Una mente per uccidere
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Una mente per uccidere

  1. 238 pagine
  2. Italian
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Una mente per uccidere

Informazioni su questo libro

In una clinica psichiatrica i potenziali omicidi sono molti. Così, quando Enid Bolam viene uccisa nel seminterrato della Clinica Steen, il sovrintendente Adam Dalgliesh si trova di fronte a troppi possibili colpevoli. Anche perché perfino tra i medici e il personale della clinica scopre che più d'uno si sarebbe liberato volentieri dell'intrigante signorina Bolam. Un caso apparentemente senza soluzione, dunque. Ma Dalgliesh sa come tendere le sue trappole. E ha un gatto come alleato.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804378082
eBook ISBN
9788852015618

1

A Londra esistono alcune cliniche psichiatriche indipendenti con servizio ambulatoriale ed è inevitabile che, occupandosi della stessa specialità medica ed essendo organizzate nell’ambito di un Servizio Sanitario Nazionale Unificato, esse abbiano in comune sia taluni metodi di cura, sia alcune procedure amministrative. La Clinica Steen è una di queste, ma è essenziale precisare con molta chiarezza che si tratta di una clinica immaginaria, situata in una immaginaria piazza londinese, che nessuno dei suoi pazienti o del suo personale, medico o non, esemplifica persone esistenti e che i deplorevoli eventi accaduti nel suo seminterrato traggono la loro origine unicamente da quel curioso fenomeno psicologico che è la fantasia dello scrittore di romanzi polizieschi.
Il dottor Paul Steiner, consulente psichiatra alla Clinica Steen, sedeva nella prima stanza del suo studio al pianterreno e ascoltava la spiegazione estremamente razionalizzata del paziente sul fallimento del terzo matrimonio. Il signor Burge era confortevolmente disteso su un divano per poter esprimere con maggior facilità le complicazioni della propria psiche. Il dottor Steiner gli sedeva dietro, su una delle sedie attentamente studiate dal Comitato Amministrativo dell’Ospedale e da esso trovate adatte per quel genere di lavoro: era funzionale e non brutta, ma non offriva un sostegno alla nuca. Di tanto in tanto un guizzo brusco dei muscoli del collo richiamava il dottor Steiner dal momentaneo oblio alla realtà dell’attività psicoterapeutica che svolgeva il venerdì sera alla clinica. La giornata di ottobre era stata caldissima. Dopo due settimane di improvvise gelate durante le quali il personale della clinica aveva battuto i denti, la data ufficiale di inizio del riscaldamento centralizzato era coincisa con una di quelle perfette giornate autunnali in cui la piazza traboccava di luce solare e il giardino recintato sfolgorava, vivido come una scatola di acquarelli, della bellezza prepotente, da piena estate, delle dalie tardive.
Erano quasi le sette. Fuori il calore della giornata aveva da parecchio ceduto il passo prima alle brume quindi alla gelida oscurità. Ma lì, all’interno dell’edificio, il calore pomeridiano era stato intrappolato e l’aria, greve ed immobile, sembrava appesantita dall’alito di troppe parole.
In un querulo falsetto il signor Burge si dilungava sull’immaturità, sulla freddezza e sull’insensibilità delle proprie consorti. La saggezza clinica suggerì al dottor Steiner, discretamente influenzato dai postumi di un abbondante pranzo e dall’avventata decisione di mangiarsi un krapfen alla crema con il tè pomeridiano, che non era ancora il momento buono per far notare al proprio paziente che il difetto comune alle tre signore Burge era una singolare carenza di buon senso nella scelta del marito. Il signor Burge non era ancora pronto ad affrontare la realtà della propria inadeguatezza.
Il dottor Steiner non provava alcuna indignazione morale per il comportamento del suo paziente, non sarebbe proprio rientrato nella sua etica professionale lasciare che il suo giudizio fosse offuscato da un’emozione così impropria. C’erano poche cose nella vita che suscitavano l’indignazione morale del dottor Steiner e per la maggior parte si trattava di quelle che mettevano a repentaglio le sue comodità. Molte di esse, in effetti, concernevano la Clinica Steen e la sua amministrazione. Disapprovava fortemente la signorina Bolam, funzionaria del reparto amministrativo, le cui proteste circa il basso numero dei pazienti che lui visitava durante i suoi turni e circa il disordine delle sue note spese Steiner considerava come parte di una sistematica politica di persecuzione. Si risentiva del fatto che l’orario del venerdì coincidesse con quello del turno di terapia elettroconvulsiva del dottor James Baguley cosicché i propri pazienti, tutti molto intelligenti e sensibili al privilegio di essere curati da lui, erano costretti a sedere nella sala d’attesa insieme con la folla eterogenea di depresse massaie e di psicotici maleducati che Baguley si deliziava a raccogliere. Il dottor Steiner si era rifiutato di usare una delle sale del terzo piano, che erano state create con la divisione delle grandi ed eleganti stanze georgiane, e che egli disprezzava e considerava celle sproporzionate e sgradevoli, assolutamente inadatte alla classe e all’importanza del lavoro che svolgeva. Tantomeno aveva trovato conveniente cambiare l’orario. Pertanto avrebbe dovuto cambiarlo Baguley, ma costui aveva rifiutato con estrema fermezza e anche in questo il dottor Steiner aveva visto l’influsso della signorina Bolam. La sua richiesta di far insonorizzare la stanza al pianterreno non era stata accolta dal Comitato Amministrativo dell’Ospedale, perché comportava una spesa troppo alta. Non vi erano state tuttavia obiezioni quando Baguley aveva chiesto e ottenuto un nuovo marchingegno costosissimo per mettere in stato di shock i suoi pazienti e far loro scomparire quel poco di cervello che ancora possedevano. La faccenda? Naturalmente, era stata esaminata dal Comitato Medico della Clinica, ma la signorina Bolam non aveva fatto mistero delle proprie simpatie. Nelle sue diatribe con lei il dottor Steiner trovava conveniente dimenticare che la sua influenza sul Comitato Medico era inesistente.
Era difficile trascurare le irritazioni che gli provocavano le sedute di terapia elettroconvulsiva. L’edificio della clinica era stato eretto da uomini che costruivano in modo solido e duraturo e, tuttavia, nemmeno la massiccia porta di quercia dello studio riusciva a frenare l’andirivieni del venerdì sera. La porta di ingresso veniva chiusa alle diciotto e i pazienti serali venivano registrati all’entrata e all’uscita dal giorno in cui, più di cinque anni prima, uno di essi era entrato senza essere visto, si era chiuso nel gabinetto dello scantinato e aveva scelto quell’insalubre luogo per uccidersi. Le sedute psicoterapeutiche del dottor Steiner erano punteggiate dallo squillo del campanello d’ingresso, dal rumore dei passi dei pazienti che andavano e venivano, dalle voci sane dei parenti e di chi accompagnava i malati o salutava la capoinfermiera Ambrose. Il dottor Steiner si chiedeva perché i parenti ritenessero necessario urlare con i malati come se, oltre che psicotici, fossero anche sordi. Probabilmente, dopo una seduta con Baguley e la sua diabolica macchina, lo diventavano. Il fastidio peggiore di tutti era costituito dalla donna addetta alle pulizie, la signora Shorthouse. Sarebbe stato normale che Amy Shorthouse facesse le pulizie la mattina presto, come sicuramente prevedeva l’accordo, in modo da provocare un disturbo minimo al personale della clinica, e invece la signora in questione aveva sostenuto di non riuscire a portare a termine tutto il lavoro se non facendo altre due ore di sera e la signorina Bolam aveva accettato. Ovviamente. Il dottor Steiner pensava che il tardo pomeriggio del venerdì sera si faceva ben poco lavoro di pulizia. La signora Shorthouse aveva una predilezione per i pazienti sottoposti al trattamento elettroconvulsivo – in effetti il suo stesso marito una volta era stato curato dal dottor Baguley – e quando queste sedute avevano luogo era uno spettacolo abbastanza normale vederla aggirarsi per l’atrio e per le stanze al pianterreno. Il dottor Steiner più di una volta ne aveva accennato al Comitato Medico e si era molto irritato per il disinteresse generale dei suoi colleghi verso questo problema. La signora Shorthouse avrebbe dovuto essere tenuta lontana di lì e incoraggiata, invece, a fare il proprio lavoro e non starsene a chiacchierare con i pazienti. La signorina Bolam, tanto inutilmente rigorosa con gli altri membri del personale, non mostrava alcuna propensione a imporre la disciplina alla signora Shorthouse. Era risaputo che non era facile trovare buon personale di servizio, tuttavia una brava funzionaria amministrativa capace di fare il proprio lavoro non avrebbe dovuto avere difficoltà in questo senso; con la debolezza non si risolveva nulla. Ma era impossibile persuadere Baguley a lamentarsi della signora Shorthouse e la Bolam non avrebbe mai criticato Baguley. Probabilmente la poveretta era innamorata di lui. Sarebbe toccato a Baguley assumere un atteggiamento deciso, invece di aggirarsi per la clinica con la schiena curva e con quel ridicolo lungo camice bianco che lo faceva rassomigliare a un dentista di seconda categoria. Veramente quell’uomo non aveva idea della dignità che un lavoro come il loro comportava.
Sul corridoio si udirono dei passi pesanti. Probabilmente era il vecchio Tippett, un paziente di Baguley affetto da schizofrenia che negli ultimi dieci anni aveva regolarmente passato i pomeriggi del venerdì a scolpire legno nel reparto di terapia artistica. Il pensiero di Tippett aumentò la petulanza del dottor Steiner. Quell’uomo era assolutamente fuori posto in una clinica come la Steen. Se stava abbastanza bene da poter vivere fuori dell’ospedale, del che il dottor Steiner dubitava, avrebbe dovuto farsi curare in un Day Hospital.
Erano pazienti come Tippett che davano alla clinica una reputazione dubbia e ne offuscavano la reale funzione di centro psicoterapeutico a orientamento analitico. Il dottor Steiner si sentiva decisamente imbarazzato quando uno dei suoi pazienti, tanto accuratamente selezionati, il venerdì si imbatteva in Tippett, che si aggirava per la clinica strascicando i piedi. Non era nemmeno prudente lasciare che Tippett andasse in giro: un giorno ci sarebbe stato qualche incidente e Baguley si sarebbe trovato nei guai. La gradevole immagine del proprio collega nei guai fu frantumata dallo squillo del campanello. Era davvero una vita impossibile! Stavolta si trattava del personale di un’ambulanza che veniva a portar via un malato. La signora Shorthouse si affrettò ad aprire e li sollecitò a far presto. La sua voce stridula e odiosa echeggiò per il corridoio.«Salve, tesorini. Ci rivediamo la settimana prossima. Fate i bravi, mi raccomando!»
Il dottor Steiner sussultò e chiuse gli occhi, ma il suo paziente, beatamente impegnato nel proprio hobby preferito, che era quello di parlare di sé, non parve accorgersi di nulla. In effetti, negli ultimi venti minuti, il monotono e stridulo lamento del signor Burge non aveva subìto il minimo cedimento.
«Non pretendo di essere una persona facile. Non lo sono. Sono un diavolo d’uomo un po’ complicato e questa è una cosa che Theda e Sylvia non hanno mai capita. Le radici di questo mio carattere vanno molto in profondità, naturalmente. Lei si ricorda la seduta del mese di giugno? Mi era parso che allora fosse emerso qualcosa di piuttosto fondamentale.»
Il dottor Steiner non ricordava la seduta in questione, ma non se ne preoccupava minimamente. Con il signor Burge “qualcosa di piuttosto fondamentale” era invariabilmente qualcosa di molto superficiale, che, si poteva star certi, sarebbe emerso senza difficoltà. Inspiegabilmente seguì un silenzio. Il dottor Steiner, che stava scarabocchiando sul suo blocco, osservò i propri disegni con interesse e preoccupazione; li guardò di nuovo, tenendo il blocco rovesciato, e per un attimo si sentì più preoccupato del proprio subconscio che non di quello del paziente. All’improvviso si rese conto di un altro suono, che proveniva dall’esterno, dapprima debole, quindi sempre più forte. Da qualche parte una donna stava urlando. Un rumore orrendo, continuato, assolutamente animalesco. L’effetto che ebbe sul dottor Steiner fu singolarmente sgradevole. Per natura era timido e molto teso. Anche se il proprio lavoro lo coinvolgeva ogni tanto in crisi emotive, era più portato ad aggirare che ad affrontare un caso di emergenza. La paura scatenò l’irritazione. Balzò dalla sedia esclamando:«No!, veramente, questo è troppo! Che cosa sta facendo la signorina Bolam? Non c’è proprio nessuno che si possa occupare della faccenda?»
«Che cosa succede?» si informò il signor Burge, mettendosi seduto di scatto, come un fantoccio a molla. Aveva abbassato la voce di mezza ottava, avvicinandosi così al suo tono più normale.
«Niente, niente, qualche donna in preda a un attacco isterico tutto qui. Resti dov’è, torno subito» ordinò il dottor Steiner.
Il signor Burge si lasciò cadere di nuovo sul divano, ma occhi e orecchie erano tesi. Il dottor Steiner si ritrovò sul corridoio.
Immediatamente un gruppetto di persone si girò di scatto per guardarlo. Jennifer Priddy, la dattilografa più giovane, era aggrappata a uno degli inservienti, Peter Nagle, che le batteva una mano sulla spalla con espressione di comprensione imbarazzata e sguardo perplesso. Con loro c’era la signora Shorthouse. Le urla della ragazza ora si erano placate, trasformandosi in gemiti, ma il suo corpo era scosso da un tremito violento e il viso era di un pallore mortale.
«Che succede?» chiese brusco il dottor Steiner.«Che cosa le succede?»
Prima che qualcuno avesse modo di rispondergli, la porta della stanza del dottor Baguley si aprì ed egli ne uscì seguito dalla capoinfermiera Ambrose e dalla sua anestesista, la dottoressa Mary Ingram. Il corridoio parve di colpo gremito di gente.
«Calmati, su, da brava» disse in tono mite il dottor Baguley. «Siamo in una clinica.» Si voltò verso Peter Nagle e chiese a bassa voce: «Tra l’altro, che cosa è successo?».
Nagle parve sul punto di parlare, quando, all’improvviso, la signorina Priddy riprese il controllo di sé. Liberandosi dal braccio di Nagle si voltò verso il dottor Baguley e disse con estrema chiarezza: «Si tratta della signorina Bolam, è morta. Qualcuno l’ha uccisa. È nell’archivio e l’hanno assassinata. L’ho trovata io. Enid è stata assassinata!».
Si attaccò di nuovo a Nagle e ricominciò a piangere, ma più sommessamente. Il tremito terribile si era placato. Il dottor Baguley disse all’inserviente: «Portala nello studio e falla stendere sul lettino. Sarà meglio darle qualcosa da bere. Eccoti la chiave, io vengo subito».
Si diresse verso le scale che portavano al seminterrato e tutti gli altri, abbandonando la giovane alle cure di Nagle, lo seguirono. Il seminterrato della Clinica Steen era ben illuminato: ogni locale dell’edificio veniva sfruttato, perché, come accade anche per la maggior parte degli istituti psichiatrici, la clinica soffriva di una cronica mancanza di spazio. Nel seminterrato, oltre la stanza dell’impianto di riscaldamento, lo sgabuzzino dell’impianto telefonico e l’alloggio del portiere, c’erano il reparto di terapia artistica, l’archivio e una sala in cui i malati venivano curati con LSD. Mentre il gruppetto arrivava in fondo alle scale, la porta di quest’ultima stanza fu aperta e comparve l’infermiera Bolam, cugina della signorina Bolam, che diede un rapido sguardo sul corridoio. Una figura spettrale, nella divisa bianca, sullo sfondo buio della stanza alle sue spalle. Con voce dolce e perplessa chiese: «È successo qualcosa? Mi è parso di sentire qualcuno gridare pochi minuti fa.»
Con brusca autorevolezza, la capoinfermiera Ambrose disse: «Non è successo niente. Torni al suo malato.»
La bianca figura scomparve e la porta si chiuse alle sue spalle. Voltandosi verso la signora Shorthouse, la capoinfermiera proseguì: «E lei non ha nulla da fare qua, signora Shorthouse, per favore rimanga di sopra, forse la signorina Priddy gradirebbe una tazza di tè».
Si udì la signora Shorthouse borbottare, poi, però, batté in ritirata. I tre medici, seguiti dalla capoinfermiera, proseguirono per il corridoio. L’archivio era sulla destra, tra la stanza degli inservienti e il reparto di terapia artistica. La porta era socchiusa e la luce accesa.
Il dottor Steiner, eccezionalmente attento a ogni minimo particolare, osservò che la chiave era infilata nella toppa. Non c’era nessuno. I ripiani metallici, sui quali stavano pile di cartellette strettamente legate, correvano fino al soffitto e perpendicolarmente alla porta, formando una serie di stretti corridoi, ciascuno illuminato da una luce fluorescente. Le quattro alte finestre erano sbarrate e sezionate dai ripiani: si trattava di una piccola stanza priva d’aria in cui raramente entrava qualcuno e che ancor più raramente veniva spolverata. Il gruppetto si fece strada lungo il primo corridoio, poi girò a sinistra verso un minuscolo vano buio, dove non c’erano ripiani e si vedeva un tavolino e una sedia che venivano usati per appoggiare le pratiche o per copiare le notizie senza dover portar via l’intera cartelletta. Lì c’era il caos. La sedia era rovesciata. Sparse per terra c’erano cartellette, ad alcune delle quali erano state strappate le copertine e le pagine, altre erano state cacciate disordinatamente sui ripiani che, vuoti, sembravano troppo stretti per aver potuto contenere tanta roba. E, in mezzo a tutta quella confusione, come una grassoccia e assurda Ofelia galleggiante su un mare di carta, c’era il corpo di Enid Bolam. Sul torace le stava posata una grottesca e pesante statuetta di legno, che lei stringeva alla base, offrendo l’orribile parodia della maternità: una donna con la creatura stretta, come di rito, al seno.
Non ci potevano essere dubbi sul fatto che era morta. Nonostante la paura e la ripugnanza, il dottor Steiner non poté sbagliare la diagnosi conclusiva. Fissando la statuetta di legno esclamò: «Tippett! È il suo feticcio! È la scultura di cui andava tanto orgoglioso. Dov’è? Baguley, è un tuo paziente! Sarà meglio che ti occupi tu di questa faccenda!»
Si guardò attorno nervosamente, quasi si aspettasse la materializzazione di Tippett, col braccio levato per colpire; la personificazione stessa della violenza.
Il dottor Baguley, che si stava inginocchiando davanti al corpo, disse con calma: «Tippett stasera non è qui.»
«Ma è sempre qui di venerdì! Quello è il suo feticcio! Quella è l’arma!» esclamò il dottor Steiner, esasperato da quella ottusità.
Il dottor Baguley alzò delicatamente col pollice la palpebra sinistra della signorina Bolam e senza alzare gli occhi disse: «Stamane abbiamo ricevuto una telefonata dall’ospedale di St. Luke. Tippett è stato ricoverato lì per polmonite, credo lunedì scorso. In ogni caso stasera non è qui». Uscì in un’esclamazione improvvisa e le due donne si chinarono maggiormente sul cadavere, mentre il dottor Steiner che, insofferente, era rimasto immobile, lo udiva dire: «Ed è stata anche pugnalata. A quanto pare al cuore, e con uno scalpello dal manico nero. Non appartiene a Nagle, infermiera Ambrose?»
Seguì un silenzio, poi il dottor Steiner udì la voce della donna: «Sembra proprio di sì, dottore, tutti i suoi attrezzi hanno il manico nero. Li tiene nello stanzino degli inservienti.» In tono difensivo soggiunse:«Chiunque potrebbe pr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di P.D. James
  3. Una mente per uccidere
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  11. Copyright