Sono nato in una famiglia povera. Se dovessi riassumere in poche parole cosa significhi per me essere povero, direi che è come vivere in un corpo senza braccia davanti a una tavola apparecchiata.
Non conosco la povertà che si vede spesso in televisione, quella di gente che muore di fame e non ha nulla. Io conosco la povertà di chi possiede qualcosa, di chi ha da mangiare e ha anche un tetto, un televisore, una macchina. La povertà di chi può fingere di non esserlo. È una povertà piena di oggetti, ma anche di scadenze. In questo tipo di povertà sei fortunato e sfortunato allo stesso tempo: c’è chi sta meglio di te e chi sta peggio. Però è comunque vergogna, è colpa, è continua castrazione. E poi ansia, precarietà del tutto: è rabbia repressa, è abbassare sempre la testa. Non sei così povero da non avere abiti addosso, ma i vestiti che indossi spesso ti mettono a nudo e rivelano il tuo segreto. Basta un rammendo a dire chi sei. È un continuo pensiero che ti occupa il cervello e che non lascia spazio a nient’altro, soprattutto a nessun tipo di bellezza, perché la bellezza non è funzionale, non è utile. È un lusso che non ti appartiene.
Spesso vivi una vita apparentemente normale agli occhi degli altri, ma in realtà sei soggetto a una legge diversa: quella della privazione. E pian piano impari a mentire. Questo tipo di povertà è menzogna. Bugie a volte grandi, a volte piccole. Impari a dire che il telefono di casa è rotto, invece te lo hanno staccato; che non puoi uscire a cena perché hai un impegno; che la macchina l’hai prestata, invece non hai pagato l’assicurazione o non hai i soldi per fare benzina.
Diventi esperto nell’arte di mentire e soprattutto in quella di arrangiarti: l’arte del riparare, rattoppare, incollare, inchiodare. Questo tipo di povertà è la tapparella rotta che tieni alzata infilando sotto la cinghia un pezzo di cartoncino, che se per caso si sfila la tapparella scende di scatto come una ghigliottina. È la piastrella mancante in bagno, è il buco sotto il lavandino che fa intravedere le tubature, è il pezzo di formica saltato nell’angolo della credenza. È il cassetto che ti resta in mano quando lo apri. È l’anta dell’armadio che per chiuderla devi alzarla. Sono le prese della corrente che penzolano perché quando togli la spina escono dal muro, e per rimetterle dentro devi sistemare le due alette di ferro dentate. È la tappezzeria che si solleva tra le giunture. È la macchia di umidità in cucina, con la vernice che si gonfia come pasta lievitata, e quelle nuvolette sono così invitanti che devi lottare contro la tentazione di prendere una scala e salire per farle scoppiare. Sono le sedie che si scollano e diventa pericoloso sedercisi sopra.
È una povertà fatta di oggetti tenuti insieme da colla e nastro adesivo, che ha bisogno di un cassetto pieno di attrezzi per riparare una realtà che va a pezzi ovunque. Tutto è precario, tutto è provvisorio, tutto è fragile e in attesa di momenti migliori. Ma questi oggetti rattoppati, in effetti, poi durano tutta la vita. Nulla è più duraturo di una cosa provvisoria.
La prima volta che ho sentito mio padre dire “sono un fallito” non potevo avere la minima idea di cosa potesse significare. Ero troppo piccolo. Quando l’ha detto, al bar erano venuti dei signori per portare via delle cose. Lì ho imparato un’altra parola: “pignoramento”. Da allora, ogni volta che degli sconosciuti entravano al bar o in casa e portavano via un oggetto, io non chiedevo più nulla. Perché, anche se non sapevo, capivo. E io, bambino, imparavo. Per esempio non sapevo il motivo, però capivo che era per colpa di quelle persone se la macchina di mio padre era intestata a mio nonno, il padre di mia madre. Così si diceva, “intestata”: non avevo la minima idea di cosa volesse dire. Non sapevo niente, ma capivo tutto.
Sono cresciuto vedendo mio padre ammazzarsi di lavoro nel tentativo di risolvere i problemi.
Aveva un bar e ci lavorava sempre, anche se stava male. Persino la domenica, quando era chiuso, passava gran parte della giornata lì dentro a riordinare, sistemare, pulire, aggiustare.
Non sono mai andato in vacanza con i miei genitori. D’estate venivo depositato dai nonni materni che prendevano in affitto una casa in montagna.
La domenica mia madre veniva da sola dai nonni a trovarmi e mi portava i saluti di mio padre. Non abbiamo neanche una fotografia di noi tre insieme in qualche località turistica. Non potevamo permetterci di andare tutti insieme in vacanza. Non c’erano i soldi.
I soldi… Ho visto mio padre chiederli in prestito a tutti. Parenti, amici, vicini di casa. L’ho visto umiliarsi e farsi umiliare. Quante volte da bambino mi capitava di andare a casa di suoi amici, gente che nemmeno conoscevo, e aspettare in cucina. Magari con la moglie, mentre lui andava in un’altra stanza con l’amico a fare “una cosa”. La signora sconosciuta mi chiedeva se volevo qualcosa e io dicevo sempre di no. Non parlavo molto, ero sempre a disagio e tutti mi sembravano giganti. In fondo credo fosse la stessa sensazione che provava mio padre.
Ha chiesto soldi a tutti, proprio a tutti. Anche a me, che ero un bambino. Un giorno è venuto nella mia cameretta a trovarmi perché avevo la febbre. Stavo male, ma ero felice perché mia madre mi aveva appena detto che il motivo della febbre era che stavo diventando grande: non appena mi fosse passata, sarei stato più alto.
«Lo sai, papà, che quando guarisco sarò cresciuto? Diventerò grande come te?»
«Certo, anche più grande di me.»
Prima di uscire dalla cameretta ha preso il mio salvadanaio, un ippopotamo rosso. Mi ha detto che avrebbe messo i soldi in banca. Mi ha convinto dicendomi che me ne avrebbe restituiti di più quando li avrei chiesti indietro.
Col tempo ho capito come stavano veramente le cose riguardo al mio salvadanaio e mi sono sentito tradito, ingannato. Ho imparato da subito ad avere poca fiducia nei confronti degli adulti, per questo sono cresciuto con una fragilità dentro costretta a mascherarsi da forza. Non ho avuto accanto una figura forte che mi facesse sentire al sicuro, che mi facesse sentire protetto. Molte persone, crescendo, si accorgono che quel gigante che è il padre non è poi così potente. Io l’ho scoperto fin da bambino. Come tutti anch’io avrei voluto considerare mio padre invincibile, ma quell’idea per me è durata poco.
Mio padre lavorava, lavorava, lavorava. Lo ricordo mentre si addormentava a tavola guardando il telegiornale. La testa gli cadeva in avanti lentamente finché un colpo finale, come una frustata con il collo, lo svegliava. Si guardava in giro per rendersi conto dov’era e per capire se io e mia madre lo avevamo visto. Tutto questo giro di perlustrazione lo faceva muovendo la bocca come se stesse masticando. Come fanno le mucche.Io lo osservavo e vedevo, prima della frustata, dei piccoli cedimenti della testa e aspettavo che arrivasse quello forte. E ridevo. Quando capiva che lo stavo fissando e che mi ero accorto di tutto, mi sorrideva e mi faceva l’occhiolino.Io ero felice. Ogni volta che mi faceva l’occhiolino, magari di nascosto da mia madre, mi faceva sentire così complice e vicino a lui: mi sembrava una cosa solo per noi due uomini. Allora cercavo di farglielo anch’io ma, siccome non ne ero capace, chiudevo entrambi gli occhi. O ne chiudevo soltanto uno usando il dito. Ogni volta speravo che fosse l’inizio di una nuova amicizia tra noi, più intima.Che finalmente avesse deciso di giocare un po’ più con me e di portarmi sempre con sé. Ero così felice che le gambe penzolanti dalla sedia iniziavano ad andare avanti e indietro. Come se nuotassi in quella sensazione. Invece no, la complicità finiva lì. Dopo aver mangiato si alzava per andare a sbrigare delle piccole faccende, o per tornare a lavorare. Io ero piccolo e non capivo, semplicemente pensavo che non mi volesse, che non desiderasse stare con me.
I miei tentativi per attirare la sua attenzione e il suo amore fallivano sempre. Con mia madre ci riuscivo, con lui niente. Quando dicevo qualcosa di divertente lei rideva, mi faceva i complimenti, mi abbracciava e io sentivo di avere un potere smisurato: potevo cambiarle l’umore, potevo farla ridere. Con lei avevo i superpoteri. Con mio padre, invece, non funzionavano. Non riuscivo a farlo innamorare di me.
Mi ricordo perfettamente alcune cose belle che ha fatto per me e con me. Come quando mia madre è stata ricoverata in ospedale per un piccolo intervento e mia nonna si è trasferita a vivere da noi per aiutarci. Nonna dormiva in camera mia, mentre io stavo nel lettone con lui. In quei giorni, al mattino, prima di scendere al bar a lavorare mi preparava per colazione il budino alla vaniglia. Ricordo perfino com’era apparecchiata la tavola.
O come quel sabato sera che siamo andati io, lui e mia madre a mangiare in pizzeria. Era la prima volta che uscivo a cena con loro. Mia madre ha detto: «E lunedì, quando viene il rappresentante dell’acqua a prendere i soldi, come facciamo?».
«Non lo so, ci penseremo domani» ha risposto lui.
Mentre andavamo verso la pizzeria, mio padre mi ha messo sulle sue spalle. Ricordo tutto perfettamente. All’inizio teneva le mie mani tra le sue, poi mi ha preso per le caviglie e io ho messo le mie mani sulla sua testa, afferrandolo per i capelli. Posso sentire ancora la sensazione del suo collo tra le gambe. Ero altissimo. Il mio cuore non è mai stato così in alto. Quella sera non so cosa gli avesse preso, ma era un padre. Addirittura è stato lui a tagliarmi la pizza. L’unica volta in tutta la sua vita. Era simpatico, rideva alle mie battute. Anche mia madre rideva. Quella sera eravamo una famiglia felice. Soprattutto lui. Forse l’uomo che ho visto quella sera è il mio vero padre. O, almeno, quello che sarebbe stato senza tutti i suoi problemi.
Tornando a casa in macchina, in piedi dietro di loro, tra i due sedili, pensavo che avrei voluto che quella sera non finisse mai. Per questo ho detto: «Quando arriviamo a casa posso stare ancora un po’ sveglio con voi?». Poi, però, mi sono addormentato in macchina.
La mattina dopo tutto era come sempre. Era domenica. Mia madre in cucina, mio padre al bar a sistemare.
«Questa sera andiamo ancora a mangiare la pizza?»
«No, questa sera restiamo a casa.»
Lei se ne è andata due anni fa, o ieri sera, o forse mai, non so. Quando non stai più con la persona con cui vorresti stare, il pensiero di lei ti entra nella testa nei momenti più impensati. All’improvviso vieni assediato da ricordi e immagini. Succede ogni volta che il presente sembra passare nella tua vita senza degnarti nemmeno di uno sguardo, e allora finisce che vivere negli angoli e nelle pieghe di giorni passati è più bello di ciò che stai vivendo. “I’ll trade all my tomorrows for a single yesterday…”: cambierei tutti i miei domani per un solo ieri, come canta Janis Joplin.
Non stare più con la persona con cui vorresti stare significa allungare la mano di notte nel buio per cercarla. Significa svegliarsi le prime mattine e, guardando il suo lato del letto, stropicciarsi gli occhi sperando sia solo stanchezza. Significa avere il fornello sporco di caffè, perché non ti ricordavi più di averlo messo sulla fiamma. Significa mettere due volte il sale nella pasta. O non metterlo affatto.
Non stare più con la persona con cui vorresti stare significa rifare: un sacco di cose, un sacco di pensieri. Significa pulire, grattare, scrostare, raccogliere, riordinare, buttare. Significa piantare chiodi nel muro, nel legno, nel nulla. Significa comprare cose per riempire spazi vuoti. Significa tornare indietro quando si legge un libro perché non afferri le parole e, quando te ne accorgi, sei a un punto della storia che non capisci. Significa tornare indietro anche con i DVD, schiacciare REWIND, perché non hai capito cosa è successo.
Non stare più con la persona con cui vorresti stare significa semplicemente tornare indietro. Guardare indietro molto più che avanti. È un viaggio che fai appoggiato alla ringhiera di poppa, non di prua.
Non stare più con la persona con cui vorresti stare significa non dover chiamare dal lavoro per dire che sei in ritardo. A nessuno interessa, nessuno ti aspetta. Significa anche non poterti lamentare della giornata quando rientri a casa. E non è cosa da poco.
Significa accorgersi di tutti i cambiamenti, anche i più piccoli, pratici, quelli che senza una donna in casa avvengono: il sacchetto della spazzatura rimane in casa per giorni, anche se lo metti davanti alla porta di ingresso. La carta igienica in bagno è appoggiata a terra o sul termosifone, mai al suo posto. Le lenzuola non sono profumate come prima. Ricordo ancora il profumo delle sue lenzuola una delle prime notti che ho dormito da lei. A casa mia quel profumo c’è stato solo quando è diventata casa nostra. Adesso è tornata casa mia e lei si è portata via anche tutti i profumi di buono. Neppure i silenzi, da quando se ne è andata, sono gli stessi. Capitavano spesso tra noi perché una cosa bella del nostro rapporto era che non ci sentivamo in dovere di intrattenere l’altro. Con lei i silenzi erano belli, erano tondi, morbidi e accoglienti, mentre adesso sono scomodi, spigolosi e lunghi. E, se devo essere sincero, per me sono fin troppo rumorosi. Non mi piacciono per niente.
Prima di conoscere lei avevo alcune convinzioni su di me. Lei ha cercato di farmi capire che erano sbagliate e finalmente, dopo tanto tempo, ci sono riuscito. Ci ho messo un po’, anzi, ci ho messo troppo tempo, e quando ci sono arrivato lei se ne era già andata.
Mi manca. Non ho mai amato nessuna come ho amato lei. Adesso che tante cose le ho capite e sono cambiato, non sono in grado di stare con nessun’altra. Non mi incastro più: per farlo, avrei bisogno ancora delle mie vecchie convinzioni.
Sono finito a letto poche volte con altre donne. E, quando è capitato, sempre con quelle che si portano via anche il ricordo. Con una di loro è successo addirittura che, mentre eravamo a letto nudi, mi sono reso conto che l’odore della sua pelle era diverso da quello di cui ero ancora innamorato e mi sono sentito a disagio. Mi sono rivestito, scusandomi, e me ne sono andato.
Ci sono storie che durano anni e in questi anni magari ci s’innamora e disamora. Alcuni smettono di amarsi, ma rimangono comunque insieme. Altri decidono di lasciarsi, ma per farlo hanno bisogno di tempo. Prima cercano di capire se sono veramente sicuri, o se è solo una crisi passeggera. Se poi alla fine si convincono che è veramente finita, devono comunque trovare il modo di farlo, trovare le giuste parole per lenire il dolore. Ci sono persone che su questo punto possono anche perdere mesi,a volte addirittura anni. C’è anche chi ci ha perso una vita e quel passo non l’ha mai fatto. Molti non riescono a lasciare, semplicemente perché non sanno dove andare, oppure perché non riescono a sopportare l’idea di essere i responsabili del dolore dell’altro. Un dolore intenso, che può provare solo qualcuno con il quale abbiamo vissuto in intimità. Si ha la convinzione che un dolore improvviso sia troppo forte e faccia maggior danno di un dolore più piccolo, ma dosato giorno dopo giorno.
Questi rapporti vanno avanti anche se chi sta per essere lasciato lo ha già capito. Perché preferisce far finta di niente. Quando nessuno dei due è in grado di affrontare la situazione, il meccanismo si inceppa. Entrambi sono sopraffatti dalla propria incapacità e da quella dell’altro. Allora, pr...