Lettera al mio bambino rapito
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Lettera al mio bambino rapito

  1. 276 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Lettera al mio bambino rapito

Informazioni su questo libro

«Nasser, quando arrivi con il bambino?» «Ascolta, il bambino rimarrà qui a Beirut. Ho deciso che lo cresceranno i miei genitori, dimenticalo. E dimentica anche me, perché mi trasferisco e cambio numero di telefono.» Clic. Questa è una storia vera, drammaticamente vera. La storia di una donna tradita, umiliata e privata di un diritto inalienabile: essere madre di suo figlio.
Sarah Ghazi non avrebbe mai potuto immaginare che Nasser, l'amore della sua vita, quel ragazzo libanese dai modi garbati e dagli occhi profondi, potesse trasformarsi da compagno a carnefice nel giro di pochissimi anni. Tutto comincia in un'università italiana, dove Sarah arriva direttamente dal liceo di Beirut, sua città natale. Fra gli studenti libanesi che frequenta per ambientarsi c'è Nasser. È un ragazzo dell'ultimo anno di Ingegneria, musulmano, bello, gentile. E dopo qualche mese anche innamorato di lei. Agli occhi sognanti di una qualsiasi ragazza di vent'anni è il classico principe azzurro con cui vivere la favola dell'amore. Nel volgere di poco tempo, però, la favola si trasforma in tragedia.
Quando Nasser e Sarah si trasferiscono nel Norditalia, lui entra in contatto con alcuni "fratelli" che lo plagiano e lo cambiano radicalmente. Da musulmano laico si trasforma in un fondamentalista islamico. Si fa crescere la barba, abbandona il lavoro e la famiglia per andare a fare proselitismo e obbliga Sarah a vivere come una reclusa: è vietato uscire di casa e avere rapporti di qualsiasi tipo con gli occidentali, medici compresi; è obbligatorio mettere il burqa in presenza dei "fratelli" e vivere secondo la legge divina. Una gravidanza inaspettata apre una nuova speranza nel cuore di Sarah. A questo punto, la donna immagina di ritrovare anche la vita piena d'amore che ha sognato con Nasser. Ma perfino quest'ultima illusione si infrange contro uno stratagemma che l'uomo si inventa, complice un tribunale religioso, per sottrarle il figlio e consegnarlo ai nonni paterni. Da cinque anni Sarah non vede suo figlio che, nel frattempo, è cresciuto chiamando "mamma" una sorella del padre. Sarah ha ingaggiato una battaglia legale internazionale i cui esiti sono tuttora molto incerti. "Non voglio vendetta, non l'ho mai voluta. Voglio solo ciò che è mio: il mio diritto a essere madre, il mio diritto a non abbandonare mio figlio."

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
Print ISBN
9788804605195
eBook ISBN
9788852017476
Sarah Ghazi

LETTERA AL MIO BAMBINO RAPITO

Mondadori

Lettera al mio bambino rapito

A mio figlio
Omar, anima mia,
la tempesta è in grado di distruggere i fiori, ma non di danneggiare i semi.
Tu sei il mio seme nel mondo, la mia freccia verso il futuro, il mio cuore e il mio sangue.
Tu sei la mia speranza, la mia armonia, il mio perdono.
Spero che tu possa perdonare questa madre incapace di rimanerti accanto, e non avere paura del cumulo di macerie che si porta dietro e dentro.
Spero che tu possa capire le mie scelte, perdonare la mia stupidità, perdonare i tuoi nonni e tuo padre per la loro spietatezza. Spero che tu possa inaugurare l’era della pace.
Credevo che sarei stata destinata io a farlo. Volevo costruire per te il migliore dei mondi. Non ci sono riuscita.
Ebbene, ti passo questo testimone. Ogni tanto peserà molto, lo troverai ingombrante, vorrai appoggiarlo a terra e dimenticarlo in un angolo.
Ma so che non lo mollerai, che avrai la forza per portarlo fino in fondo e tagliare il traguardo.
Omar, anima mia, mi sono persa cinque anni di te: non ti ho visto andare in bicicletta con le rotelle, non ti ho accompagnato a scuola il primo giorno e non ho stirato il tuo grembiulino. Non c’ero quando facevi i capricci, giocavi con le macchinine o guardavi l’Uomo ragno. Non conosco i tuoi amici, non so cosa ti piace fare. Mi sono persa le parole, i sorrisi, gli abbracci, le coccole, i giochi e le corse, non so quanti “mamma”. Non ho potuto esplorare con te il mondo e scoprirlo per la seconda volta.
Avrei voluto essere una madre tutta diversa. Avrei voluto esserci. Lì, vicino a te. A portata di mano, a portata di voce.
Mai avrei voluto amarti a distanza. La bambina senza mamma che sono stata è ancora dentro di me. Ancora ha paura, ancora avverte il disorientamento, teme l’abbandono, crede di aver sbagliato.
Mai, se i tuoi nonni e tuo padre non ti avessero rapito, ti avrei inflitto la stessa mia pena. Mai.
Non ho mai scelto di andarmene. La mia mamma scappò prima che io potessi imprimermi nella mente il suo volto, e non è mai tornata a riprendermi. In cambio il destino mi ha affibbiato un surrogato di madre, cattiva come le matrigne delle favole.
Omar, il destino ha riaperto ogni giorno per anni quella ferita, e ancora fa male.
Avrei potuto arrendermi, diventare una persona diversa, piegarmi e accettare la sofferenza. Non mi sono arresa. E chi non si arrende vince una dose extra di dolore.
Non mi sono arresa. Ho continuato a pensare che l’amore avrebbe vinto quando mio padre mi ha imposto di scegliere tra la mia famiglia – lui, il nido nel quale ero cresciuta: secco, ma pur sempre nido – e l’uomo che pensavo mi avrebbe resa felice.
Ho scelto l’amore. “L’amore vince, no?” mi sono detta. Sbagliavo, ma non ho smesso di crederci.
Ho continuato a pensare che l’amore avrebbe vinto quando quel mio uomo mi ha obbligata a obbedire alla legge di un Dio che non è il mio. Il mio Dio non rinchiude le donne, il mio Dio non le mette a tacere, il mio Dio non le umilia.
Ho continuato a pensare che l’amore avrebbe vinto quando quel mio uomo ti ha consegnato nelle mani dei suoi genitori, prendendosi la mia vita, la mia anima, il mio cuore e il mio sangue.
Mi ha fatto a pezzi. Ma continuo a pensare che l’amore vincerà. Non mi resta altro, senza di te. Solo la speranza.
Ho lottato cinque interminabili anni per riaverti, ma posso giurare su ciò che ho di più caro che non ti lascerò mai, che avrò la forza per impedire a chiunque di strapparti di nuovo dalle mie braccia, che combatterò con la tenacia e il vigore di un guerriero se qualcuno tenterà ancora di separarci.
Ti scrivo, anima mia, perché tu sappia che la tua mamma non ti ha mai abbandonato.
Perché tu sappia che il tuo destino non è il mio: tu sei fatto per la luce e le strade del mondo, nessuno potrà impedirti di percorrerle liberamente.
Tu sei fatto per una verità che risplende e della quale non si deve provare vergogna. Tu non sarai costretto a piangere come faceva la mamma, tenendoti tutto dentro e soffocando le lacrime nel cuscino, perché non serve e ci rende solo uomini un po’ più duri.
Non ti accadrà mai di avere paura di chiedere aiuto, perché allungando la mano troverai la mia, pronta a sostenerti.
Non potrò proteggerti dal dolore: il dolore fa parte della vita e da quella non posso difenderti. Posso solo sperare che questo ti renderà più forte, un uomo migliore, un uomo che saprà che esiste la guerra ma sceglierà sempre la pace.
Voglio che tu sappia che la tua voce vale e conta, che devi e puoi alzarla di fronte alle ingiustizie.
Spero che diventerai un uomo sincero, giusto, indipendente e autonomo, che saprà godere della gioia e non avrà paura delle proprie emozioni. Un uomo rispettoso delle donne e di tutti gli esseri viventi, perché è questo quello in cui credo. Un uomo tollerante e aperto, disponibile ad ascoltare gli altri ma capace di lottare per le proprie idee.
È l’amore, figlio mio, che ci rende grandi. L’amore chiede sacrifici e fatica, ma riempie, completa. Ci permette di innalzarci al di sopra delle miserie, delle crudeltà, delle ansie e dei dolori. Di trovare un significato.
Omar, ti scrivo nella speranza che la conoscenza di quello che è stato ci libererà dal passato e che potremo ricominciare insieme, liberi, leggeri e coraggiosi.
Questa è la mia storia, figlio mio.
Il futuro è solo nostro.

1

Beirut alla fine degli anni Ottanta aveva nascosto le macerie sotto un tappeto di cedri e luci: la città, nuova di zecca, si affacciava su un lungomare che ribolliva di ambulanti e venditori. Si poteva passeggiare in spiaggia di sera, gustando tramonti e frutta.
Dopo la guerra del 1982 il mio Paese è stato squartato come un corpo. Il mio popolo ha cercato di ricucire i pezzi, anche se erano diversi. È quella diversità a fare del Libano il Paese che è oggi. Musulmani, maroniti, armeni, protestanti, copti, ortodossi, cattolici, ebrei, drusi vivono in pace sullo stesso suolo e parlano la stessa lingua. Hanno scelto di accantonare le brutalità, le bombe, le lapidi messe a caso perché non si sapeva chi ci fosse sotto, il tutti-contro-tutti che aveva scandito i mesi precedenti e di andare avanti. Per forza, per diffidenza, per paura, sono riusciti a ricostruire un intero Paese.
Non a tutti, però, è concesso dimenticare.
Mio nonno, il padre di mio padre, era un politico. Militava in un partito antisiriano.
La guerra sembrava finita. E la vita continuava: mia zia aveva appena partorito.
Tradizionalmente, nei primi sette giorni dopo la nascita la madre non esce di casa. Il settimo giorno mia zia era nella casa di suo padre, per mostrare il bambino alla famiglia prima di portarlo in ospedale per la circoncisione.
Mio nonno sarebbe tornato a minuti. Mio padre era uscito, per destino o per fortuna. Fatti pochi passi, sentì un boato. La casa era in fiamme. È corso indietro, ha provato ad aprire la porta per salvarli. Erano dieci, tutti chiusi dentro: sette donne, due uomini e un neonato.
Dalle fessure attorno alla porta, dalle finestre saltate in aria e dal tetto usciva un fumo denso. Fumo nero, il fumo delle bombe e degli incendi. La porta non si apriva. Mio padre l’ha presa a calci, pugni e spallate. Dentro solo buio, corpi scuri e lamenti.
Ha visto con i suoi occhi il corpo carbonizzato di suo fratello, attaccato a quella stessa porta nel disperato tentativo di fuggire. Ha visto con i suoi occhi la madre, le sorelle, i fratelli, il nipote, estinguersi tra le fiamme.
Ha visto la sua famiglia sterminata quel giorno e ha continuato a rivederla nei pochi momenti di lucidità dei giorni successivi quando, svegliandosi per pochi istanti in un letto d’ospedale, continuava a urlare: “Sono morti! Sono tutti morti!”.
A me non è stata concessa la grazia dell’oblio.
Ci sono dolori che ti porti dentro anche se non li hai vissuti. Io mi porto dentro questo composto letale di paura, diffidenza, orrore e rifiuto.
L’attentato è rimasto come un cancro nascosto nelle pieghe della nostra famiglia. Anche noi, come tutto il Paese, abbiamo ricostruito. Ma non abbiamo potuto dimenticare.
Dopo neanche due mesi mio nonno si è risposato, quasi per caso. Cercava una moglie per suo figlio, aveva saputo dell’esistenza di una vedova che aveva perso il marito in guerra, e che aveva una splendida figlia in età da marito. Ma quando ha visto la giovane madre della ragazza ha chiesto subito la sua mano. Lei amava raccontare che il nonno era rimasto a bocca aperta e che talvolta si incantava a guardarla. Aveva perso la testa per quella donna alta, biondissima, con gli occhi azzurri, e volle sposarla subito.
La rabbia di mio padre, ecco un’altra cosa che mi porto dentro, i suoi litigi continui con mio nonno per qualunque frivolezza. La mia non era una famiglia, era un campo di battaglia.
Mio nonno ricominciò subito a fare figli. Ha chiamato le bambine, che hanno più o meno la mia età, con gli stessi nomi delle mie zie morte: Aisha, Amal, Jamila, Safiya e Manaar.
Mio padre ha trovato moglie da solo, non molto tempo dopo. Mia madre era amica di una delle mie zie. Si sono sposati in un paio di mesi. Erano giovani, innamorati e bellissimi. Mio padre è sempre stato un uomo affascinante. Quando mi accompagnava a scuola le compagne mi invidiavano: “Che bello il tuo fidanzato!”. La suora una volta mi ha ricordato che era vietato farsi accompagnare dai ragazzi. Sono anni che non lo vedo, ma credo che continui a dimostrare molto meno della sua età, e spero che non sia cambiata l’espressione malinconica dei suoi occhi, di due colori diversi, uno miele e uno verde.
Io sono nata nel 1984. L’anno successivo è arrivato mio fratello, Amir.
Dopo un paio di mesi, nostra madre è sparita. Ha chiesto alla vicina di casa di tenerci mentre andava a comprare il latte e non è più tornata. Ha lasciato una lettera a mio padre, dicendo che era finita, voleva terminare gli studi e fare la sua vita. Lontano da noi.
Non ci ha mai cercati. Io l’ho cancellata. Mio padre tuttora mi rinfaccia di non averci mai abbandonati in un convento, come usava fare all’epoca chi rimaneva solo con figli indesiderati.
Vivevamo nella casa che era stata di mia zia Aisha prima che morisse. Era un appartamento enorme in un palazzo vicino al mare, con un piccolo giardino di fronte, all’americana.
Mio nonno si era spostato con la nuova moglie in una villa appena fuori città, sulle prime colline, la Beverly Hills del Libano. La gente ci va in estate, per le vacanze, lui invece viveva stabilmente lì, circondato da uno sterminato giardino nel quale c’era posto addirittura per due cavalli.
Il nostro appartamento, invece, era in un quartiere residenziale a Beirut.
L’arredamento rispecchiava il gusto di Aisha: ampie librerie piene dei testi di letteratura che lei studiava, grandi tavoli di legno per accogliere l’intera famiglia, pochi colori sobri.
Mio padre non è mai riuscito a cambiare niente, né a far sparire qualche oggetto: quando si è rotto il frigo ne ha ricavato una libreria pur di non buttarlo.
Avevo una stanza tutta mia. Attorno al letto tenevo tanti pupazzi che credo di aver ereditato, anche quelli, dalla zia. Ne ricordo due in particolare: una tigre stretta e lunga quanto il letto e un cagnolino bianco. In un mobiletto avevo messo in ordine le mie bambole dalla più alta alla più bassa, nella libreria tenevo i testi di scuola e i romanzi. Non credo che tra uno e l’altro ci fossero interstizi: l’avevo riempita all’inverosimile. Dalla finestra che dava sul balcone entrava la luce del sole.
Per un po’ sono stata l’unica donna di casa. Mentre mio padre proseguiva gli studi per diventare chirurgo, io e mio fratello siamo stati affidati a tutte le parenti possibili: zie, cugine, mogli di cugini, affiliate in modo vario alla famiglia.
Non ricordo molto di quel periodo. Un generale senso di disorientamento, forse, che mi è rimasto dentro. Anche oggi continuo ad avere paura che le persone con le quali ho relazioni se ne vadano da un momento all’altro, lasciandomi sola e spaesata.
Era una solitudine invadente, la mia, che non lasciava spazio ai contatti, alle parole, alle risate. Ero una bambina che sapeva di non essere amata, che si sentiva diversa, che provava con tutte le sue forze a piacere e ogni volta falliva. Ero una bambina che aveva paura, che sapeva di non essere indipendente, di non poter prendere le decisioni giuste, di non poter chiedere consiglio. Ero una bambina inascoltata, trasparente, che doveva andare bene a scuola e non esistere in casa. Mi si chiedevano silenzio, disciplina e docilità. Ma ero anche altro. Avrei voluto fare domande, parlare, condividere. Mi sono state insegnate solo regole.
Ho dentro, durissimo, un nucleo di desolazione che non si scioglie e fa male. Ci combatto ogni giorno per inseguire il miraggio di una vita normale, ma sono stata sola troppo a lungo per affidare serenamente a qualcuno me o parti di me.
Non saprei dire nulla del giorno esatto in cui Maryam entrò nella nostra vita.
La rivedo bellissima, come bellissimo è suo figlio, mio fratello Bashir: molto alta, bionda, affascinante.
Prima di conoscere mio padre dirigeva il supermercato della sua famiglia. E ha continuato a dirigerlo anche in seguito: lui la assunse come baby-sitter e si aspettava che ci accudisse come una madre, lei ci chiudeva in una stanza per ore lasciandoci affamati e soli. Avevo quattro o cinque anni.
In Libano si usa dire ai bambini che, se fanno qualcosa di male, un canarino li vede e vola a spifferare tutto ai genitori. Maryam sosteneva che, se avessimo cercato di aprire la finestra del soggiorno o, peggio ancora, di uscire, l’uccellino gliel’avrebbe riferito e lei sarebbe tornata per punirci. Io e Amir credevamo che il canarino fosse nascosto nella caldaia, vicino alla finestra. Mi ricordo di me davanti a quella caldaia bianca: salivo su una sedia per cercare di aprirla, tirar fuori l’uccellino e avvertirlo, ma era troppo in alto. Piangevo e gli urlavo di volare da lei e chiederle di tornare.
Ogni giorno gli descrivevo il percorso: “Giri a destra in fondo alla strada, poi prosegui finché non arrivi a una casa grande. È il supermercato. Dentro c’è una porta azzurra. Dietro c’è Maryam, dille che i suoi figli hanno fame”.
Magari non avevamo veramente fame, però credevo che così sarei riuscita a commuoverla di più che se avessi detto: “Dille che abbiamo paura”.
Mio padre ha fatto l’errore di indurci a chiamare mamma qualunque figura femminile entrasse nella nostra vita. Non saprei contare le “mamme” che ho avuto, per tempi più o meno brevi.
Ho un ricordo che non riesco a mettere a fuoco e che mi tormenta. Ero molto piccola, so che è accaduto ma non come e perché. Dalle finestre della casa di mio nonno vedevo un castello che la sera si illuminava, come quelli delle favole. Il mio sogno era entrarci.
Un giorno mi ci ha portato mio padre, davanti a noi una decina di ragazze sedute, vestite con abiti eleganti e colorati. Per me, principesse. Lui mi ha ...

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