. EPILOGO
  26. Copyright