Buio a mezzogiorno
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Buio a mezzogiorno

  1. 308 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Mosca, anni Trenta. Compito del commissario politico Nicolaj Salmanovic Rubasciov è scoprire gli avversari del regime, interrogarli, punirli. Ma il destino porta anche lui sul banco degli imputati, vittima dello stesso aberrante trattamento che fino a poco prima era lui a infliggere. Rubasciov inizialmente si difende, respinge le accuse, resiste alla tortura. Poi, infallibilmente, capitola. L'indottrinamento di un'ideologia politica vissuta con l'assolutismo di una fede granitica ha la meglio su ogni ragionevolezza, su ogni istinto di conservazione. E Rubasciov finisce con il condividere il punto di vista dei suoi inquisitori, e accetta la morte come l'ultimo servizio da rendere al partito. Ispirato al processo Bucharin del 1938, Buio a mezzogiorno mette in scena un feroce conflitto di anime, un dramma di coscienze tratteggiato con grande finezza psicologica; è la tragedia, storicamente realizzata, tra l'aspirazione all'utopia e le conseguenze dell'uso improprio del potere.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
Print ISBN
9788804576396
eBook ISBN
9788852015243

Il primo interrogatorio

Nessuno può governare senza colpe.
SAINT-JUST

1

La porta della cella si chiuse con un colpo secco alle spalle di Rubascëv.
Egli restò appoggiato alla porta per qualche secondo, e accese una sigaretta. Sul lettuccio alla sua destra c’erano due coperte pulite e il pagliericcio era stato rinnovato di fresco. Il lavandino alla sua sinistra non aveva tappo, ma il rubinetto funzionava. Il bugliolo accanto era stato appena disinfettato e non puzzava. Le pareti su ambo i lati erano di solidi mattoni, il che avrebbe attutito il suono di qualsiasi colpo contro il muro, ma là dove il tubo del riscaldamento e quello di scarico lo attraversavano, era stata data una mano di calce, e in quel punto risuonava sonoro; inoltre lo stesso tubo del riscaldamento sembrava un buon conduttore del suono. La finestra aveva inizio all’altezza degli occhi, così che si poteva guardare nel cortile senza doversi sollevare sospendendosi alle sbarre dell’inferriata. Fin lì, niente da ridire.
Rubascëv sbadigliò, si tolse la giacchetta e, arrotolatala, la mise sul pagliericcio a mo’ di guanciale. Poi guardò nel cortile. La neve aveva uno scintillio giallastro alla doppia luce della luna e delle lampade elettriche. Intorno al cortile, lungo i muri, era stato aperto un angusto viottolo per la passeggiata quotidiana. L’alba non era ancora sorta; le stelle brillavano lucenti e gelide, nonostante le lampade. Sul bastione del muro esterno, che si levava proprio davanti alla cella di Rubascëv, un soldato col moschetto abbassato andava avanti e indietro; batteva gli scarponi a ogni passo come se stesse sfilando in parata. Ogni tanto la luce giallastra delle lampade scintillava sulla sua baionetta.
Rubascëv si tolse le scarpe, sempre davanti alla finestra. Finì la sigaretta, buttò il mozzicone per terra ai piedi del suo lettuccio, e rimase seduto sul pagliericcio per alcuni minuti. Quindi tornò ancora alla finestra. Il cortile era immerso nella pace più profonda; la sentinella proprio in quell’istante si voltava per ritornare sui suoi passi; sopra la torretta della mitragliatrice il prigioniero vide una striscia della Via Lattea.
Rubascëv si coricò sul giaciglio, avvolgendosi nella prima coperta. Erano le cinque ed era improbabile che qualcuno là dentro si alzasse, d’inverno, prima delle sette. Egli aveva un gran sonno e, riflettendoci, giunse alla conclusione che ben difficilmente avrebbero cominciato a interrogarlo prima di tre o quattro giorni. Si tolse gli occhiali, li depose sulle mattonelle del pavimento accanto al mozzicone di sigaretta, sorrise e chiuse gli occhi. Era avvolto nel caldo abbraccio della coperta, si sentiva protetto; per la prima volta dopo molti mesi non aveva più paura dei suoi sogni.
Quando, pochi minuti più tardi, il secondino spense la luce dall’esterno e guardò nella cella attraverso lo spioncino, Rubascëv, ex commissario del Popolo, dormiva, le spalle rivolte alla parete, il capo sul braccio sinistro, teso rigidamente fuori della branda; solo la mano all’estremità di quel braccio pendeva molle e contratta nel sonno.

2

Un’ora prima, mentre i due funzionari del Commissariato degli Interni martellavano sulla porta di Rubascëv per farsi aprire e arrestarlo, Rubascëv stava proprio sognando di essere arrestato.
I colpi alla porta si facevano sempre più forti e Rubascëv si era sforzato di svegliarsi. Sapeva come strapparsi lentamente dagli incubi, poiché il sogno del suo primo arresto era ritornato periodicamente per anni e si svolgeva ogni volta con la regolarità di un meccanismo di orologeria. A volte, con un enorme sforzo di volontà, egli riusciva a fermare quel meccanismo e a sottrarsi al sogno da sé, ma questa volta non ci riuscì; quelle ultime settimane lo avevano spossato, sudava e ansimava nel sonno; il meccanismo non si fermava, il sogno continuava.
Sognava, come sempre, che picchiavano alla porta e tre uomini stavano là fuori, in attesa di arrestarlo. Li vedeva attraverso l’uscio chiuso, ritti sul pianerottolo, che picchiavano contro i battenti. Indossavano uniformi nuovissime, l’elegante divisa dei pretoriani della Dittatura germanica; sui berretti e sulla manica portavano il loro simbolo: la croce aggressivamente uncinata; nella mano libera impugnavano pistole enormi fino al grottesco; le loro cinture e gli altri accessori odoravano di cuoio fresco. Ora erano nella sua stanza, al suo capezzale. Due erano giganteschi ragazzi di campagna, le labbra tumide, gli occhi da pesce; il terzo era basso e obeso. Stavano al suo capezzale, le pistole in pugno, e gli alitavano sul volto col fiato grosso. C’era un gran silenzio, eccetto l’ansito asmatico dell’uomo basso e obeso. Poi qualcuno al piano di sopra toglieva un tappo e l’acqua prendeva a scorrere lieve attraverso le tubature lungo le pareti.
Il meccanismo dell’orologio rallentava. I colpi contro la porta di Rubascëv si fecero più violenti; fuori, i due uomini che erano venuti ad arrestarlo, martellavano alternativamente e si soffiavano sulle mani gelate. Ma Rubascëv non poteva svegliarsi, pur sapendo che ora sarebbe seguita una scena particolarmente penosa: i tre in piedi accanto al suo letto, mentre cerca di indossare la veste da camera. Ma la manica è rovesciata all’interno, ed egli non riesce a infilarvi il braccio. Si sforza invano fino a che una specie di paralisi s’impadronisce di lui: non può muoversi, benché tutto dipenda dal suo infilare il braccio nella manica in tempo. Questa tormentosa impotenza dura un certo numero di secondi, durante i quali Rubascëv geme e sente il sudore freddo sulle sue tempie, e il martellare contro la porta penetra nel suo sonno come un lontano rullo di tamburi; il braccio sotto il cuscino si torce nello sforzo febbrile di trovare la manica della veste da camera; alla fine, poi, egli si rilassa al primo colpo terribile che gli viene sferrato contro l’orecchio col calcio della pistola...
Con la familiare sensazione, ripetutasi e vissuta infinite volte, di questo primo colpo – al quale era dovuta la sua sordità – Rubascëv solitamente si svegliava. Per un poco continuava a rabbrividire, e la sua mano, rattrappita sotto il cuscino, continuava ad agitarsi in cerca della manica; poi, di solito, prima di essere completamente sveglio, doveva ancora passare attraverso l’ultima e più terribile fase. Si trattava della sensazione vaga, imprecisa, che quel risvegliarsi fosse il vero sogno e che in realtà egli si trovasse ancora disteso sull’umido pavimento di pietra nell’ombra della cella, il bugliolo ai suoi piedi, accanto alla testa la brocca dell’acqua e qualche briciola di pane...
Anche questa volta, per qualche secondo, perdurò lo stato quasi d’ipnosi, l’incertezza se la sua mano brancicante avrebbe toccato il bugliolo o l’interruttore della lampada sul comodino. Poi la luce si accese abbagliante e la nebbia si dissolse. Rubascëv respirò profondamente parecchie volte e, come un convalescente, le mani incrociate sul petto, assaporò la deliziosa sensazione della libertà e della sicurezza. Si asciugò col lenzuolo la fronte e la zona di calvizie sulla nuca, e ammiccò con rinnovata ironia al ritratto in tricromia del N. 1, il capo del Partito, appeso alla parete sopra il suo letto, e alla parete di tutte le stanze accanto, sopra e sotto la sua; a tutte le pareti del caseggiato, della città, dell’immenso Paese per il quale egli aveva combattuto e sofferto, e che ora lo aveva riaccolto nel suo enorme grembo protettore. Rubascëv era completamente sveglio ora; ma i colpi alla sua porta continuavano.

3

I due uomini venuti ad arrestarlo erano sul pianerottolo buio e si consultavano l’un l’altro. Il portinaio Vasilij, che aveva indicato loro le scale, se ne stava dinanzi al cancello spalancato dell’ascensore, ansimando di paura. Era un vecchio alto e magro; sopra il bavero spelacchiato del cappotto militare che si era buttato sulla camicia da notte si vedeva una larga cicatrice rossa, che gli dava un aspetto da scrofoloso. Era il ricordo di una ferita al collo patita durante la Guerra civile, nel corso della quale, dal principio alla fine, si era battuto nel Reggimento partigiano di Rubascëv. In seguito Rubascëv era stato comandato all’estero e Vasilij aveva avuto sue notizie solo di tanto in tanto, dal giornale che sua figlia gli leggeva la sera. Ella gli aveva letto i discorsi che Rubascëv faceva ai Congressi; erano lunghi e difficili, e Vasilij non riusciva mai del tutto a trovare il tono di voce del piccolo comandante partigiano barbuto, dalle imprecazioni così artistiche e colorite che perfino la Santissima Madonna di Kazan doveva averne sorriso. Di solito Vasilij cadeva addormentato nel bel mezzo di quei discorsi, ma si svegliava sempre quando sua figlia arrivava alla chiusa e all’applauso, che ella poneva in rilievo solennemente, alzando la voce. A ognuna delle conclusioni di prammatica: «Viva l’Internazionale! Viva la Rivoluzione! Viva il N. 1!» Vasilij aggiungeva un «Amen!» di tutto cuore e a bassa voce, in modo da non farsi sentire dalla figlia; quindi si toglieva la giubba, si segnava segretamente, e con la coscienza sporca se ne andava a letto. Anche al di sopra della sua testa era appeso il ritratto del N. 1, con accanto una fotografia di Rubascëv quand’era comandante dei partigiani. Se avessero trovato quella fotografia, probabilmente sarebbe stato portato via anche lui.
Faceva un gran freddo per le scale, e tutto era buio e silenzioso. Il più giovane dei due uomini del Commissariato degli Interni propose di far saltare a revolverate la serratura della porta. Vasilij si appoggiò al cancello dell’ascensore; non aveva avuto il tempo di infilarsi gli stivali a dovere e le mani gli tremavano talmente che non riusciva ad allacciare le stringhe. Il più anziano invece era contrario a sparare; l’arresto doveva essere eseguito con la massima discrezione. Si soffiarono entrambi sulle mani e ripresero a martellare contro la porta, il più giovane col calcio della rivoltella. Due o tre piani sotto una donna cominciò a urlare con voce acuta. «Dille di piantarla» ordinò il più giovane a Vasilij. «Smettetela» gridò il portinaio. «C’è la polizia.» La donna si acquietò all’istante. Il giovane si mise ora a battere contro la porta con i suoi stivali. Il baccano rimbombava per tutte le scale; finalmente la porta cedette e si spalancò.
Tutt’e tre se ne stavano ora accanto al letto di Rubascëv, il giovane con la pistola in mano, l’anziano rigido e impettito come sull’attenti; Vasilij era rimasto dietro di loro di qualche passo, con le spalle appoggiate al muro. Rubascëv si stava ancora asciugando il sudore dalla nuca; li guardò con occhi che il sonno rendeva miopi.
«Cittadino Rubascëv, Nikolaj Salmanovič, noi vi arrestiamo in nome della legge» disse il giovane. Rubascëv cercò a tentoni gli occhiali sotto il cuscino e si sollevò un poco sul letto. Ora che si era messo gli occhiali, i suoi occhi avevano l’espressione che Vasilij e il funzionario anziano conoscevano dalle vecchie fotografie e dalle stampe a colori. Il funzionario anziano s’irrigidì ancora di più sull’attenti; il giovane, che era cresciuto sotto nuovi eroi, si avvicinò al letto di un passo; gli altri tre videro che stava per dire o fare qualcosa di brutale per nascondere il suo imbarazzo.
«Riponi pure quella rivoltella, compagno» gli disse Rubascëv. «E, poi, che cosa vuoi da me?»
«Sei in arresto, hai sentito» rispose il ragazzo. «Vestiti e non fare storie.»
«Avete il mandato?» chiese Rubascëv.
L’anziano trasse di tasca un foglio, che porse a Rubascëv, e si ricompose sull’attenti.
Rubascëv lo lesse attentamente. «Bene, benissimo» osservò. «In queste faccende non si sa mai come regolarsi.»
«Vestiti e spicciati, t’ho detto» lo incalzò il ragazzo. Si capiva che la sua brutalità non era più affettata, ma gli era naturale. “Bella generazione che abbiamo prodotto” pensò Rubascëv. Gli vennero in mente i cartelloni di propaganda in cui la gioventù veniva sempre rappresentata con un volto ridente. Si sentì stanchissimo. «Passami la mia vestaglia, invece di gingillarti con quella rivoltella» disse al ragazzo. Questi arrossì, ma non aprì bocca. L’anziano porse a Rubascëv la veste da camera. Rubascëv vi introdusse il braccio con pacata lentezza. «Questa volta ci passa almeno» disse con un sorriso forzato. Gli altri tre, che non capirono a che cosa alludesse, rimasero in silenzio. Lo guardarono scendere lentamente dal letto e raccogliere le vesti sgualcite.
La casa era immersa nel più profondo silenzio dopo l’urlo della donna, ma si aveva la sensazione che tutti gli inquilini fossero desti nei loro letti, col fiato sospeso.
Quindi udirono qualcuno al piano di sopra togliere il tappo e l’acqua mettersi a scorrere lievemente lungo le tubature.

4

Dinanzi al portone attendeva l’automobile su cui erano venuti i due funzionari, una macchina americana ultimo modello. Era ancora buio; l’autista aveva acceso i fari, la strada era addormentata o fingeva di esserlo. Salirono, prima il ragazzo, poi Rubascëv, infine l’anziano. L’autista, pure in uniforme, mise in moto. Voltato l’angolo, la via non era più asfaltata; si trovavano ancora nel centro della città; intorno, grandi edifici moderni di nove e dieci piani, ma le strade erano ridotte a viottoli di campagna dal fango ghiacciato, e sulle carreggiate lasciate dai veicoli si vedeva un leggero spolvero di neve. L’autista procedeva a passo d’uomo e la superba automobile dalla ripresa possente scricchiolava e gemeva come un carro di buoi.
«Accelera» disse il ragazzo, incapace di sopportare il silenzio che regnava all’interno dell’automobile.
L’autista alzò le spalle, senza voltare il capo. Aveva lanciato uno sguardo indifferente, se non ostile, a Rubascëv, quando questi era salito in macchina. Rubascëv aveva avuto una volta un incidente, e l’uomo al volante dell’autoambulanza lo aveva guardato allo stesso modo. Il viaggio lentissimo, tutto sobbalzi, lungo le strade abbandonate, con le luci vaganti dei fari dinanzi agli occhi, era difficile da sopportare. «È molto lontano?» chiese Rubascëv, senza guardare i suoi compagni. E stava quasi per aggiungere: “l’ospedale”. «Una buona mezz’ora» rispose l’anziano. Rubascëv sfilò le sigarette dalla tasca, se ne mise una in bocca e offrì automaticamente il pacchetto. Il giovane rifiutò con un gesto brusco, l’anziano ne prese due e ne passò una all’autista. Questi si toccò il berretto e accese la sigaretta agli altri, tenendo il volante con una mano. Rubascëv sentì il cuore farglisi più leggero, e nello stesso tempo si infastidì. “Proprio il momento di diventare sentimentali” pensò. Ma non seppe resistere alla tentazione di parlare e di destare un po’ di calore umano attorno a sé. «È un peccato per la macchina» disse. «Le auto straniere costano un mucchio di quattrini e dopo sei mesi delle nostre strade sono da buttar via.»
«Proprio così» rispose il funzionario anziano. «Le nostre strade sono terribilmente primitive.»
Dal suo tono Rubascëv indovinò che l’uomo aveva capito la sua tristezza. Si sentì come un cane a cui sia stato gettato un osso; decise di non aprire più bocca. Ma a un tratto il ragazzo disse con tono aggressivo: «Sono forse meglio negli Stati capitalistici?».
Rubascëv fu costretto a sogghignare: «Sei mai stato all’estero?» chiese.
«Lo so lo stesso come vanno le cose in quei luoghi. Non c’è bisogno che tu mi racconti delle storie in proposito.»
«Per chi mi hai preso, esattamente?» chiese Rubascëv con estrema placidezza. Ma non seppe impedirsi di aggiungere: «Dovresti davvero studiare un poco la storia del Partito».
Il ragazzo non rispose e si mise a fissare la schiena dell’aut...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Arthur Koestler. di George Orwell
  4. BUIO A MEZZOGIORNO
  5. Il primo interrogatorio
  6. Il secondo interrogatorio
  7. Il terzo interrogatorio
  8. La finzione grammaticale
  9. APPENDICE
  10. Copyright