Nota del curatore
In questo libro Kerouac usa lo pseudonimo di “Jack Duluoz”, mentre Allen Ginsberg è “Irwin Garden”, William Burroughs è “Bull Hubbard”, Neal Cassady è “Cody Pomeray”, Gary Snyder è “Jarry Wagner”, Philip Whalen è “Ben Fagan”, Peter Orlovsky è “Simon Darlovsky” e Gregory Corso è “Raphael Urso”.
PARTE PRIMA
Desolazione in solitudine
1
Quei pomeriggi, quei pigri pomeriggi, in cui solevo stare seduto, o sdraiato, sul Desolation Peak, a volte sull’erba alpina, con centinaia di chilometri di roccia innevata tutto attorno a me, il Monte Hozomeen che si profilava a nord, il vasto nevoso Monte Jack a sud, l’incantevole vista del lago più in basso a ovest, oltre la gobba nevosa del Monte Baker, e a est le mostruosità frastagliate e attraversate da torrenti appoggiate alla Cascade Ridge, e dopo quella prima volta in cui mi ero reso conto all’improvviso “Sono io che sono cambiato e ho fatto tutto questo e sono andato e venuto e mi sono lamentato e ho sofferto e ho gioito e ho gridato, non il Vuoto” e così ogni volta che pensavo al vuoto guardavo verso il Monte Hozomeen (perché sedia e letto e prato guardavano a nord) finché non mi resi conto che “Hozomeen è il Vuoto, o almeno Hozomeen rappresenta il vuoto ai miei occhi”. Roccia nuda, picchi alti trecento metri che sporgono da muscoli tesi alti ancora altri trecento metri che sporgono da immense spalle alberate, e il verde serpente ricoperto di abeti aguzzi della mia catena montuosa (Starvation) che le striscia attorno, fino alla sua terribile roccia ricurva di un blu fumoso, e le “nuvole della speranza” lontane e indolenti sopra il Canada con le loro facce aguzze e i loro rilievi paralleli e le loro smorfie e i loro ghigni e i loro vuoti lanuginosi e le loro narici sbuffanti e i loro miagolii schioccanti che dicono “Ehi! Ehilà terra!” – gli abomini di pietra affilata che Hozomeen ha creato dalla roccia nera, e solo durante le tempeste riesco a non vederli e tutto ciò che fanno è restituire dente per dente alla tempesta un imperturbabile manto di foschia nebbiosa – Hozomeen che non si spezza come una baracca sotto la sferza dei venti, che quando è vista a rovescio (come quando mi metto a testa in giù nel cortile) è solo una bolla incombente nell’illimitato oceano dello spazio.
Hozomeen, Hozomeen, la montagna più bella che abbia mai visto, come una tigre a volte con striature, con torrenti inondati di sole, linee serpeggianti di guglie di ombra nella Splendente Luce del Giorno, solchi verticali e collisioni e Buuh! e crepacci, scoppi, vertiginosa magnifica montagna di Provvidenza, nessuno l’ha mai sentita nominare, è alta soltanto 2400 metri, ma che orrore quando per la prima volta ho visto quel vuoto la prima notte del mio soggiorno sul Desolation Peak, emergendo da venti ore di nebbie profonde in una notte stellata improvvisamente oscurate da Hozomeen con i suoi due picchi affilati proprio nel nero della mia finestra – il Vuoto, ogni volta che penso al Vuoto vedo Hozomeen e capisco – Avrei dovuto contemplarlo per più di settanta giorni.
2
Sì, perché avevo pensato, in giugno, mentre facevo l’autostop fino alla Valle dello Skagit a nordovest dello Stato di Washington per il mio lavoro di guardia forestale, “Quando arriverò sulla cima del Desolation Peak e tutti se ne saranno andati via sui muli, mi troverò faccia a faccia con Dio o con Tathagata e scoprirò una volta per tutte qual è il significato di tutta questa esistenza e sofferenza e di questo vano agitarsi” ma invece mi ero trovato faccia a faccia con me stesso, niente alcol, niente droghe, nessuna possibilità di fingere ma faccia a faccia con il vecchio Odioso Me Stesso Duluoz e molte volte ho pensato di morire, di spegnermi di noia, o di buttarmi giù dalla montagna, ma i giorni anzi le ore si trascinavano e io non avevo il fegato necessario per un salto del genere, dovevo aspettare e arrivare a vedere il volto della realtà – e alla fine ecco quel pomeriggio dell’otto di agosto mentre cammino avanti e indietro nell’ampio spiazzo alpino sul piccolo sentiero che ho percorso tante volte, nella polvere e nella pioggia, spesso di notte con la mia lampada a petrolio sistemata in basso dentro la capanna con le finestre ai quattro punti cardinali e il tetto appuntito a pagoda e l’asta del parafulmine, alla fine comprendo, dopo le lacrime, e la fatica, e l’uccisione di un topo e il tentato assassinio di un altro, cose che non avevo mai fatto in vita mia (uccidere animali, neanche roditori), la comprensione arriva con queste parole: Il vuoto non è turbato da alti e bassi di nessun genere, mio Dio guarda Hozomeen, è preoccupato o in lacrime? Si piega davanti alle tempeste o ringhia quando splende il sole o sospira nella sonnolenza del tramonto? Sorride? Non è stato partorito da furiosi sconvolgimenti e da piogge di fuoco e ora è Hozomeen e nient’altro? Perché dovrei scegliere di essere amaro o dolce quando lui non sceglie niente? Perché non posso essere come Hozomeen e Oh Banalità Oh insulsa vecchia banalità della mente borghese “prendi la vita come viene” – È stato quel biografo alcolizzato, W.E. Woodward, a dire: “Non c’è altro nella vita che viverla” – Ma Oh Dio sono stanco! Hozomeen è stanco? E sono stufo di parole e spiegazioni. E Hozomeen?
Aurora Boreale
sopra Hozomeen –
Il vuoto è più immobile
Persino Hozomeen si sgretolerà e cadrà a pezzi, niente dura, è soltanto un viaggiare-in-ciò-che-è-tutto, un attraversamento, è questo che sta succedendo, perché fare domande o strapparsi i capelli o piangere, ottenebrato oppresso sconvolto Lear nella sua brughiera di sofferenze, è soltanto un vecchio relitto barbuto curato da un buffone – essere e non essere, ecco cosa siamo. Il Vuoto ha un ruolo nella vita e nella morte? ha funerali? o torte di compleanno? perché non essere uguale al Vuoto, instancabilmente fertile, al di là della serenità, persino al di là della felicità, solo il Vecchio Jack (e nemmeno quello) e da questo momento in poi vivere la mia vita (nonostante i venti che mi soffiano in gola), quest’immagine inafferrabile in una sfera di cristallo non è il Vuoto, il Vuoto è la sfera di cristallo stessa mentre tutti i miei dolori sono la retina per capelli dei pazzi della Scrittura Lankavatara “Guardate signori, una meravigliosa triste retina per capelli”. Tieni duro Jack, passa attraverso tutto, e tutto è un unico sogno, un’unica apparenza, un unico lampo, un unico occhio triste, un unico mistero di lucido cristallo, un’unica parola. Resta immobile, amico, riconquista il tuo amore per la vita e scendi dalla montagna e cerca semplicemente di essere – essere – essere le infinite fecondità dell’unica mente infinita, non far commenti né lamenti, né critiche, né lodi, né apprezzamenti, non confessare, non dire, non sparare alle stelle del pensiero, ma fluisci, fluisci, sii tutto, sii ciò che è, è solo ciò che è sempre. Speranza è una parola simile a un mulinello di neve. Questa è la Grande Conoscenza, questo è il Risveglio, questa è la Vacuità. Quindi taci, vivi, viaggia, avventurati, benedici e non dispiacerti. Le prugne, stupido, mangia le prugne. E tu esisti da sempre ed esisterai per sempre e tutti i calci contro le innocenti ante della cucina erano solo il Vuoto che fingeva di essere un uomo che fingeva di non conoscere il Vuoto…
Sono un uomo nuovo quando faccio ritorno a casa.
L’unica cosa da fare è aspettare trenta lunghi giorni e scendere dalla montagna e assaporare di nuovo la dolce vita, sapendo che non è né dolce né amara ma soltanto ciò che è, ed è così.
Così per lunghi pomeriggi siedo nella mia comoda sedia (di canapa) davanti al Vuoto Hozomeen, il silenzio soffia nella mia capanna, la stufa è immobile, i piatti scintillano, il fuoco (vecchi legnetti levigati dall’acqua, con i quali accendo piccoli fuochi indiani nella mia stufa per cucinare rapidi pasti) la mia legna da ardere sta accatastata sorniona in un angolo, le mie provviste in scatola aspettano di essere aperte, le mie vecchie scarpe malconce piangono, le pentole sono appese, gli strofinacci penzolano, tutte le mie cose sono ferme in silenzio qua e là nella stanza, gli occhi mi bruciano, si alza il vento e sferza la finestra e le imposte aperte, la luce del tardo pomeriggio disegna ombre e tinge Hozomeen di blunero (rivelando la venatura rossastra nel suo centro) e non mi resta altro che aspettare – e respirare (e respirare è difficile in quest’aria rarefatta, con le narici sibilanti della Costa Ovest) – aspettare, respirare, mangiare, dormire, cucinare, lavare, camminare, sorvegliare, mai un incendio nella foresta – e sognare a occhi aperti, “Che cosa farò quando arriverò a Frisco? Per prima cosa prenderò una stanza a Chinatown” – ma ancora più vicino e ancora più dolce è il sogno a occhi aperti di cosa farò il Giorno della Partenza, un giorno benedetto dei primi di settembre, “Scenderò lungo il sentiero, per due ore, mi incontrerò con Phil alla barca, navigherò fino al Ross Float, dormirò là una notte, chiacchiereremo in cucina, mi imbarcherò la mattina presto sulla Diablo, lascerò quel piccolo molo (dirò ciao a Walt), farò l’autostop fino a Marblemount, ritirerò il mio stipendio, pagherò i miei debiti, mi comprerò una bottiglia di vino e la berrò il pomeriggio sulla riva dello Skagit, e la mattina dopo partirò per Seattle” – e poi ancora, giù fino a Frisco, poi a L.A., poi a Nogales, poi a Guadalajara, poi a Città del Messico – E il Vuoto è ancora immobile e lo sarà per sempre –
Ma io sarò il Vuoto, che si muove senza muoversi.
3
Ah, ricordo certe dolci giornate a casa mia che non apprezzavo quando le vivevo – pomeriggi che, all’età di quindici, sedici anni significavano cracker Ritz Brothers, burro di arachidi e latte al vecchio tavolo rotondo della cucina, e i miei problemi di scacchi o le partite di baseball che giocavo nella mia mente, mentre il sole arancione dell’ottobre di Lowell illuminava obliquo il portico e le tende della cucina formando una pigra freccia polverosa nella quale il gatto si leccava la zampa davanti lap lap con lingua di tigre e dente affilato, patito e impolverato, Dio – così ora nei miei vestiti sporchi strappati sono un vagabondo delle High Cascades e per cucina non ho altro che questa assurda stufa malconcia con la canna fumaria scrostata dalla ruggine – imbottita di vecchi stracci contro il soffitto per tenere lontani i topi la notte – giornate di tanto tempo fa quando potevo andare da mia madre o da mio padre, e baciarli, l’una o l’altro, e dire “Mi piacete perché un giorno sarò un vecchio vagabondo desolato, sarò triste e senza nessuno” – Oh Hozomeen, le sue rocce rilucono nel sole che tramonta, le inaccessibili fortezze dei parapetti si innalzano come Shakespeare nel mondo e per chilometri e chilometri tutto attorno non c’è cosa che conosca il nome di Shakespeare, di Hozomeen, o il mio.
Tardo pomeriggio di tanto tempo fa a casa mia, e persino poco tempo fa nel North Carolina quando per rievocare l’infanzia mi sono mangiato davvero dei Ritz con burro di arachidi e latte alle quattro, e ho giocato la mia partita di baseball seduto alla scrivania, e c’erano ragazzini con le scarpe logore che tornavano a casa da scuola affamati quanto me (e io gli preparavo speciali Bananasplit alla Jack, neanche sei mesi fa) – Ma qui sul Desolation il vento soffia la sua canzone desolata, scuotendo le fondamenta della terra, notte primigenia – Ombre gigantesche di nuvole pipistrello incombono sulla montagna.
Buio presto, presto lavati i piatti della giornata, mangiata la cena, in attesa di settembre, in attesa di ridiscendere nel mondo.
4
Nel frattempo i tramonti sono pazzi scatenati color arancio che infuriano nella malinconia, mentre lontano a sud in direzione delle dolci braccia delle mie señoritas, cumuli di neve rosata attendono ai piedi del mondo, in città imprecisate irradiate d’argento – il lago è una tavola dura, grigia, azzurra, che mi attende in fondo alle nebbie quando la solcherò sulla barca di Phil – Come sempre il Monte Jack riceve una ricompensa di piccole nubi alla base da intellettuale, coi suoi mille campi da football ricoperti di neve, rosa e festosi, quell’unico inconcepibile abominevole uomo delle nevi ancora accovacciato pietrificato sul crinale. In lontananza il Golden Horn è ancora dorato in un grigio sudest. La gobba mostruosa del Sourdough sovrasta il lago. Nuvole scontrose si anneriscono per tracciare cerchi di fuoco in quella fucina dove viene forgiata la notte, montagne impazzite marciano verso il crepuscolo come cavalieri ubriachi a Messina quando Ursula era bella, giurerei che Hozomeen sarebbe capace di muoversi se solo riuscissimo a convincerlo ma lui trascorre la notte con me e presto, quando le stelle pioveranno sui campi di neve, sarà al culmine del suo orgoglio tutto nero e sonnacchioso a nord dove (ogni notte proprio sopra di lui) la Stella del Nord risplende di arancio pastello, di verde pastello, di arancio metallico, di blu metallico, di azzurrite indicando i presagi astrali del suo trucco, lassù, che si potrebbe pesare sulle bilance del mondo dorato.
Il vento, il vento…
Ed ecco il mio povero patetico tavolo umano al quale siedo così spesso durante il giorno, rivolto a sud, le carte, le matite e la tazza del caffè con dentro dei rametti di abete alpino e una strana orchidea di montagna che appassirà in un giorno. Il mio chewingum Beechnut, la borsa del tabacco, polvere, i pulp magazine da quattro soldi che devo leggere, a sud la vista di tutte quelle innevate maestà. L’attesa è lunga.
Starvation Ridge
piccoli ramoscelli
Cercano di crescere.
5
Solo la notte prima che decidessi di vivere amando, sono stato umiliato, insultato e straziato da questo sogno:
«E prendete un bel filetto» dice Mamma dando i soldi a Deni Bleu, ci manda al negozio a comprare una buona cena, ha improvvisamente deciso di riporre tutta la sua fiducia in Deni in questi ultimi anni ora che sono diventato un essere così vago effimero indeciso che maledice gli dei nel sonno e va in giro a capo scoperto, ottuso nella grigia oscurità. Siamo in cucina, tutto è deciso, io non dico niente, ce ne andiamo. Nella camera da letto vicino alle scale il Papà sta morendo, è nel suo letto di morte e praticamente è già morto, ma nonostante tutto questo la Mamma vuole una bella bistecca, vuole riporre in Deni la sua ultima speranza in una sorta di decisiva solidarietà. Il Papà è magro, pallido, lenzuola bianche nel suo letto, mi sembra che sia già morto. Scendiamo nell’oscurità e in qualche modo arriviamo dal macellaio a Brooklyn nelle vie principali del centro nei pressi di Flatbush. Lì nella strada c’è Bob Donnelly con gli altri ragazzi, vagabondi senza cappello. Si è acceso un barlume negli occhi di Deni ora che vede la sua occasione di cambiare rotta e di diventare un delinquente con tutti i soldi della Mamma in tasca, al negozio ordina la carne ma io lo vedo fare delle manovre col resto e cacciarsi dei soldi in tasca e fare una specie di trucco per tradire il patto fatto con lei, il suo ultimo patto. Lei aveva riposto in lui ogni speranza, io non servivo più a niente. In qualche modo ce ne andiamo da là e non torniamo a casa dalla Mamma e finiamo nell’Esercito del Fiume, che viene mandato, dopo aver assistito a una gara di motoscafi, a nuotare a valle nelle acque gelide vorticose pericolose. Il motoscafo, se fosse stato uno di quelli “lunghi” avrebbe potuto tuffarsi proprio sotto la folla e sbucare dall’altra parte e finire la gara ma il corridore (il signor Darling) protesta che a causa della linea corta difettosa il motoscafo si è inabissato sotto il pubblico ed è rimasto incastrato lì senza poter proseguire – grossi galleggianti ufficiali prendono nota.
Con me in testa al gruppo, l’Esercito comincia a nuotare a valle, siamo diretti verso i ponti e le città giù in fondo. L’acqua è fredda e la corrente estremamente infida ma io nuoto e tengo duro. “Come ho fatto a finire qui?” penso. “E la bistecca della mamma? Cosa ne ha fatto Deni Bleu dei suoi soldi? Oh non ho tempo per pensare!” Improvvisamente da un prato vicino alla Chiesa di St. Louis de France sulla rive sento dei ragazzini che mi gridano: «Tua madre è al manicomio! Tua madre è andata in manicomio! Tuo padre è morto!» e mi rendo conto di che cos’è successo e ancora, mentre sto nuotando e sono arruolato nell’Esercito del Fiume, sono bloccato a lottare contro l’acqua gel...